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‘Ndrangheta di un paese-mondo: “Mamma San Luca”

Da Iacchite -23 Febbraio 2023

La morte di Giuseppe Nirta, il boss di San Luca, chiude un’epoca e consente di ricostruire come questo piccolo centro è diventato fondamentale per l’affermazione della ‘ndrangheta.

San Luca e la ‘ndrangheta

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE, ECONOMICHE E SOCIALI CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN SCIENZE POLITICHE
‘NDRANGHETA DI UN PAESE-MONDO IL CASO DI SAN LUCA

Elaborato finale di: Giovanni Balducci Relatore: Prof. Fernando Dalla Chiesa

San Luca è il cuore pulsante della ‘ndrangheta. “Mamma San Luca”, la mamma di tutti gli ‘ndranghetisti, così viene chiamata da tutti gli affibbiati all’organizzazione criminale calabrese sparsi per il mondo.
Non è un caso che proprio San Luca sia la culla criminale delle ‘ndrine più potenti e pericolose della Calabria; non è un caso perché, come sempre accade, ogni fenomeno risulta essere frutto di una serie di fattori differenti: fattori sociali, economici, politici, storici e persino geografici. Sono proprio le caratteristiche geografiche del territorio sanluchese che hanno permesso a quelle famiglie criminali di rafforzarsi, indisturbate nella loro scalata al potere legale e illegale.

Le terrazze sovrapposte e le vette del massiccio aspromontano non sono state solo un ottimo riparo dalle incursioni saracene, ma hanno anche permesso alla criminalità sanlucota di sfuggire alle forze dell’ordine, riparando sulla roccaforte montuosa e dando luogo a veri e propri assedi da parte della polizia. Oltre ad ospitare i criminali calabresi, le montagne favorirono anche la costruzione di alleanze con i latitanti campni e siciliani che lì trovavano riparo e ospitalità da parte della criminalità locale; e sempre quelle vette udirono i lamenti delle vittime sequestrate in Calabria e nel Nord Italia che in Aspromonte trascorrevano la loro lunga prigionia.

È un tema, quello dei sequestri di persona, che ben si ricollega a quella capacità di adattamento e di sfruttamento delle circostanze e dei contesti tipicamente mafiosa e che ha permesso alla ‘ndrangheta di fondare il suo ricco patrimonio per poi affacciarsi di prepotenza sull’economia e sulle società italiana e globali.

Il prestigio criminale derivante dalle alleanze con le mafie non calabresi e dai sequestri miliardari ha contribuito ad un forte accreditamento mafioso per il paese sanlucota.
In particolar modo è rilevante la stagione dei sequestri. Dagli anni Settanta agli anni Novanta, San Luca si rese tristemente famosa in Italia e in Europa per essere il “paese dei sequestri”. Le sue case decadenti di forma rettangolare, col cemento armato in vista, senza un tetto e pronte a sostenere nuovi piani, erano il segno della frenetica attesa del pagamento dei riscatti. Un’attesa che dura tuttora, ma che ha però mutato la fonte di quel denaro sporco, dai sequestri ai traffici di stupefacenti, solo per dirne una. Si arrivò a dire, non a torto, che l’intero paese calabrese vivesse e si nutrisse di sequestri, una grande industria col suo prolifico indotto; del resto era l’intero paese ad essere complice di quel crimine.

Il comportamento omertoso di pastori girovaghi e altri comuni cittadini è una parte consistente dell’humus favorevole alla proliferazione del fenomeno, come lo è anche l’irraggiungibilità del paese aspromontano, il suo isolamento dai paesi limitrofi ma non troppo, affinché venisse garantita una testa di ponte. Un’industria del sequestro che estendeva i suoi tentacoli fino al Nord con un collegamento impeccabile con la Calabria, tanto è che nessuno degli ostaggi è stato liberato nel lungo tragitto che lo portava a sud, e che non si esauriva con la sola finalità di accumulazione di denaro, ma che aveva valenze ben più strategiche per l’organizzazione.

