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Matteo Messina Denaro al riparo di una superloggia deviata

Matteo Messina Denaro al riparo di una superloggia deviata

Il Sole 24 ore, Venerdì 19 maggio 2017

Matteo Messina Denaro al riparo di una superloggia deviata

di Roberto Galullo 

Sua latitanza” da Castelvetrano Matteo Messina Denaro, in chissà quale eremo, il 26 aprile ha compiuto 55 anni, gran parte dei quali trascorsi nella clandestinità mafiosa. Correva l’estate 1993 quando, dopo una dorata vacanza a Forte dei Marmi (Lucca), diventò uccel di bosco per lo Stato, che continua a dargli la caccia senza (finora) alcuna fortuna.
Mai come in questo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio il suo fantasma volteggia sul futuro di Cosa nostra e – di conseguenza – su quella quota parte di misteriosa evoluzione criminale.
Proprio su quest’ultimo aspetto si concentrano le attenzioni di investigatori e inquirenti che stanno lavorando da tempo ad un’ipotesi investigativa alla quale trovare riscontri. E così, mentre c’è chi gioca a diffondere le voci sulla sua morte e chi, al contrario, propala ai quattro venti di averlo visto nei posti più improbabili del globo terracqueo, le carte sui tavoli della Procura della Repubblica di Palermo e Caltanissetta riportano le lancette indietro di 10 anni esatti.
In quel periodo Matteo Messina Denaro avrebbe dato vita – con alcuni fuoriusciti da alcune obbedienze – alla loggia coperta e itinerante “La Sicilia”, nata “per” la segretezza e “nella” segretezza. Nel 2007 il Maestro venerabile ufficiale era il preside di un liceo scientifico ma, secondo questa ipotesi al vaglio, il vero Maestro venerabile era uno studioso trapanese, esoterista, iniziato massone, attento conoscitore della sana ritualità scozzese, deceduto nel 2012.

La convinzione del boss trapanese – sostengono le ultime ipotesi al vaglio della magistratura – è che bisogna rafforzare quella tela che finora lo ha protetto a dispetto di ogni tentativo di scovarlo, separando il piano della criminalità mafiosa da quello della borghesia professionale, imprenditoriale e politica per trarre benefici senza intralci burocratici. La massoneria deviata serve per avere quello che serve, senza spargimenti di sangue e la pubblica amministrazione fa da collante.
Questa super loggia politica, per ordine espresso di Messina Denaro, deve affiliare in tutta la regione solo imprenditori, ingegneri, architetti, avvocati, commercialisti e professionisti in generale (giornalisti compresi), membri della polizia giudiziaria e – molto verosimilmente – magistrati e giudici. Oltre a fidatissimi politici e amministratori della cosa pubblica.
Verrebbe quasi da dire: indaga sulla massoneria (come del resto sta facendo la stessa Commissione parlamentare antimafia che proprio da Trapani è partita per giungere il 1° marzo di quest’anno all’ordine di sequestrare gli elenchi di quattro obbedienze in Sicilia e in Calabria) per trovare i “fratelli” che tradiscono le logge e gli garantiscono la latitanza.
E’ questo del resto il senso inequivocabile dell’interrogazione presentata il 2 febbraio 2016 dal senatore Beppe Lumia (Pd) all’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano. Nell’interrogazione – finora senza alcuna risposta e che verosimilmente resterà inevasa – Lumia scrive che «un altro lato del sistema Messina Denaro è costituito, secondo quanto risulta all’interrogante, al rapporto con la massoneria che, a Trapani, avrebbe svolto un ruolo storico nel legame con Cosa nostra, come è stato dimostrato dalla vicenda della loggia “Scontrino”; andrebbe posta l’attenzione, secondo l’interrogante, sulla famosa loggia massonica segreta di via Carreca, denominata “Iside 2” del gran maestro Gianni Grimaudo, cui sarebbero stati iscritti “colletti bianchi” e mafiosi e, oggi si è scoperto, anche politici. Inoltre, è sempre stato vivo il tentativo di avvicinarsi alla magistratura che si occupa di indagini antimafia» e Lumia chiede «se risultino fondati i sospetti di collegamento sia con la vecchia massoneria, a tal fine monitorando l’attuale posizione degli appartenenti alle logge menzionate, sia quelli con la nuova massoneria, attraverso una capillare verifica delle attuali adesioni».

