Cerca

Maxi processo alla ‘ndrangheta, il ruolo degli affiliati “invisibili” nelle cosche

Il Fatto Quotidiano

Maxi processo alla ‘ndrangheta, il ruolo degli affiliati “invisibili” nelle cosche

In trecento alla sbarra nel bunker di Lamezia Terme. I pentiti raccontano la piovra calabrese

di Lucio Musolino | 4 FEBBRAIO 2021

È già iniziato il mese dei pentiti nel maxi-processo “Rinascita-Scott” che vede alla sbarra la cosca Mancuso di Vibo Valentia e i colletti bianchi che, nel dicembre del 2019, sono stati travolti dall’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro.

Per tutto febbraio l’aula bunker di Lamezia Terme sarà collegata con una cinquantina di collaboratori di giustizia calabresi e siciliani. Tra questi i pentiti Andrea Mantella e Gaspare Spatuzza. Ma anche Nino Fiume, l’ex killer della cosca De Stefano che aveva rapporti con esponenti apicali dei Mancuso.

Il loro turno deve ancora arrivare, ma tutti sfileranno come testimoni e saranno interrogati dal procuratore Nicola Gratteri e dai sostituti procuratori della Dda Antonio De Bernardo e Annamaria Frustaci che hanno coordinato l’indagine per la quale oltre 300 imputati sono stati rinviati a giudizio.

Il primo a essere sentito è stato il pentito Luigi Bonaventura, detto “Gné Gné. È l’ex boss di Crotone che, anni fa, ha scelto di saltare il fosso. Rispondendo alle domande dei pm, il collaboratore di giustizia ha fatto riferimento agli invisibili della ‘ndrangneta, una sorta di “figura protetta” che si trova tra “il mondo delle cosche e altri mondi”.

Non sono affiliati e devono restare invisibili” ha raccontato Bonaventura. Secondo il pentito, all’interno della sua cosca due invisibili erano Tonino Vrenna e Raffaele Vrenna, “la parte imprenditoriale della famiglia”.

Il primo è il figlio del boss Luigi Vrenna detto “u Zirru. “Tonino Vrenna era nell’edilizia – sono le parole di Bonaventura – era uno che sedeva a capotavola in occasione di cerimonie come matrimoni o altre occasioni”.

Raffaele Vrenna, invece, è l’ex presidente del Crotone che era stato condannato in primo grado nel processo “Puma” e poi assolto in appello.

Dopo il tema dell’unitarietà della ‘ndrangheta affrontato da diversi pentiti, in aula bunker è stata la volta del catanese Giuseppe Di Giacomo, 55 anni ed elemento di spicco della cosca dei Laudani di Acicatena. Il collaboratore siciliano, in sostanza, ha ripetuto quando già detto al Tribunale di Reggio Calabria durante il processo “’Ndrangheta stragista”. Ha parlato anche di Totò Riina che aveva rapporti con le famiglie mafiose calabresi: i Condello ma anche i De Stefano e i Piromalli ai quali il capo di Cosa Nostra si era rivolto per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, consumato il 9 agosto 1991.

Stando alla sua deposizione, Di Giacomo avrebbe conosciuto Giuseppe e Luigi Mancuso a Cuneo, al 41 bis. La cosca di Limbadi avrebbe venduto armi ai catanesi Laudani. Ha raccontato, inoltre, di aver saputo da Santo Mazzei, detto “u Carcagnusu, vicino alla cosca dei Laudani, che stava nascendo un nuovo partito, Forza Italia, al quale appoggiarsi anche, eventualmente, per cercare di affievolire le misure del carcere duro.

Quando il pm Annamaria Frustaci ha chiesto chi in Calabria possiede la carica del “Crimine”, il pentito Di Giacomo ha fatto i nomi di alcuni boss calabresi: “Luigi Mancuso, Pino Piromalli, Umberto Bellocco, Cocò Trovato, Paolo (deceduto, ndr) e Giuseppe De Stefano”.

Il 2 febbraio, nel processo “Rinascita-Scott”, è stato sentito il collaboratore di giustizia Gennaro Pulice, l’ex killer con la laurea un tempo affiliato alla cosca Iannazzo-Cannizzaro-Daponte di Lamezia Terme. Dal 2015 si è pentito dopo l’arresto nell’operazione “Andromeda”. Chi è e che ruolo ha ricoperto all’interno del sodalizio mafioso lo si comprende dalle prime battute del suo interrogatorio: “Avevo 15 anni quando uccisi Salvatore Belfiore e scelsi lo stesso giorno dell’omicidio di mio padre affinché anche chi lo aveva ucciso non dimenticasse mai tale mese e giorno. Ho ricevuto la dote di ‘ndrangheta dello sgarro a 17 anni, saltando quella di picciotto visto che avevo già commesso un omicidio. Tuttavia la mia famiglia mi ha fatto studiare, ho fatto il liceo classico e poi l’università perché i Cannizzaro-Da Ponte volevano fare un salto di qualità”.

Prima di essere arrestato e pentirsi, infatti, il killer con la laurea aveva aperto uno studio di consulenza legale e commerciale a Lugano. Tutto serviva a costituire società in Svizzera, Estonia e Slovenia che dovevano servire al clan per riciclare i soldi realizzati con le attività illecite. In aula ha raccontato come le cosche di ‘ndrangheta si spartivano i lavori sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Ogni cosca aveva il suo “core business”. Mentre quello dei Cannizzaro era il “il traffico di stupefacenti”, gli Iannazzo-Doponte erano dediti all’edilizia, ai lavori pubblici e al riciclaggio.

Le famiglie mafiose avevano i loro imprenditori di riferimento: “Per i Iannazzo era l’imprenditore Mazzei e per i Mancuso un tale Puntoriero”. A proposito dei Mancuso, i rapporti con gli Iannazo erano “storici” ed erano curati da esponenti della triade lametina come Tonino Davoli, Giovannino Iannazzo e Bruno Gagliardi.

Pulice ha parlato anche del controllo che ci sarebbe stato da parte dei detenuti del carcere di Catanzaro, dove il collaboratore è stato detenuto dal 2003 e il 2006. “Il direttore del carcere – sono le parole del pentito – cura l’aspetto amministrativo, il comandante quello militare ed i detenuti gestiscono di fatto il carcere”.

Pulice ha ricostruito gli anni trascorsi nelle file della ‘ndrangheta lametina durante la quale ha sentito parlare di Andrea Mantella, altro collaboratore di giustizia e un tempo boss vibonese legato alla galassia dei Mancuso. Aveva “una caratura criminale elevata. – racconta il pentito – Se io oggi sono qui e sono vivo lo devo a Damiano Vallelonga che negò il permesso a Mantella per il mio omicidio. Ho sempre sentito parlare di Andrea Mantella per via dei legami familiari con la cosca rivale dei Giampà, perché cognato con uno dei fratelli del boss Francesco Giampà detto ‘il professore’. Mantella era uno degli obiettivi da eliminare della cosca rivale”.