Il sequestro di persona suscitava un allarme sociale tale da concentrare tutte le forze dell’ordine e l’opinione pubblica ai piedi del massiccio aspromontano, sguarnendo e celando altre località e porti calabresi che ben si prestavano allo sbarco e al traffico di armi e stupefacenti. Non va trascurata poi la valenza coesiva di una tale attività, per la quale le ‘ndrine promotrici chiamavano a raccolta esponenti di altre ‘ndrine sia per ottenere il nulla osta nelle loro zone di “giurisdizione”, sia per cementare le alleanze criminali, con la distribuzione degli oneri ma soprattutto dei profitti.

È il 1990 quando al sindaco di San Luca, Angelo Strangio, cominciano ad arrivare centinaia di lettere da tutta Italia. Sono lettere di odio, colme di minacce di brutalità e insulti razzisti, abbarbicati su pregiudizi antimeridionali frutto di un distorto nazionalismo italico che poco ha a che fare con uno Stato unitario.

Più di quattrocento lettere percorsero l’Italia dopo che, in un deposito della famiglia Dellea a Germignaga, nei pressi di Luino, i carabinieri sventarono il rapimento di Antonella Dellea uccidendo i quattro banditi che erano giunti fin lì. Tra questi figuravano Sebastiano Strangio e Salvatore Romeo, nomi fin troppo comuni in quel di San Luca e esponenti delle ‘ndrine più importanti del paese; ma anche Sebastiano Giampaolo e Giuseppe Ietto, quest’ultimo di un altro paese, Natile di Careri, come da “consuetudine”. Quattro professionisti appartenenti all’Anonima sequestri sanlucota che, proprio in quegli anni, teneva prigioniero un altro rampollo della borghesia settentrionale, Cesare Casella, recluso in Aspromonte. I due eventi scatenarono l’opinione pubblica e posero la Calabria al centro del dibattito mediatico, almeno fino alla liberazione di Casella, poi il silenzio più totale riportò San Luca nell’ombra.

Cesare Casella, Paul Getty III, Giuseppe D’Amico, Andrea Cortellezzi, Maria Graziella Belcastro, Maurizio Gellini, Giuliano Ravizza, Giorgio Bortolotti, Carlo de Feo, Steno Marcegaglia sono una minima parte delle numerose vittime sequestrate dall’Anonima sanlucota. Tra la Lombardia e la Calabria si arrivò a contare circa trecento sequestri di persona e la sola San Luca si rese artefice della maggior parte di essi, anche con risultati nettamente più proficui rispetto ai colleghi di Platì, Ciminà, Africo Nuovo e Natile di Careri. Tutti miliardari i sequestri ad opera delle sue ‘ndrine che sono arrivate a fatturare 250 miliardi di lire, tutte reinvestite in altre attività criminose o riciclate nella costruzione di case di proprietà.

Nella San Luca Marina, come i locali chiamano la vicina Bovalino, sono sorti interi quartieri “che sudano sangue”, grazie ai riscatti per quei giovani segregati: il “quartiere Paul Getty” ne è una prova.
L’odio che veniva riversato in quelle infelici missive, addirittura, si inaspriva ulteriormente di fronte alle immagini mandate in onda dalla televisione di quegli anni, che ritraevano le sequenze dell’arrivo delle salme dei sequestratori in quel di San Luca, per ricevere degni funerali e sepoltura. L’Italia intera non poté tollerare la sofferenza delle famiglie calabresi di quei criminali, non poté accettare che le vedove e le madri in lutto gridassero “Assassini!” all’indirizzo dei poliziotti ivi presenti.