La loggia Scontrino
Facciamo un salto indietro. E’ l’11 aprile 1986 quando Saverio Montalbano, vicequestore di Polizia e capo della Squadra mobile di Trapani, entra nell’immobile di via Carreca dove ha sede il circolo culturale Scontrino. Sequestra fogli manoscritti, appunti, carte, agende e rubriche fitte di numeri di telefono, nominativi e annotazioni tra le quali gli elenchi degli affiliati a sette logge massoniche attive: Iside, Iside2, Osiride, Hiram, Ciullo d’Alcamo, Cafiero, più una misteriosa loggia C. Negli elenchi degli affiliati, i nomi dei potenti locali: funzionari pubblici, politici, imprenditori, professionisti e boss mafiosi. Gli elenchi non erano mai stati comunicati alla Questura, sebbene il 7 febbraio 1981, Natale Torregrossa, componente del supremo consiglio del 33° grado scozzese antico e accettato, avesse segnalato alla stessa Questura che, nell’appartamento di via Carreca 2, secondo piano, era stato allestito un tempio massonico con le 51 spade rituali. Misteriosamente – dall’oggi al domani – il capo della squadra mobile di Trapani venne trasferito.
Per continuare a conoscere ciò che gravita intorno a Trapani basta leggere le 3.039 pagine di motivazioni depositate il 27 luglio 2015 dalla Corte di Assise di Trapani (presidente Angelo Pellino, giudice Samuele Corso, oltre ai giudici popolari), della sentenza relativa all’omicidio di Mauro Rostagno, avvenuto il 26 settembre 1988 a Lenzi (la sentenza di primo grado, pronunciata il 15 maggio 2014 ha visto le condanne di Vincenzo Virga e di Vito Mazzara e la prima udienza dell’appello si è svolta il 13 maggio 2016 presso la seconda sezione della Corte di assise di Palermo).
Ebbene, in quelle 3.039 pagine di una sentenza che si lega all’ostinazione e alla competenza con la quale la magistratura ha seguito il caso, si legge un potere devastante dei poteri marci, della borghesia mafiosa, della massoneria deviata, dei Servitori infedeli dello Stato che governavano (e governano) Trapani (e non solo). Con riflessi inquietanti che – trascorsi quasi 30 anni – sono sempre vivi e più che mai attuali.
Il circuito di relazioni
Leggiamo cosa scrive – da pagina 682 in avanti – la Corte di Assise a proposito della loggia Scontrino e del circuito di relazioni: «Nel cono d’ombra di una loggia massonica coperta, al sicuro da sguardi indiscreti, si coltivano reazioni e si allacciano contatti altrimenti impensabili o difficilmente praticabili; e si sugellano accordi di interesse tra soggetti che appartengono a mondi diversi. In particolare, la compresenza nello stesso circuito massonico trapanese di soggetti di così diversa estrazione e levatura – politici, alti burocrati, funzionari pubblici, magistrati, imprenditori e mafiosi, inclusi semplici gregari – ben poteva spiegarsi sia con la funzione assegnata agli uomini di Cosa nostra di custodi armati del rispetto di accordi collusivi stipulati in altra sede; sia con la destinazione dei vincoli di fratellanza massonica a luogo protetto e sede in cui poter compensare i loro servigi con adeguati favori o negoziare o scambio di favori indicibili, anche al di là dell’appoggio elettorale a candidati graditi (…)
(…) Uno spaccato inquietante in tal senso è offerto invero dalla documentazione acquisita e dalle fonti compulsate già nelle indagini compendiate nei vari rapporti giudiziari dell’epoca – e segnatamente quelli della Squadra Mobile di Trapani del 5 settembre ’86, della Criminalpol del 20 febbraio 1987, della Squadra Mobile e della Gdf del 26 maggio 1977, dei Carabinieri del Reparto operativo di Trapani del 22 giugno 1987, acquisiti tutti al fascicolo del dibattimento – e dalle ulteriori risultanze emerse nel processo a carico dei presunti promotori e organizzatori dell’associazione segreta sorta dietro la copertura delle attività culturali del circolo Antonio Scontrino. E ciò va rimarcato, sebbene il processo , definito con sentenza del Tribunale di Trapani i data 5 giugno 1983, sia stato celebrato solo a carico di otto degli oltre sessanta inquisiti) inclusi i 35 attinti dalle iniziali comunicazioni giudiziarie emesse dall’Ufficio istruzione del Tribunale di Trapani, che rigettò la richiesta di contestare con mandato di cattura i reati per i quali si procedeva), in quanto le posizioni degli altri indagati, a parte alcune posizione stralciate furono definite in istruttoria con proscioglimenti nel merito o per prescrizione o per intervenuta amnistia (relativamente alle imputazioni per il reato di partecipazione ad associazione segreta e per altre imputazioni afferenti a reati contri la p.a.).
E non può non darsene conto, sia pure sommariamente, nel momento in cui deve ribadirsi che uno dei filoni tematici che con maggiore evidenza si intravedono nei materiali assemblati da Rostagno – riguarda proprio il tema della massoneria (deviata) e dei suoi rapporti con la politica e con la mafia: con particolare riguardo, per la realtà trapanese, all’inchiesta sul circolo Scontrino».


