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Matteo Messina Denaro, ascesa e caduta del boss che voleva guidare Cosa nostra

Sanguinario ma con il fiuto per gli affari, si era gettato nel commercio e nelle energie rinnovabili. Una rete di protezione enorme gli aveva garantito l’impunità

di Enrico Bellavia

16 GENNAIO 2023 – L’Espresso

Degli irriducibili capi di stretta osservanza Corleonese era l’unico a poter vantare quattro quarti di nobiltà di Cosa nostra nell’araldo di famiglia. Mafioso, figlio di mafioso. Il padre, Francesco, detto Ciccio, morto in latitanza e il cui corpo fu trovato composto in casa per le esequie, era celebrato annualmente con un necrologio ricordo sul giornale locale, nel quale non mancava anche la sua firma.

Da lui, Matteo Messina Denaro aveva ereditato lo scettro, governando saldo nella sua provincia di riferimento, Trapani, con frequenti tentativi di allargare la propria sfera di influenza sul Palermitano. Fosse nato a Palermo e non a Castelvetrano, probabilmente, la costituzione immateriale di Cosa nostra gli avrebbe consentito di essere il capo della Cupola, ruolo a cui ambiva e che per autorevolezza, di fatto, per sottrazioni successive si era trovato a esercitare. Pur senza incarichi formali.

Per età e scelte gli era toccato stare sempre un passo indietro. Al fianco di Totò Riina e poi di Bernardo Provenzano. Ne aveva condiviso l’escalation stragista, firmando personalmente la direzione operativa delle bombe al Nord: Roma, Milano e Firenze. Era la relativamente nuova leva di Cosa nostra, coetaneo dei terribili fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, con i quali si era ritrovato nel 1993 a condividere periodi di soggiorni dorati nelle località costiere del jet set italiano, mentre i soldati piazzavano ordigni seminando terrore fuori dalla Sicilia, dopo gli eccidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Violento e sanguinario, capace di liquidare con un colpo di pistola un affronto alla fidanzata, come gli capitò di fare decretando la morte di un albergatore di Selinunte, poi saggio e pacato nel momento in cui Cosa nostra ripiegò sulla strategia della sommersione e della invisibilità. Attento agli affari, con il fiuto per le nuove opportunità, sempre all’incrocio tra il core business della droga e le formidabili prospettive offerte dal fiume di finanziamenti pubblici, tra commercio, industrie, energie rinnovabili e sanità privata. Sua l’idea di mettersi all’opera per controllare lo sviluppo dei centri commerciali, poi di tuffarsi nell’eolico e nel fotovoltaico. Schiere di prestanome, formidabili ascese, nella schiera delle teste di legno di cui disponeva.

Abile nell’intrecciare rapporti con la società dei presentabili. Proprio come il padre, il cui nome spuntava dietro le connection mafio-massoniche del suo territorio. Alle vicende dei Messina Denaro è legata la parabola del senatore forzista e plenipotenziario berlusconiano a Trapani, Tonino D’Alì. Messina Denaro senior era il campiere delle proprietà di famiglia. I discendenti si erano ritrovati intorno all’appuntamento dell’affare per la cessione della Banca sicula alla Banca commerciale, con un andirivieni sospetto di soldi tra le due famiglie su cui mise gli occhi l’antimafia.

Grazie alla rete di parentele estese, i Messina Denaro avevano gettato un ponte nel Palermitano, piazzandosi a Bagheria, grazie al cognato Filippo, fratello del medico boss di Brancaccio Giuseppe, l’uomo che ha inguaiato l’allora presidente della Regione Salvatore, Totò, Cuffaro.

Protetto dai parenti, custodito dai sodali, coccolato da politici e imprenditori, Matteo Messina Denaro ha lasciato sempre centinaia di tracce. In una occasione fu pure filmato e su una bobina rimase impressa la sua voce. E poi le lettere, quelle alle fidanzate e la fitta corrispondenza con l’ex sindaco Tonino Vaccarino, alias Svetonio, che aveva intrecciato una corrispondenza epistolare su input del Servizi, sperando di stanarlo. Nelle missive, Messina Denaro si firmava Alessio. Ed è l’unico pseudonimo che si è attribuito.

Nella quotidianità, per gli altri, era “U siccu”, il magro, “U signurinu”, per l’eleganza o “U bene”, per dire della devozione. Alcuni lo chiamavano “Olio”, che è il prodotto tipico di Castelvetrano. A un certo punto presero a chiamarlo anche “Diabolik”, per dei fumetti di cui era avido consumatore al tempo della relazione bagherese con una maestra che lo accudiva insieme con tutto il parentado che aveva coinvolto nella custodia di un covo dal quale riuscì a eclissarsi poco prima di un blitz. Perché nella rete di protezione di cui ha goduto per trent’anni, le soffiate, le dritte decisive, per sparire al momento giusto non sono mai mancate. Aveva ottimi informatori anche tra le divise.

Sempre elegante, amante della bella vita, sbruffone, alla guida di auto sportive, in gioventù furoreggiava da rampollo intoccabile tra Castelvetrano e il mare di Selinunte. Per qualche tempo, dissero, si era trasferito anche in Inghilterra. Per dargli la caccia provarono ad agganciare una delle sue fiamme che era invece in Austria. Per carpire qualche dritta essenziale piazzarono pure una microspia davanti alla lapide del padre dove le sorelle si riunivano in preghiera.

Delle sue condizioni di salute si sapeva di un patologia agli occhi che spiegava l’uso di occhiali da sole protettivi. Si era favoleggiato di un intervento di chirurgia estetica per rifarsi i connotati. Poi di complicazioni per l’avanzare dell’età. Probabilmente l’umana debolezza che gli è stata fatale per l’arresto durante un controllo alla clinica Maddalena di Palermo.

Fonte:https://espresso.repubblica.it/attualita/2023/01/16/news/chi_e_matteo_messina_denaro-383786960/