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Motivazioni della sentenza d’Appello del processo Aemilia. Inflitti più di 700 anni di reclusione

Motivazioni della sentenza d’Appello del processo Aemilia. Inflitti più di 700 anni di reclusione

AMDuemila 15 Giugno 2021

‘Ndrangheta abile nell’infiltrarsi nel tessuto economico sociale e di rapportarsi con membri infedeli delle istituzioni

“Il dato più caratterizzante dell’organizzazione ‘Ndranghetistica emiliana al centro del processo ‘Aemilia’ è dato dalla capacità di infiltrazione nel tessuto economico – imprenditoriale e che maggiormente evidenzia il suo carattere autonomo rispetto alla casa madre cutrese”. Hanno scritto così i giudici della Corte di Appello nella motivazione della sentenza di secondo grado che il 17 dicembre scorso ha inflitto quasi 700 anni di reclusione ai rispettivi 91 condannati del processo Aemilia, mentre ci sono state 27 tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni. La Procura generale era rappresentata dai pg Lucia Musti, Luciana Cicerchia e Valter Giovannini. I giudici, presidente Alberto Pederiali, consiglieri Maurizio Passarini e Giuditta Silvestrini) nelle 2.583 pagine della sentenza hanno sottolineato il carattere autonomista della cosca emiliana seppur sempre in sinergia con la ‘casa madre’ dei Grande Aracri di Cutro e che, in merito alle attività e alle infiltrazioni della cosca nel territorio emiliano, “non è emerso alcun elemento probatorio che susciti anche solo il sospetto che in tale ambito venissero impartiti ordini o anche solo che il sodalizio emiliano informasse o tenesse aggiornato il capo cosca cutrese, eccetto nei casi in cui quest’ultimo non avesse un interesse particolare avendo egli investito denaro nel singolo affare o essendo destinatario di una parte dei profitti”.
Le attività illegali della consorteria di ‘Ndrangheta in Emilia, hanno scritto sempre i magistrati, spaziano dalle
 “sistematiche azioni estorsive e usurarie commesse soprattutto in danno sia di soggetti di origine calabrese residenti sul territorio emiliano sia ai danni di imprenditori locali in difficoltà economiche” fino ad azioni incendiarie “che rappresentavano una modalità intimidatoria abituale della organizzazione volta a rendere arrendevoli e accondiscendenti gli imprenditori”. Tali condotte vessatorie sono state poste in essere “avvalendosi della condizione di assoggettamento e di omertà connessa all’ormai diffusa conoscenza della natura e della forza del sodalizio esistente nel territorio reggiano e piacentino ed ai conseguenti timori delle vittime” ma soprattutto grazie “all’avvicinamento e al coinvolgimento di personaggi gravitanti nel mondo della politica locale e degli organi di informazione” dai “rapporti con alcuni esponenti delle forze dell’ordine” i quali “hanno dimostrato una vera e propria partecipazione agli scopi dell’associazione mafiosa mettendosi di fatto a disposizione dell’associazione mafiosa”.
Oltre alla protezione dei poliziotti infedeli (un caso su tutti quello dell’ex autista del questore di Reggio
Domenico Mesiano) e ai contatti con la politica (ne è esempio la “cena delle beffe” del 2012 con l’esponente di Forza Italia Giuseppe Pagliani) il sodalizio criminale ha cercato di “strumentalizzare i mezzi di comunicazione per nascondere la presenza della ‘Ndrangheta sul territorio reggiano” la consorteria Calabrese ha adoperato anche “metodologie di azione più raffinate che facevano leva sulla capacità operativa di creare facile ricchezza illecita appetibile da più parti del ceto imprenditoriale emiliano”. Quest’ultimo “in tale modo, si è lasciato avvicinare per entrare in affari illeciti allettato dalla prospettiva di trovare canali di recupero dei crediti rapidi ed efficaci o facili e rapide soluzioni alla situazione di crisi economica in cui si era venuto a trovare”. Ma il sodalizio criminale “era poi in grado di trasformarsi palesandosi come il più feroce degli aguzzini pronto a depredare, financo cannibalizzare, quegli stessi imprenditori che al sodalizio si erano rivolti convinti di trovare una facile soluzione ai loro problemi”. Infatti, come si legge nelle motivazioni di sentenza “non va dimenticato poi che tra le caratteristiche proprie del sodalizio emiliano che ne autenticano la propria autonomia rispetto alla cosca cutrese vi è proprio quella di operare su due piani che all’esterno appaiono come due rette parallele che non si incrociano mai, l’una rappresentata dai personaggi appartenenti all’imprenditoria di successo, privi di precedenti penali, in grado di creare ricchezza e posti di lavoro come i Giglio, i Floro Vito, i fratelli Vertinelli, e l’altra rappresentata dagli esponenti che i collaboratori chiamano ‘uomini di strada’”. In altre parole “all’esterno si guardavano bene da avere manifesti rapporti con i primi e che intervenivano ricorrendo al bisogno ad azioni violente e minacciose commettendo usure, estorsioni, incendi e, se del caso, anche omicidi”. Infine dunque “non si trattava di rette parallele, ma invero i due sistemi operavano in stretta collaborazione: una coesistenza sinergica della tradizionale area ‘militare’ con quella moderna ‘imprenditoriale’, coniugando vecchie e nuove modalità di azione, in grado di alimentare la capacità di infiltrazione della consorteria in una spirale potenzialmente senza fine”. Inoltre i giudici hanno messo in risalto le caratteristiche del fare affari della ‘Ndrangheta, caratterizzati “dalla frenetica e lucrosa attività di falsa fatturazione effettuata tramite anche società intestate a compiacenti prestanome” con la possibilità di praticare prezzi assolutamente concorrenziali rispetto agli imprenditori onesti “grazie alla capacità di reperire risorse strumentali tramite canali illeciti (come gasolio e pneumatici) e alla continua e ingente disponibilità di risorse finanziarie provenienti dal reimpiego di capitali illeciti provenienti dalla Calabria”.