Gli episodi a catena
Ciò che si legge da pagina 718 fa seguito al racconto di una serie di incredibili episodi di tracotanza, spavalderia da parte di alcuni indagati. «Angelo Voza – si legge nella sentenza e del quale è stata raccolta la testimonianza in dibattimento – fu uno dei militari della Gdf più impegnati nelle indagini successive alla perquisizione del Centro Scontrino (ha spiegato che il coinvolgimento di tutti i corpi di polizia, inclusi Guardia di Finanza e Carabinieri fu motivato anche dall’esigenza di evitare che eventuali ritorsioni si accentrassero solo sulla Polizia, considerato ciò che era successo al commissario Saverio Montalbano, praticamente trasferito d’ufficio dopo la perquisizione del Centro Scontrino).
Voza sostiene di aver ricevuto diverse minacce per questo suo impegno (tra l’altro fu vittima di uno strano “scherzo” e cioè di una domanda di trasferimento in Sardegna che ovviamente lui non aveva mai presentato). E una volta fu minacciato personalmente da uno degli indagati, che pretendeva la restituzione di alcuni libretti al portatore sequestrati nel corso di una perquisizione. Si presentò al corpo di guardia e gli intimò di restituirgli quei libretti se non voleva passare un guaio (“Io mi rivolgerò al ministro. Le farò vedere”) (…)
(…) Ma soprattutto lo sviluppo delle indagini portò alla luce una serie di episodi dai contorni illeciti in relazione ai quali presero corpo plurime imputazioni per reati contro la p.a., truffa, tentata estorsione e persino rivelazione di segreti d’ufficio, con riferimento all’essere stati alcuni degli inquisiti messi a conoscenza delle indagini a loro carico. In particolare, le imputazioni per il reato di interesse privato in atti d’ufficio caddero già i istruttoria, con una raffica di proscioglimenti per intervenuta amnistia (al pari delle imputazioni per rivelazioni di segreti d’ufficio), previa derubricazione ad abuso d’ufficio. Tuttavia, i fatti accertati erano d’innegabile gravità o tali da gettare pesanti ombre sulla capacità della cricca di inquinare o insidiare il corretto funzionamento delle istituzioni locali».

La perseveranza della magistratura
L’ex procuratore aggiunto di Palermo Maria Teresa Principato il 20 ottobre 2015, nel corso di un convegno a Salemi (Trapani), puntò il dito proprio contro la rinnovata rete di protezione della politica, della borghesia mafiosa e della massoneria deviata.
Giunse poi il capo della Procura palermitana Francesco Lo Voi, che il 4 novembre 2015 in Commissione parlamentare antimafia rispose così sulle coperture, alle sollecitazioni dei commissari Claudio Fava (Mpd) e del solito Lumia (Pd): «Non sono idoneo a fare l’interpretazione autentica delle indicazioni fornite dalla collega Principato, ma so da dove nascono. Nascono da una serie di ipotesi investigative su cui si è lavorato e si sta lavorando, che fanno ritenere che sia difficile reggere ventidue anni di latitanza (risaliamo al 1993) senza un appoggio che non deve essere necessariamente di altissimo livello se ci riferiamo alle istituzioni, e contestualmente, sulla base di elementi su cui si sta lavorando, ci fanno ritenere che non siano neanche di basso livello dal punto di vista dell’origine sociale e delle caratteristiche di inserimento nel territorio e nella società. Si tratta quindi di professionisti, imprenditori, persone collegate a determinati ambienti, non esclusa la massoneria in ragione non soltanto territoriale (è stato indicato in una delle domande dal senatore Lumia), ma anche perché qualche spunto a questo riguardo, specificamente con riferimento al territorio di Trapani, emerge dalle indagini. È un’attività di ricerca che non è semplice e che spero possa portare a risultati, ma vi prego di credere che non si stanno risparmiando energie e risorse in questa attività».
Dunque Lo Voi si lascia sfuggire che – quanto alla massoneria – «qualche spunto a questo riguardo, specificamente con riferimento al territorio di Trapani, emerge dalle indagini». Sta alla magistratura indagare ma è certo che la pista della massoneria deviata viene battuta con ogni forza possibile e immaginabile.
Per capire fino in fondo il bozzolo mortale (per la democrazia italiana) che avvolge e protegge Matteo Messina Denaro e i suoi sodali, si deve tornare ancora alle 3.039 pagine di motivazioni depositate il 27 luglio 2015 dalla Corte di Assise di Trapani della sentenza relativa all’omicidio di Rostagno. In un territorio complesso e devastato da una miscela esplosiva in cui gli ingredienti principali sono Cosa nostra, politica marcia e servitori infedeli dello Stato, non è casuale imbattersi in quelle che Natale Torregrossa, membro autorevole del (fu) circolo Scontrino di Trapani, ha definito «logge selvagge».
Dalle motivazioni della sentenza, leggiamo quanto scrivono i giudici da pagina 793 nel paragrafo intitolato “Le menzogne di Torregrossa”: «Al presente dibattimento, Torregrossa ha negato tutto quello che poteva negare senza eccessivo rischio, per non essere stato (ancora) processualmente accertato. E ha fatto parziali ammissioni solo rispetto ad evidenze non oppugnabili. Ma su più di un punto è stato smentito da risultanze dibattimentali; e soprattutto è smentito da Rostagno e da se stesso, avendo reso una deposizione che si segnala per le numerose reticenze, incongruenze o palesi falsità da cui è costellata.
Egli ha ammesso di aver partecipato ala fondazione praticamente di tutte le logge del Centro Scontrino che facevano capo come rito massonico, alla Comunione di Piazza del Gesù, ma, come lui stesso ha precisato, erano “autonome”: che è una sua personale interpretazione del fatto che si trattava di logge selvagge, cioè non riconosciute dagli organismi centrali (…)».

