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Nel Mezzogiorno 1 lavoratore su 5 è in nero

In dieci anni 700 mila persone sono fuggite dal Sud Italia. Il quadro diventa sconsolante se confrontato con le dinamiche economiche degli altri paesi europei. In dieci anni, dal 1995 al 2005, le regioni meridionali sono sprofondate nella classifica europea, situandosi in posizione comprese tra 165 e 200 su un totale di 208. Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese spaccato in due sul fronte migratorio

Un Mezzogiorno in recessione, colpito particolarmente dalla crisi nel settore industriale, che da sette anni consecutivi cresce meno del Centro-Nord, cosa mai avvenuta dal dopoguerra a oggi. Un’area periferica da cui si continua a emigrare, dove crescono gli anziani ma non arrivano gli stranieri, dove esistono le realtà economiche eccellenti ma non si trasformano in sistema né si intercettano stabilmente investitori e turisti stranieri.
Questa la fotografia che emerge dal Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 2009 presentato a Roma. Nel 2008, si legge nel report, il Pil del Sud è calato dell’1,1 per cento, con una minima percentuale di differenza rispetto al Centro-Nord (-1 per cento). Il Pil per abitante è pari a 17.971 euro, il 59 per cento del Centro-Nord (30.681 euro), con una riduzione però del divario di oltre due punti percentuali dal 2000, dovuta solo alla riduzione relativa della popolazione. Un altro indicatore rende l’idea della situazione stagnante: nel 1951 nel Mezzogiorno veniva prodotto il 23,9 per cento del Pil nazionale. Sessant’anni dopo, nel 2008, la quota è rimasta sostanzialmente immutata (23,8 per cento). Dal 1951 al 2008 il Sud è cresciuto circa agli stessi ritmi del Centro-Nord, ma non è riuscito e non riesce a recuperare il gap di sviluppo. A livello regionale la Campania mostra nel 2008 una diminuzione del Pil particolarmente elevata (-2,8 per cento), mentre le altre regioni meridionali presentano perdite più contenute. Meno colpita dalla crisi la Puglia (-0,2 per cento).

A livello settoriale l’agricoltura meridionale ha tenuto molto più di industria e servizi e ha invertito il trend negativo iniziato nel 2005.
In particolare, molto positiva è stata la performance della Basilicata, con una crescita del prodotto agricolo nel 2008 rispetto al 2007 di ben il 24 per cento. A fare le spese maggiori della crisi l’industria, con un calo del valore aggiunto industriale nel 2008 del 3,8 per cento, mentre le produzioni manifatturiere hanno segnato un calo di oltre il 6 per cento. A tirare giù l’industria meridionale soprattutto macchine e mezzi di trasporto (-10,5 per cento), settore dei metalli e chimico-farmaceutico (-7,1 per cento). In controtendenza invece il settore energetico. Perdita più contenuta nel settore dei servizi, dove, dopo quattro anni di forte crescita, nel 2008 il Pil è sceso dello 0,3 per cento, con un calo quasi del 3 per cento nel comparto commercio. Due le cause principali dell’andamento recessivo: investimenti che rallentano, famiglie che non consumano. Queste ultime infatti hanno ridotto al Sud la spesa dell’1,4 per cento contro il calo dello 0,9 per cento del Centro-Nord. Mentre gli investimenti industriali sono scesi del 2,1 per cento annuo dal 2001 al 2008, tre volte tanto rispetto al Centro-Nord (-0,6 per cento), anche a seguito della riduzione o abolizione di alcune agevolazioni (credito d’imposta, legge 488).

Il quadro, rileva lo Svimez, diventa sconsolante se confrontato con le dinamiche economiche degli altri paesi europei. In dieci anni, dal 1995 al 2005, le regioni meridionali sono sprofondate nella classifica europea, situandosi in posizione comprese tra 165 e 200 su un totale di 208. Un processo in decisa controtendenza con le altre aree deboli Ue, che sono cresciute mediamente del 3 per cento annuo dal 1999 al 2005, mentre il Sud si è fermato a +0,3 per cento.

Nel 2008 il tasso di occupazione meridionale è sceso al 46,1 per cento. Gli occupati sono cresciuti al Centro-Nord di 217 mila unità, mentre sono scesi di 34 mila nel Mezzogiorno. A livello regionale, risultati positivi per il terzo anno consecutivo per Molise (1,6 per cento), Puglia (0,3 per cento) e Abruzzo (3,2 per cento). Crollano gli occupati soprattutto in Campania (-2,2 per cento) e Calabria (-1,2 per cento), mentre flessioni più contenute si rilevano nelle Isole (-0,6 per cento e -0,3 per cento in Sicilia e Sardegna). A livello di settori la domanda di lavoro in agricoltura continua a scendere soprattutto al Sud (-2,8 per cento contro il -1,5 per cento del Centro-Nord). In calo anche l’industria, che segna -2,4 per cento al Sud (dopo il +2,9 per cento del 2007) e -1,1 per cento nell’altra ripartizione.