La condanna all’imprenditore Augusto Bianchini
Nel documento di sentenza si legge che l’imprenditore
“appare oggi un uomo stanco e sconfitto, e tale probabilmente è per l’età, i malanni e le vicissitudini giudiziarie, ma è stato un imprenditore di successo, titolare di un’azienda edile di primario rilievo, che, probabilmente in un periodo di difficoltà economica, o forse anche per bramosia di maggiori guadagni, ha ceduto alla tentazione di scendere a patti con la ‘Ndrangheta”. Sono queste le parole con cui i giudici della Corte d’appello di Bologna hanno motivato la condanna a nove anni all’imprenditore modenese a cui sono stati contestati diversi reati tra cui in primis il concorso esterno in associazione mafiosa, mentre è stato assolto dall’accusa di caporalato per la quale era stato condannato in primo grado assieme alla moglie Bruna Braga.
Sempre secondo il collegio giudicante Bianchino avrebbe trattato con gli ‘Ndranghetisti “
da pari a pari, intraprendendo affari con la ‘Ndrangheta nella piena consapevolezza che, perseguendo il proprio interesse, realizzava però anche quello della criminalità organizzata impiantata oramai nel territorio emiliano, accrescendone il grado di infiltrazione nel tessuto economico e con ciò il prestigio”. Infatti i magistrati hanno scritto che l’imprenditore aveva rapporti “con individui che poi sarebbero risultati esponenti di rilievo del sodalizio criminoso assai risalenti nel tempo”, e anche “a voler ammettere che fin verso la fine del 2011 potesse effettivamente non conoscere la natura di quelli che erano venuti ad essere i suoi interlocutori”, da quel momento in poi “non può più sostenere di non aver compreso la natura ‘Ndranghetista dei soggetti con i quali stava sempre più intrecciando i suoi destini”.
Di conseguenza Bianchini, secondo i giudici, era ben consapevole di avere a che fare con dei mafiosi, come quando ad esempio ha collaborato con
Michele Bolognino nell’ambito di una “vicenda di illecita intermediazione di manodopera o, se si preferisce (come sembra preferire la difesa degli imputati), di subappalto mascherato di lavori” in riferimento ad alcuni lavori di ricostruzione dopo il terremoto del 2012.
Rispetto ad altri imprenditori emiliani
“che pure si rivolgeranno alla ‘Ndrangheta nella convinzione di poter con essa risolvere loro problemi”, Bianchini si distingue poiché “è un imprenditore di notevolissimo rilievo e soprattutto, a differenza degli altri, può offrire grandi occasioni di partnership e di guadagno per il sodalizio criminoso”. Per questa ragione, ribadiscono i giudici, “diversamente dagli altri più modesti imprenditori che rischieranno e a volte diventeranno essi stessi vittime degli ‘Ndranghetisti cui si erano rivolti, si mostrerà sempre in grado di trattare con i suoi interlocutori da una posizione di sostanziale parità, conservando sempre quale stella polare del suo operato, in primo luogo, il perseguimento del proprio interesse”. E poi ancora, le sue condotte hanno “fornito un proprio concreto, specifico, consapevole e volontario contributo tale da comportare un qualche efficace risultato per la conservazione, l’agevolazione o il rafforzamento delle capacità operative del sodalizio criminoso”.
In conclusione Bianchini, come si legge nelle motivazioni, si è
“deliberatamente e consapevolmente messo in affari con Bolognino nelle vicende relative all’ampliamento del cimitero di Finale Emilia e in quelle concernenti l’utilizzo di manodopera messagli a disposizione dal Bolognino per i lavori nei cantieri del post terremoto”, e in quei casi “ha consapevolmente e concretamente contribuito a introdurre Bolognino e sue manovalanze in lavori pubblici, cui mai Bolognino avrebbe potuto avere accesso presentandosi in proprio”. Dunque era ben consapevole di “chi è Bolognino, e addirittura consapevole che a quei lavori è interessato anche Nicolino Grande Aracri, introduce con piena consapevolezza e volontà la ‘Ndrangheta nei lavori pubblici della zona di Modena”, e lo fa “indubbiamente, in primo luogo, per un interesse proprio, ma al contempo è consapevole che così agendo favorirà quel mondo imprenditoriale mafioso, di cui Bolognino è esponente, riconducibile al sodalizio ‘Ndranghetista stanziatosi nei territori emiliani”.