Logge selvagge
Logge selvagge rende perfettamente l’idea di un’associazione segreta, occulta, senza regole. Un concetto sul quale i giudici torneranno da pagina 821, allorché ripercorrono le tappe dei notiziari, dei redazionali, dei programmi di approfondimento e delle interviste nelle quali Rostagno aveva affrontato e dibattuto il tema del rapporto mafia-massoneria o poteri occulti o malaffare. Rostagno denunciava con attenzione e preoccupazione «la pervasiva infiltrazione di poteri occulti negli apparati istituzionali, quale fattore di corrosione e inquinamento del tessuto democratico; la compresenza delle logge massoniche che facevano capo la centro Scontrino di uomini delle istituzioni e funzionari pubblici (oltre a professionisti, banchieri e imprenditori) da un lato e noti sponenti mafiosi dall’altro: i possibili legami della massoneria trapanese e segnatamente delle logge “selvagge”…con la P2 di Licio Gelli (anche in relazione alle presunte visite dello stesso Gelli nel Trapanese); il possibile coinvolgimento di circoli massonici nel traffico di droga, se non anche nel traffico d’armi.
È allora lecito ricavare, anche dalla parte “sommersa” dell’attività giornalistica di Rostagno, indicazioni, in ordine al più probabile movente del delitto e alla sua matrice mafiosa, che, senza essere perentori e concludenti, tuttavia convergono perfettamente con quelle desumibili dalla parte “emersa” di quell’attività.
In sostanza, nella primavera del 1988, a partire dal momento in cui i primi arresti provano che dietro tanto fumo c’era anche molto arrosto ed era un arrosto che faceva male, per usare la metafora di un suo redazionale, Rostagno esce allo scoperto, ma al contempo continua a scavare nell’ombra, tessendo contatti con fonti interne alle vicende di cui parla per saperne di più e documentarsi, come lui stesso ha dichiarato nei verbali che per 25 anni sono rimasti sepolti tra le carte del processo “Scontrino”.
Egli comincia cioè a martellare quelli che oggi si definirebbero, con espressione un po’ abusata, i poteri forti che dominavano la città di Trapani attraverso strutture di potere occulti come quella venuta alla luce proprio nell’inchiesta sul circolo Scontrino, che intreccia il malaffare con l’inquinamento delle istituzioni e le collusioni politico-mafiose».

La protezione extralarge
Il 23 novembre 2016 la Commissione parlamentare si è nuovamente dedicata all’audizione di Maria Teresa Principato. Messina Denaro, dirà il magistrato, gode nell’ambito della città di Trapani di una protezione che spesso sconfina nella connivenza e addirittura nella condivisione di certi valori e nella contrapposizione «rispetto ad uno Stato in cui nessuno crede». Principato ricordò i grandi manifesti “Matteo torna, abbiamo bisogno di soldi” e quando una sola volta, nel 2014, lesse su un cartello posto al centro della città di Castelvetrano “Matteo sei un pezzo di merda”. Li il magistrato capì che «qualcosa forse stava cambiando».
Principato pensava che questo potesse suscitare nell’uomo una reazione «ma l’uomo non è un uomo normale – dirà in Commissione – è un uomo molto freddo, molto particolare. Scusate se mi riferisco a questa persona come se l’avessi conosciuta, ma in realtà dopo otto anni di studio approfondito della materia è quasi normale che si ragioni come dopo aver conosciuto una persona».
Ecco che accanto alla strategia del prosciugamento dell’acqua criminale nella quale nuota, la Procura di Palermo, contemporaneamente, porta avanti quella dell’impoverimento del portafoglio del latitante. E qui Principato condisce la strategia anche con una nota di colore: «Essendo lui, come tutti gli altri trapanesi, così profondamente legato al denaro, agli affari e ai propri interessi, ho ritenuto di effettuare un’azione convergente rispetto alla sezione misure di prevenzione di Trapani e provvedimenti di sequestro e confisca che abbiamo effettuato sulla base delle nostre operazioni che equivalgono a milioni di euro, se pensate che solo una catena di grande distribuzione è stata oggetto di confisca per 850 milioni».
Anche il nipote del cuore, Francesco Guttadauro, colui che era destinato ad essere il suo successore e che quanto a violenza, dirà Principato, «lo aveva già eguagliato, se non superato», è stato arrestato e sottoposto al 41-bis. Tutto questo «per ottenere un affievolimento del consenso da parte di tutti nei confronti di questo latitante – dirà Principato – perché a mio avviso era intollerabile, ed ecco perché ho dedicato anni della mia vita a questo, che lo Stato rinunciasse alla cattura di un latitante che dal 1993 sfugge e che rappresenta per la città di Trapani una primula rossa, quindi una persona da imitare, una persona da ammirare, verso la quale provare, più che una condiscendenza, una vera e propria connivenza». 