“… Quello che ci ha fatto ribrezzo, è che al rientro di queste luride salme, (a proposito chi ha pagato le spese?) i familiari anzicchè vergognarsi e dignitosamente tapparsi in casa col loro dolore, hanno inveito contro le forze dell’ordine chiamandoli assassini proprio loro, (perché i familiari ne sono complici) che hanno le mani lorde di sangue. […] questi stessi negozi le loro saracinesche le abbassano anche quando i sequestratori uccidono le loro vittime? Vergogna anche per lei sindaco […] i vari sequestri non li organizzati per caso, in consiglio comunale?…”. 
Filippo Veltri, Diego Minuti, Lettere a San Luca. L’Italia scrive al “paese dei sequestri”, Milano, Abramo Editore, 1990, pp.12-13

Una rabbia e una condanna che proveniva anche dagli stessi calabresi, e anche sanluchesi, talvolta omonimi, emigrati al Nord in cerca di lavoro. La paura di essere accomunati ai compaesani criminali, lo screditamento quasi immediato e la volontà di volersi tenere stretta quella vita onesta per cui tanto avevano lavorato e fatto sacrifici, li rese, se possibile, ancora più violenti contro la loro “infamante” terra di origine.
Mio padre era originario di S. Luca e per questo odio tanto i sequestratori che m’hanno fatto vergognare della mia terra. Non posso nemmeno più dire da dove vengo per paura di essere considerato un complice dei sequestratori. E con ragione; un paese intero che si arricchisce sulle lacrime degli innocenti, che copre con la sua omertà il delitto più turpe. Che orrore! [Firmato tale Saverio Pelle]

Tra quelle lettere degli anni Novanta c’erano anche frasi di misericordia e condanne ai soli criminali, che rinnegavano la faciloneria con la quale si gridava all’equazione San Luca = ‘ndranghetisti. Non mancarono quindi lettere di solidarietà al sindaco Strangio che chiedevano venisse adottato il pugno di ferro contro i suoi concittadini criminali, e neppure lettere che involontariamente colpivano nel profondo la “questione sequestri”.

Il 23 gennaio 1990 una donna romana scrive quanto fossero riprovevoli l’indignazione e la rabbia sanlucote nei confronti dei giovani uccisi dai carabinieri a Luino:
“Gli abitanti di S.Luca dovrebbero capire che quei quattro uomini sono morti per colpa di chi li ha avviati sulla strada del crimine, per chi ha taciuto quando poteva far si che fossero fermati con le manette e non con le pallottole; il grilletto di quelle armi l’avete tirato dal paese. Mi scusi ma personalmente non credo nemmeno nella sua innocenza, la credo colpevole almeno di omertà quindi, per quello che mi riguarda, ha sparato anche lei.

Accuse di omertà, per alcuni fatta di paura e codardia, e responsabilità trasudano da quelle lettere, ma anche vergogna e dolore di quanti invece, calabresi all’estero, subivano l’emarginazione e la diffidenza dovute alla sola provenienza geografica, e si univano ai connazionali settentrionali, chi con rabbia chi pregando il sindaco di restituire onore al paese, quello stesso paese dove, a detta di alcuni, aveva perso “quattro suoi grandi elettori”.

Una cosa è certa, i sequestri terminarono di lì a poco, non per le lettere è chiaro, ma per interessi economici ben più elevati. I rapimenti a scopo estorsivo, per quanto abbiano ingrassato le casse delle ‘ndrine, hanno portato dei costi non indifferenti. L’intero territorio aspromontano fino alla Piana di Gioia Tauro ha subito una militarizzazione vera e propria che ha provocato una paralisi dei traffici ‘ndranghetisti con dei costi più elevati dei guadagni reali dei sequestri, seppur miliardari. La macchina repressiva dello Stato si era attivata, messa in moto dalle immagini del corpo scheletrico, appena rilasciato, di Carlo Celadon e dal coraggio della madre di Cesare Casella, giunta a San Luca e decisa a non ripartire senza il figlio. La repressione statale investì la Locride con il Nucleo Antisequestri della Polizia di Stato (Naps) e l’unità dei Carabinieri Cacciatori, pronti a calarsi con funi dagli elicotteri nelle zone più impervie dell’Aspromonte. La repressione e l’allarme sociale resero sconveniente la pratica dei sequestri.9
L’essenza ‘ndranghetista di questo piccolo paese aspromontano non si esaurisce, però, così facilmente.