L’ex attaccante della Juventus e della Nazionale Vincenzo Iaquinta condannato a due anni di reclusione e 3.000 di multa
La Corte d’appello di Bologna
“ritiene che la pena di due anni di reclusione e 3.000 di multa inflitta dal primo giudice sia del tutto adeguata” poiché le armi dell’ex calciatore “sono state detenute, quantomeno dall’agosto 2014, dal padre Giuseppe con piena consapevolezza e volontà” dell’ex calciatore, che “pur essendo stato avvisato dal genitore del trasferimento delle armi, benché a cose fatte, nulla ha fatto per rimediare alla situazione di illiceità, concorrendo quindi con la sua condotta omissiva all’integrazione del reato e consentendo al padre di detenere illegittimamente le sue armi”. I giudici quindi, sottolineando che Iaquinta “ha consentito la detenzione illegale di due armi da fuoco da parte di un soggetto al quale due anni prima era stata interdetta la detenzione”, hanno confermato la condanna a Iaquinta nell’appello della tranche del processo Aemilia svoltasi con rito ordinario, sia pure con il riconoscimento della sospensione condizionale della pena.
La cose sono andate diversamente per il padre dell’ex calciatore,
Giuseppe Iaquinta, che pur vedendosi ridurre la pena a 13 anni dai 19 comminati dai giudici di primo grado ha visto confermata dal collegio giudicante l’accusa di associazione mafiosa.
Infatti i magistrati hanno scritto che
“è risultato essere un soggetto con un ruolo fondamentale per il sodalizio, rappresentando la figura dell’imprenditore di successo, oltre che padre di un calciatore famoso”, e che “consapevolmente si è prestato al sodalizio, consentendone l’infiltrazione nei settori economici e politici della zona in occasione di affari leciti o illeciti dell’associazione, talvolta anche avvantaggiandosene personalmente”.

Fonte:https://www.antimafiaduemila.com/home/mafie-news/229-ndrangheta/84358-motivazioni-della-sentenza-d-appello-del-processo-aemilia-inflitti-piu-di-700-anni-di-reclusione.html