Un parassita della società
Questi sistemi hanno sortito dei risultati – non quelli sperati dirà Principato che evidentemente si riferisce alla cattura – ma si è rotto il muro di omertà che tradizionalmente ha circondato la famiglia di Matteo Messina Denaro.
Pur non richiedendo di essere inquadrato come collaboratore di giustizia, ha cominciato a rompere questo muro del silenzio sulla famiglia il cugino Lorenzo Cimarosa, già detenuto per tre anni per favoreggiamento nei confronti del cognato, reato per il quale si è sempre proclamato del tutto innocente. Dopo un’iniziale timida collaborazione Cimarosa ha aiutato investigatori e inquirenti a inquadrarlo meglio, a capirne quantomeno la struttura mentale. Cimarosa, deceduto l’8 gennaio di quest’anno, ha definito Matteo Messina Denaro «un parassita», cioè un personaggio che si nutriva del lavoro degli altri senza peraltro dare niente in cambio.
Quando sono stati arrestati il cognato Vincenzo Panicola, marito di Patrizia Messina Denaro, la stessa Patrizia Messina Denaro, Filippo Guttadauro, marito di Rosalia Messina Denaro e padre di Francesco, Giovanni Filardo, figlio di Rosa Santangelo e cugino di Matteo, Matteo Filardo, fratello di Giovanni e il nipote del cuore, Francesco Guttadauro, tutti pensavano che ci dovesse essere una reazione.
«Fu il tempo in cui io fui minacciata di essere destinataria di una partita di tritolo – ricorda Principato – che coincise con l’arresto dei suoi familiari, ma soprattutto con l’ablazione di tanto denaro che per uno come Matteo Messina Denaro come per ogni altro, soprattutto in un periodo come questo, era estremamente importante. Non c’è stata solo questa conseguenza positiva, ma, come avrete letto su tutti i giornali, hanno cominciato a collaborare altre due persone, Attilio Fogazza e Nicolò Nicolosi che, arrestati insieme a Giovanni Scimonelli per un omicidio, hanno cominciato a parlare. Anche questo è stato un momento di rottura del muro dell’omertà, ma c’è di più: dalle intercettazioni che man mano sentivamo, perché non ci siamo limitati con questo preziosissimo strumento di indagine, emergevano delle vere e proprie lagnanze, delle valutazioni negative da parte dei sodali nei confronti del latitante.
Ne abbiamo riportate alcune in una richiesta di custodia cautelare e sono state poi riportate in un’ordinanza, sono di due persone che dicono: “ma questo ha tutta la famiglia dentro, io al suo posto farei scoppiare qualsiasi cosa!”, e sostanzialmente il significato è “ma se non pensa alla sua famiglia, come può pensare ai trapanesi, a tutti noi, all’organizzazione da lui capeggiata?”.
Questa è la cosa che più ha preoccupato tutti, questo è stato il primo commento di cui ho parlato perché è pubblico. Di altri non parlerò, però ce ne sono stati altri e molto efficaci sempre contro Matteo Messina Denaro, di grande delusione per la sua lontananza e il disinteresse nei confronti dei suoi».
La magistratura ha dunque agito sulla perdita di consenso attraverso arresti, provvedimenti ablativi e azioni di disturbo nei confronti di persone che anche in passato lo avevano agevolato (ad esempio con perquisizioni di immobili e fermi di auto con conseguenti perquisizioni).

Nella testa del boss
Principato spiega poi il modo di ragionare della primula rossa trapanese e rivela che per capire le sue elucubrazioni ci ha messo un po’ di tempo. E racconta di quando Matteo Messina Denaro, in un pizzino ritrovato, parla di Leo Sutera come «di una brava persona della quale ci si può fidare». «Sutera nel 2012 stava per farci prendere Matteo Messina Denaro – dirà il pm – e il suo arresto è stato troncante, cioè ha eliminato ogni possibilità di arrivare con soddisfazione a questa operazione. È una cosa che molto difficilmente riuscirò a dimenticare, perché Matteo Messina Denaro, che è abituato a tutti gli artifici della latitanza, ricordiamo che ha vissuto con il padre Francesco latitante per tantissimi anni, dopo un arresto, dopo che anche i sospetti, le attenzioni di un investigatore si soffermano su una persona, immediatamente cambia strada, immediatamente investe su qualcosa di diverso. Immediatamente cambia strada, va all’estero con tutta probabilità; non gli mancano le occasioni, le modalità e i luoghi in cui rifugiarsi in tutta sicurezza. Questa è una caratteristica di questo latitante, cioè il fatto che procedere a degli arresti, quindi la strategia della cosiddetta “terra bruciata” per lui non è una strategia adeguata. L’ho capito dopo un po’ di tempo». 