La dinamica dell’occupazione industriale è sensibilmente negativa in tutte le regioni del Sud, con l’eccezione del Molise, dove cresce del 4 per cento per il forte boom del settore delle costruzioni (+16,4 per cento) e della Sicilia, dove flette soltanto dello 0,7 per cento perché l’incremento delle costruzioni (2,7 per cento) compensa in larga parte la flessione dell’industria in senso stretto (-4,2 per cento). Positivo solo il terziario, che registra comunque un rallentamento rispetto agli scorsi anni: +0,2 per cento al Sud (era crescita zero nel 2007) e +0,7 per cento al Centro-Nord (+1,5 per cento nel 2007). Nel 2008 i disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+15,3 per cento) che al Sud (+9,8 per cento). Nella classe di età 15-24 anni la disoccupazione è arrivata al 14,5 per cento al Centro-Nord e al 33,6 per cento al Sud. Qui crescono anche i disoccupati di lunga durata (sono il 6,4 per cento del totale, erano il 5,9 per cento nel 2007). All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione giovanile più alto in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Nel 2008 solo il 17 per cento dei giovani meridionali in età 15-24 anni lavora, contro il 30 per cento del Centro-Nord. Al Sud cresce la zona grigia della disoccupazione, che raggruppa scorag-giati e lavoratori potenziali: 95 mila persone in più l’anno scorso. Dal 2004 al 2008 infatti i disoccupati impliciti e gli scoraggiati sono aumentati di 424 mila unità. Considerando anche questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo del Sud salirebbe a oltre il 22 per cento.

Cala il lavoro nero nel 2008, con 22 mila unità irregolari in meno, per effetto anche della campagna di regolarizzazione dei lavoratori stranieri, soprattutto nel settore edile. Qui ad esempio nel Sud il tasso di irregolarità è sceso dal 29,7 per cento del 2001 al 18,6 per cento del 2008. Nel 2008 in Italia i lavoratori in nero sono stimati in 2 milioni 943 mila, l’11,8 per cento del totale. I settori di maggiore diffusione sono l’agricoltura e i servizi. Nel 2008 al Sud è irregolare 1 lavoratore su 5, pari in valori assoluti a 1 milione 300 mila persone, con tassi di irregolarità del 12,8 per cento nell’industria e del 19 per cento nelle costruzioni. A livello territoriale la regione più “nera” è la Calabria, con il 26 per cento di manodopera irregolare, che sale a quasi il 50 per cento in agricoltura e al 40 per cento nelle costruzioni. A seguire, la Basilicata (20,3 per cento), con un forte peso del settore industriale, Sicilia (19,8 per cento), Sardegna (19,5 per cento) e Puglia (17,4 per cento).
Il più alto numero di lavoratori in nero in valori assoluti spetta alla Campania (329mila persone), che dal 2000 ha però perso il 19,4 per cento (79 mila unità).

Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni. I posti di lavoro del Mezzogiorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati. Ed è la carenza di domanda di figure professionali di livello medio-alto a costituire la principale spinta all’emigrazione. Tra il 1997 e il 2008 circa 700 mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. Nel 2008 il Mezzogiorno ha perso oltre 122mila residenti a favore delle regioni del Centro-Nord a fronte di un rientro di circa 60 mila persone.
Riguardo alla provenienza, oltre l’87 per cento delle partenze ha origine in tre regioni: Campania, Puglia, Sicilia. L’emorragia più forte in Campania (-25 mila), a seguire Puglia e Sicilia rispettivamente con 12,2 mila e 11,6 mila unità in meno. Nel 2008 sono stati 173 mila gli occupati residenti nel Mezzogiorno ma con un posto di lavoro al Centro-Nord o all’estero, 23 mila in più del 2007 (+15,3 per cento). Sono i pendolari di lungo raggio, cittadini a termine che rientrano a casa nel week end o un paio di volte al mese. Giovani e con un livello di studio medio-alto: l’80 per cento ha meno di 45 anni e quasi il 50 per cento svolge professioni di livello elevato. Il 24 per cento è laureato.
Non lasciano la residenza generalmente perché non lo giustificherebbe né il costo della vita nelle aree urbane né un contratto di lavoro a tempo. Spesso sono maschi, sigle, dipendenti full time in una fase transitoria della loro vita, come l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro.

Le regioni che attraggono maggiormente i pendolari sono Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio. Da segnalare però la crescita dei pendolari meridio-nali verso altre province del Mezzogiorno, pur lontane dal luogo d’origine: 60 mila nel 2008 (erano 24 mila nel 2007).
Una curiosità: la crisi ha colpito anche i pendolari meridionali. Se infatti il movimento Sud-Nord è cresciuto nei primi sei mesi del 2008, con l’aggravarsi del quadro economico 20 mila persone sono rientrate al Sud, soprattutto donne. Rispetto ai primi anni 2000 sono cresciuti i giovani meridionali trasferiti al Centro-Nord dopo il diploma che si sono laureati li’ e li’ lavorano, mentre sono ca-lati i laureati negli atenei meridionali in partenza dopo la laurea in cerca di lavoro. In vistosa crescita le partenze dei laureati “eccellenti”: nel 2004 partiva il 25 per cento dei laureati meridionali con il massimo dei voti; tre anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38 per cento.
La mobilità geografica Sud-Nord permette una mobilità sociale. I laureati meridionali che si spostano dopo la laurea al Centro-Nord vanno incontro a contratti meno stabili rispetto a chi rimane, ma a uno stipendio più alto. Il 50 per cento dei giovani immobili al Sud non arriva a 1000 euro al mese, mentre il 63 per cento di chi è partito dopo la laurea guadagna tra 1000 e 1500 euro e oltre il 16 per cento più di 1500 euro.

(Tratto da www.aprileonline.info)