A diciannove chilometri da San Luca, ancora più arroccato a mille metri d’altezza nell’Aspromonte più profondo, si erge il santuario mariano della Madonna di Polsi, “la madonna di tutti i mafiosi”. La leggenda vuole che il santuario sorga nel punto esatto in cui la Madonna apparve ad un pastore del luogo, attorno all’XI secolo, esigendo che lì venisse eretta una chiesa ad essa consacrata.
Il suo culto attrae ogni anno un elevato numero di devoti da tutta la Calabria, a cui si mescolano indisturbati gli uomini d’onore. In una ‘ndrangheta permeata da una simbologia a tratti soffocante, la Madonna d’à muntagna rappresenta l’apice di quel legame che il Crimine ha con la religione e che gli garantisce consenso popolare e prestigio, oltre che autorevolezza, giustificazione. Fin dai primissimi anni del Novecento è proprio in quei luoghi che, pur non escludendo un sentimento di devozione cristiana, si riuniscono il 2 settembre di ogni anno, i capi locale di tutte le ramificazioni ‘ndranghetiste nel mondo, nonché i capi bastone di tutte le ‘ndrine della Calabria, per discutere di strategie criminali, della concessione di doti, della risoluzione di conflitti e dei processi a quanti hanno osato violare le leggi criminali, oltre che dell’apertura di nuovi locali, celati tra le preghiere dei fedeli e la festosità dei balli che tradizionalmente lì si tengono.

Proprio al santuario si riuniva a tal proposito il Tribunale di Umiltà, un organo giuridico a tutti gli effetti, degno delle società più avanzate, composto dal capo società e altri capibastone, nonché addirittura da un accusa e una difesa. Il collegio, con i suoi rituali, teneva il processo alle cui sentenze era impossibile appellarsi e i cui effetti erano rinvenibili tra i boschi della montagna sotto forma di cadaveri. Non solo pene capitali venivano comminate in quelle riunioni esoteriche, ma anche altri tipi di condanne minori. Era infatti prevista dal “codice penale” anche la pratica delle bastonate, inflitte dal capraru con una mazza, delle quali le ultime due venivano sferrate a forma di croce.

Appare surreale come un’organizzazione criminale, composta da indagati e latitanti, possa permettersi di riunirsi ogni anno nello stesso luogo e nello stesso giorno.
Una tradizione che può essere spiegata solo con la necessità, per la consorteria calabrese, di rimanere attaccata ai suoi rituali e alle sue cerimonie, senza cedere il passo alla repressione dello Stato, anzi mostrandosi in pubblico e tutelata proprio dalla pubblicità dell’evento che, tra i tanti pellegrini, vede la presenza di familiari, spesso omonimi.
Un luogo talmente sacro per la società d’onore calabrese da poter essere ritenuto da essa profanato, come condannano le parole del vescovo di Locri-Gerace, monsignor Morosini: “Nel Santuario di Polsi si è consumata l’espressione più terribile della profanazione del sacro ed è stato fatto l’insulto più violento alla nostra fede e alla tradizione religiosa dei nostri padri. Polsi, luogo di pietà semplice e devota, è diventato luogo violato e profanato da conterranei e fratelli di fede, che hanno tradito la fede vera, pretendendo assurdamente di ricevere dalla Vergine Maria la benedizione sui loro patti illegali e sulla spartizione di un potere ingiusto”.