Lo Stato fa la pace con se stesso
E qui Principato ricorda che nel dicembre 2014 «riuscì in un’operazione», cioè a firmare un protocollo (che oggi sembra lasciato nel cassetto) con il generale Mario Parente, all’epoca a capo del Ros dei Carabinieri e Raffaele Grassi dello Sco della Ps per un’indagine comune, «affinché Carabinieri e Polizia, abbandonando le rivalità tradizionali ormai diventate oggetto di ilarità e di barzellette, lavorassero insieme, non ostacolandosi e dividendosi , da me coordinati, gli obiettivi. Ecco perché abbiamo potuto realizzare tutto questo».
Ecco, forse questo è l’aspetto paradossale: che per catturare un criminale di questo tenore si siano (verosimilmente) persi anni per diatribe, incomprensioni, litigi, scaramucce, gelosie (nel migliore dei casi) tra organi investigativi e sia dovuto arrivare un pm che – contando sulla disponibilità di due comandanti dei Carabinieri e della Polizia intelligenti – abbia potuto finalmente siglare una tregua. Domanda: scontato il merito a Principato, Parente e Grassi, a qualcuno sembra normale che per catturare questo rifiuto della società lo Stato debba firmare la pace con se stesso?

La rete oltreoceano
Matteo Messina Denaro risulta avere gradi di parentela con importanti famiglie mafiose newyorkesi, come i Gambino, i Lucchese, i Bonanno, i Genovese. La ragnatela delle coperture finanziarie e delle protezioni parte e arriva (la direzione è biunivoca) dagli Stati Uniti (segnatamente da New York), dove Cosa nostra trapanese è fortissima e vanta collegamenti internazionali anche con le centrali dei Paesi nevralgici per il narcotraffico e il traffico illecito di ogni genere (come la stessa Tunisia dove Cosa nostra ha radici solide).
Visto che lo stesso ex procuratore aggiunti della Procura di Palermo Maria Teresa Principato non si era sbilanciato sulla possibilità che il super boss potesse trovarsi all’estero, già il 4 novembre 2015 Lumia aveva chiesto al capo della Procura di Palermo Francesco Lo Voi, ascoltato dalla Commissione parlamentare antimafia, «se anche questo livello venga monitorato e quali risultati siate riusciti a ottenere, visto che anni fa, quando come Commissione ci recammo negli Stati Uniti, mi fu spiegato che c’erano diversi gradi di parentela dell’universo familiare di Matteo Messina Denaro con le tradizionali famiglie newyorkesi». Sul punto, comprensibilmente, Lo Voi non rispose per non svelare nulla sulle indagini in corso ma è bene ripercorrere quelli che sono i fortissimi (e influenti) addentellati finanziari e politici statunitensi della famiglia “allargata” di Messina Denaro.
Alcuni dei capi delle cinque famiglie di New York, come Carmine Galante e Joe Bonanno, erano originari di Castellammare e alcuni importanti processi celebrati già nel 1956 e nel 1963 comprovarono che all’epoca esistevano già stretti legami, anche in ragione dei vincoli parentali, tra le cosche di Alcamo, Salemi e Castellammare del Golfo e le famiglie mafiose radicatesi negli States. In particolare, molti castellammaresi emigrarono nel New Jersey e questo spiega la solidità dei legami con le famiglie mafiose di New York ma anche il peso della mafia castellammarese, che si faceva forte di una naturale alleanza su base parentale con la mafia a stelle e strisce, che ben prima delle organizzazioni criminali europee aveva scoperto il business della droga.
Un’utilissima e attualissima lettura di quanto accade all’interno dei quattro mandamenti (che comprendono complessivamente 17 famiglie, tra le quali ovviamente quelle di Castellammare, Alcamo e Salemi) sui quali sarebbe strutturata attualmente Cosa nostra trapanese, giunge dall’ultimo rapporto della Dia presentato a fine gennaio al Parlamento. «Il modello verticistico-piramidale consente l’imposizione di strategie unitarie – si legge a pagina 33 dell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia – comunque protese a coprire e sostenere la latitanza di Matteo Messina Denaro, ritenuti punto di riferimento del sistema criminale, non solo provinciale».
I soldi – si sa – sono in grado di corrompere dovunque e non è superfluo sottolineare che dalle agende sequestrate fin dalla prima perquisizione presso il Centro Scontrino di Trapani, emersero annotazioni che alludevano o lasciavano intendere il dispiegamento di attività volte a interferire, o comunque ad interessarsi, anche di vicende più delicate – in Italia e all’estero – come ad esempio procedimenti penali o per l’applicazione di misure di prevenzione a carico di pregiudicati o di indiziati mafiosi. Tra le carte della perquisizione fu trovato questo appunto: “Falcone Giovanni-Rosario Spatola-John Gambino”.
John (Giovanni) Gambino è proprio quel John Gambino che nel 1988 venne arrestato a New York insieme ai suoi fratelli nell’ambito dell’operazione antidroga Iron Tower, coordinata proprio da Falcone e da Rudolph Giuliani. Spatola era parente (cugino per la precisione) dei Gambino.
Così come non vanno sottovalutati i rapporti e le trame oscure che questa ragnatela italo-statunitense (per la precisione trapanese-newyorchese) è stata nel passato capace di tessere e di cui sarebbe errato non credere che ancora oggi sia viva e vegeta, anche se con altri attori protagonisti. Nelle motivazioni depositate il 27 luglio 2015 dalla Corte di assise di Trapani della sentenza relativa all’omicidio di Rostagno c’è uno spunto straordinario, da questo punto di vista. Si legge da pagina 1.265, che «il gruppo di potere insediatosi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta al vertice del Sismi (il vecchio Servizio segreto militare, ndr) faceva parte il faccendiere Francesco Pazienza legato alle famiglie mafiose italo-americane e in particolare a John Gambino e in rapporti d’affari con Pippo Calò, componente della Commissione provinciale di Cosa nostra. Mediatore tra i due era stato il costruttore siciliano Luigi Faldetta, uomo di Cosa nostra, ma legato anche alla Banda della Magliana. E Francesco Pazienza era altresì interessato ad un giro d’affari – e di speculazione e intrallazzi – di cui erano partecipi Flavio Carboni, legato al banchiere Roberto Calvi ed elementi della Banda della Magliana».
Pazienza, che nel 1980 divenne consulente del Sismi, fu raggiunto da una prima richiesta di estradizione nel 1984 ma non fu arrestato fino al 4 marzo 1985, prima di essere consegnato alle autorità italiane nel giugno 1986. L’arresto, per la cronaca, avvenne, guarda caso, a New York.

