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‘Ndrangheta, il pentito Femia: ”A Pittelli diedi 125mila euro per aggiustare un processo”

AMDuemila 30 Marzo 2023

Le rivelazioni del collaboratore di giustizia al processo Rinascita-Scott. Dalla conoscenza del boss Mancuso ai favori chiesti e offerti all’ex

parlamentare

E’ stata una deposizione esplosiva quella di Nicola Femia, ex boss di ‘Ndrangheta diventato collaboratore di giustizia nel 2017. Sentito al processo Rinascita-Scott dal pool del procuratore Nicola Gratteri, l’ex “riservato” dei Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero mettere in difficoltà la posizione dell’imputato Giancarlo Pittelli. “Incontrai l’avvocato Pittelli tra gennaio e febbraio 2009 – ha spiegato il pentito –. L’ho conosciuto da libero, a casa sua, perché accompagnato dall’avvocato Nocera, che diceva di aver giocato a biliardo con lui. Dovevo fare un appello a Catanzaro, dopo una condanna davanti al Tribunale di Paola. Sapevo che Pittelli era uno dei migliori avvocati e per questo mi rivolsi al lui. Già nel carcere si parlava che era un avvocato bravo, che aveva amicizia con i magistrati. Vi posso garantire che la voce nelle carceri era questa. Una volta, un signore, nel ’95-’96, un certo Giuseppe Anania, mi disse che era bravo e aggiustava i processi, perché aveva amicizia con dei magistrati. Oltre alla parcella professionale, gli si dava dei soldi anche per altro. Pittelli prese la nomina e gli diedi come acconto 25.000 euro, in banconote da 500 euro, che avevo in tasca. Io allora problemi di soldi non ne avevo e gli feci così capire che poteva risolvermi il problema”. Femia, assistito dall’avvocato Annalisa Pisano, ha continuato il suo racconto ricco di particolari che hanno catturato l’attenzione del pm della Dda Antonio De Bernardo. Pittelli, ha ricordato, rimase soddisfatto di quella somma: “Ha detto che vedeva cosa poteva fare, rassicurandomi che ‘c’erano possibilità’. L’acconto era una mia iniziativa, per fargli capire che poteva ‘aggiustare’ il processo e problemi di soldi non ne avevo”. Altri 25.000 euro – ha spiegato il pentito – sarebbero stati consegnati al noto penalista ed ex parlamentare di Forza Italia, dal figlio di Nicola Femia, mentre questi si trovava detenuto a Spoleto. Sarebbe stato proprio tra le mura del penitenziario, che l’ex “riservato” di Vincenzo Mazzaferro avrebbe conosciuto il superboss del clan di LimbadiAntonio Mancuso in un periodo in cui – su presunta imbeccata del suo difensore – avrebbe simulato una malattia per farsi trasferire in un centro clinico a Pisa. “Pittelli è devoto nei miei confronti perché è grazie a noi che è lì, perché lo abbiamo portato avanti politicamente”, avrebbe detto Mancuso a Femia durante i momenti di socialità. E poi, a dire di Femia, Mancuso avrebbe aggiunto che “Pittelli è uno che se dà una parola, la mantiene. Siccome è uno devoto a me, io non lo pago nemmeno”. In pratica, riferisce il collaboratore, Pittelli sarebbe stato lo storico avvocato dei Mancuso, che avrebbero votato e fatto votare per lui quando si candidò al Parlamento. “Mancuso – ha spiegato ancora Femia – mi disse che gli avrebbe mandato una imbasciata e che Pittelli le amicizie con i magistrati, per aggiustare i processi, ce le ha. Quando poi sono uscito dal carcere, incontrai a Roma Pittelli e gli diedi altri 25.000 euro, di mia volontà. Mi disse che c’era la possibilità di aggiustare il processo e gli servivano altri 50.000 euro di acconto. Poi mi portò i saluti di Antonio Mancuso, che mi avrebbe raccomandato. Più avanti gli portai i 50.000 euro. I miei rapporti con lui sono nelle telefonate acquisite al processo di Bologna in cui io ero imputato”. Inoltre Femia sostiene di aver aiutato Pittelli a vendere un’imbarcazione. Incontrandolo “più volte” nel suo studio a Roma, Pittelli poco prima della sentenza lo avrebbe avvisato che “essendo cambiato un giudice la situazione si era complicata”. Ed in effetti il processo andò male per l’ex uomo dei Mazzaferro: ottenne, rispetto ad una condanna in primo grado a 30 anni di reclusione, un lieve sconto con una rideterminazione della pena a 23 anni e 8 mesi. Poi arrivò la Cassazione: “Seguii altre strade, che ho raccontato ad altri magistrati, qui Pittelli non c’entra. La sentenza fu annullata e così ci fu un nuovo appello, all’epilogo del quale ho avuto un ulteriore lieve sconto. Riguardo la prima sentenza d’appello, Pittelli mi disse che era stato sfortunato, perché il presidente era un giustizialista ed era andata via la dottoressa Chiaravalloti, con cui aveva amicizia, ed aveva il papà in politica. Non mi restituì mai soldi, né mi diede mai una fattura”. Dopo le domande dell’accusa, è stato il turno di quelle di controesame dei legali di Pittelli, Antonio Staiano e Guido Contestabile che hanno sollevato dubbi in merito alla sua attendibilità. In particolare tra le tante domande, i due avvocati hanno chiesto al teste quando rese le sue prime dichiarazioni all’autorità giudiziaria di Catanzaro su Pittelli. “Nel 2020”, ha risposto Femia e anche “a Salerno nel 2017”. “A Bologna e in qualche udienza pubblica ha mai parlato di Pittelli?”, gli hanno quindi domandato i legali. “Lei afferma a verbale: ‘Sono sicuro di no’”, versione che Femia ha nuovamente confermato in aula. Quindi Staiano ha detto di avere “un testimone autorevole che dice il contrario e lo presenteremo”. L’udienza è quindi proseguita con l’esame di uno dei periti trascrittori del Tribunale.

Tratto dailvibonese.it

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