Una presa di posizione purtroppo dissimile da quella del Vaticano che, fino alla scomunica mafiosa di Papa Francesco I, mai si è prodigato nello stigmatizzare il pellegrinaggio ‘ndranghetista, dissociandone il culto cristiano.
Il rapporto con la religione è fondante in un’organizzazione criminale come la ‘ndrangheta, radicata nel meridione più arcaico, le cui popolazioni presentano un alto grado di devozione alla fede cattolica. Addirittura, non si sbaglia ad estendere anche alla ‘ndrangheta le conclusioni di Umberto Santino circa il rapporto della mafia siciliana con la Chiesa. Santino pone l’accento sul sorprendente bacino di somiglianze tra la mafia e l’istituzione religiosa, per cui quest’ultima ha contribuito all’affermazione e all’introiezione della visione autoritaria della prima.

La societas ecclesiale è fondata sulla sottomissione, sulla cancellazione di sé, sull’accettazione dei fini sociali. Una metafora dell’obbedienza incondizionata totalizzante, come il perinde ac cadaver, si attaglia perfettamente alla rigidità e indiscutibilità del comando mafioso.
Insomma, una Chiesa che non ha ostacolato sul nascere il fenomeno ed ha persino favorito la sua raccolta di consensi, costruendo un apparato culturale e sociale facilmente permeabile.

È anche alla luce di questa località suggestiva quanto mistica che il paese di San Luca, di cui Polsi è frazione, assurge a capitale dell’organizzazione calabrese.
L’importanza, che il piccolo paese ha, va poi necessariamente ricollegata alla strategia colonizzatrice dell’organizzazione. La ‘ndrangheta non è Cosa Nostra, non è la Camorra. Quando gli uomini d’onore emigrano al di fuori della Calabria, costretti o meno, mantengono un legame indissolubile con il paese madre. Si insediano nelle località prescelte, seguiti in massa da altri esponenti dell’organizzazione e della stessa famiglia di origine. Interi paesi, ma anche grandi città, completamente colonizzate dai “calabresi” fino a diventare riproduzione esatta delle piccole realtà lasciate in Italia: un intero piccolo paese calabrese che si trasferisce nella città europea o extraeuropea. Nel giro di poco tempo questi figuri, con alle spalle un altissimo numero di compaesani emigrati, penetrano nelle istituzioni sociali e politiche, partendo spesso da infiltrazioni nell’economia locale tramite il prestito di denaro a usura e la gestione della manodopera calabrese, fino al controllo di pacchetti di voti.

La locale è la massima espressione di questo modello biunivoco di espansione criminale, nonché sua esplicita manifestazione. Essa altro non è che l’ufficiale legittimazione della colonia ‘ndranghetista da parte della “mamma” San Luca. È proprio a Polsi che si decide tale concessione, non si possono infatti aprire nuove locali senza l’assenso del locale di San Luca, che ancora una volta risulta essere perno principale dell’organizzazione. La locale non è autonoma, ma completamente dipendente dalle decisioni prese nel paese di riferimento dove risiedono le ‘ndrine che la comandano.

Non è la sola provenienza geografica che cementa questo legame. Le ‘ndrine sono prima di tutto costituite da una famiglia di sangue, legame che con l’emigrazione perdura e si rafforza ulteriormente. I capibastone che risiedono in Calabria sono nella maggior parte dei casi parenti stretti dei compaesani emigrati: rendersi indipendenti significa chiudere con la madre patria, chiudere con la propria famiglia di appartenenza, quindi rinnegare il proprio sangue, che soprattutto nell’universo mafioso equivale ad un tradimento.
C’è poi una caratteristica paradossale della colonizzazione calabrese, a differenza di quanto ci ha insegnato la Storia delle colonie europee nel mondo, non sono le colonie a inviare ricchezze alla madrepatria, bensì è il poverissimo paesino meridionale che, gestendo e veicolando il patrimonio accumulato con le attività illegali, finanzia le colonie. Un legame di sangue e uno economico che quindi permettono alla Calabria e alle sue ‘ndrine di tener ben salde tra le mani le redini coloniali.

Fonte:https://www.iacchite.blog/ndrangheta-di-un-paese-mondo-mamma-san-luca/