L‘attacco al patrimonio della famiglia “allargata
Da quando Gdf, Dia e Carabinieri – delegati dalle Procure – hanno messo nel mirino il portafoglio del super boss latitante, sono stati definitivamente confiscati o sequestrati beni mobili e immobili per oltre tre miliardi.
Eppure il mondo che gravita intorno a Matteo Messina Denaro sembra non interessarsi di sequestri e confische miliardarie oltre che di decine e decine di arresti di operai, quadri, funzionari e dirigenti della cosca e continui a condurre una vita al limite. «Anche i familiari di Matteo Messina Denaro – metterà Lumia nero su bianco nella sua interrogazione – pur subendo il sequestro di beni, sfoggiano ancora un altissimo tenore di vita, tanto da fare sposare i loro figli nella famosa e stupenda Cappella Palatina di Palermo». Il riferimento è al matrimonio celebrato nel pomeriggio del 12 settembre 2014 tra una nipote di Matteo Messina Denaro (che si presentò all’altare senza il padre, Filippo Guttadauro e il fratello Francesco, all’epoca al carcere duro, oltre che, ovviamente, senza lo zione Matteo) e un nipote di Gaetano Sansone, il quale ospitò Totò Riina nel suo residence.
È un matrimonio che unì i Guttadauro e i Sansone, la provincia di Trapani e quella di Palermo. 

Mani sicure sul tesoro
E’ impressionante la lista degli interessi della famiglia Messina Denaro, che copre ogni settore dell’economia: il campo dell’eolico, la grande distribuzione, il settore delle cave, quello del calcestruzzo, il movimento terra, l’agroalimentare e il settore alberghiero.
Solo in Sicilia? Figurarsi…
Il Gup di Milano Alessandra Del Corvo, il 3 febbraio di quest’anno ha condannato Giuseppe Nastasi, ritenuto amministratore di fatto di Dominus arl, la società consortile che ha lavorato con Nolostand, società controllata dalla Fiera Milano, a 8 anni e 10 mesi nel processo con rito abbreviato. Secondo le motivazioni costui ha preso pure in considerazione, si legge a pagina 194, «la possibilità di porre tale attività a disposizione ed al servizio di un soggetto del calibro mafioso di Matteo Messina Denaro e ciò nella piena consapevolezza del Nastasi di poter essere indagato per favoreggiamento o per apparteneneza all’associazione mafiosa». Ma la vicenda non sembra finita qui perché il Gup a pagina 200 scrive che Nastasi, anch’egli di Castelvetrano come Messina Denaro, ha «una palesata capacità di infiltrazione nella realtà imprenditoriale lombarda – e nel settore degli appalti legati a Fiera Milano spa – anche grazie ad una ramificata serie di contatti ed appoggi davvero trasversali e ancora tutti da chiarire».
La vicenda portò prima al commissariamento di Nolostand e poi all’amministrazione giudiziaria del settore allestimento stand della stessa Fiera. Commissariamento ampliato ad altri settori del gruppo, anche se è stata respinta la richiesta di amministrazione giudiziaria totale formulata dalla Dda, anche sulla base di un nuovo filone su presunte tangenti pagate da alcune imprese per lavorare. Il gup con la sentenza ha anche riconosciuto a Fiera Milano e Nolostand, rappresentate dal legale Enrico Giarda, e al Comune di Milano, rappresentato dall’avvocato Maria Rosa Sala, risarcimenti come parti civili da quantificare.
Ma chi tiene la cassa di Messina Denato? Una risposta parziale giunge dall’indagine della Procura di Caltanissetta. I pm Lia Sava e Gabriele Paci, che hanno delegato le indagini alla Dia guidata dal colonnello Giuseppe Pisano (Gip Alessandra Bonaventura Giunta) hanno individuato Matteo Messina Denaro come mandante delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
A Messina Denaro è contestato il concorso morale, per aver aderito al piano stragista e alla sua attuazione, partecipando ad un «gruppo riservato» creato da Totò Riina e alla sue dirette dipendenze. Un gruppo di “riservati” disposto a tutto pur di uccidere i nemici giurati di Cosa nostra: in primis Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di cui, dopo l’assassinio del giudice, veniva temuta l’ascesa alla Procura nazionale antimafia.

La super Cosa Nostra
Una “super Cosa nostra” composta da due gruppi di pretoriani di Riina che non doveva conoscere le mosse dell’altro. Di uno – oltre a Giuseppe Graviano, Fifetto Cannella, Lorenzo Tinnirello, Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci – faceva parte proprio Messina Denaro. Fu questo gruppo – secondo la ricostruzione di investigatori e inquirenti coadiuvato ad un certo punto dal clan camorristico Nuvoletta – a partecipare alla missione romana (dal 24 febbraio al 5 marzo ’92, un mese dopo la sentenza nel maxiprocesso emessa il 30 gennaio) impegnata ad uccidere Falcone o, in subordine, l’allora ministro Claudio Martelli o personaggi invisi come Maurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato, Michele Santoro e Pippo Baudo. Una “super Cosa nostra” che era il sintomo dell’ansia parossistica con la quale Riina perseguiva l’eliminazione di Falcone, strettamente collegata alla strategia di guerra allo Stato.
Nelle carte del provvedimento spicca il ruolo di Francesco Geraci, gioielliere e amico d’infanzia del boss latitante. Costui non è mai stato ritualmente affiliato a Cosa nostra ma – ugualmente – faceva parte della cerchia strettissima di cui Messina Denaro si fidava ciecamente. A Geraci venne affidato il delicato compito di gestire la cassa di famiglia, che amministrò per anni, custodendo il denaro nel caveau della propria gioielleria.
Ed è proprio lui a raccontarlo in un interrogatorio sostenuto dalla 12.45 del 5 ottobre 1996: «L’episodio nel quale è coinvolto mio fratello è quello che concerne la gestione di “conti” ce io tenevo in gioielleria nell’interesse di Messina Denaro Matteo: il Matteo avendo notato un caveau particolarmente protetto, mi aveva chiesto se potevo custodirgli del denaro in contanti, ed io mi ero messo a disposizione senza alcuna difficoltà. Tale denaro, in pratica confluiva in quattro conti: uno era quello personale di Matteo che ebbe al massimo un saldo di 35 milioni; un altro che ha avuto anche la consistenza di 100-150-200 milioni; l’altro ancora ammontava a 100 milioni e che, come mi disse Matteo, erano soldi di sua madre; un ultimo invece fu fatto in occasione dell’acquisto di terreni, di cui parlerò appresso, di cui la S.V. mi invita a fare. Ero stato io a confidare a mio fratello l’esistenza di quei conti anche per consentire che in mia assenza Matteo potesse effettuare operazioni di deposito o prelievo di denaro rivolgendosi direttamente a lui. Il Matteo veniva assiduamente a compiere queste operazioni, le quali venivano annotate in dei bigliettini in cui sostanzialmente veniva riportato soltanto il saldo e che venivano successivamente strappati. Mio fratello si occupava anche della gestione di questa contabilità ma ero io di fatto che mantenevo i rapporti con Matteo (…) Prima del mio arresto ricordo che il conto personale del Matteo era stato azzerato e ciò in concomitanza con l’inizio della sua latitanza; quello degli “affari correnti”, per così dire, era stato assottigliato (…) Aggiungo che per un certo periodo, sempre tramite il Matteo, anche …omissis…ci aveva portato in custodia 200 milioni che erano dei soldi di cui egli si era appropriato in banca. Mi risulta inoltre che …omissis…si fece custodire una certa somma, forse circa 70 milioni, anche da…omissis…Mi sovviene che ho custodito anche i soldi di…omissis…, circa 20 milioni, che mi furono portati da…omissis».
L’ulteriore passaggio evolutivo di tale rapporto – annota il Gip a pagina 21 del provvedimento – fu l’affidamento a Geraci di numerosi lingotti d’oro e di una valigia piena di monili e oggetti preziosi, beni tutti appartenenti a Totò Riina, consegnati da Geraci agli inquirenti all’inizio della sua collaborazione. «Nella terza occasione – proseguirà Geraci nell’interrogatorio del 5 ottobre 1996 – Riina si presentò nel negozio accompagnato da Matteo, con la moglie e le due figlie, affidandomi una borsa con i gioielli della famiglia perché li custodissi; si trattava di orecchini, monili ed altro che io ho occultato in un nascondiglio segreto nella mia abitazione unitamente ai lingotti d’oro che in un’altra occasione mi aveva portato il Matteo dicendomi che erano di Riina. A proposito di Riina ricordo che per due estati in due occasioni ho fatto fare insieme al Matteo delle gite in barca a tutti e quattro i suoi figli, unitamente alle figlie di Pietro…omissis…e di tale “vartuliddu” di Corleone, entrambi all’epoca dimoranti a Triscina. Aggiungo ancora che una volta il Matteo regalò un Rolex modello Daytona in oro ed acciaio al figlio di Totò Riina a nome Gianni e nell’occasione anche io volli donare un identico orologio all’altro figlio a nome Salvatore. Un giorno Messina Denaro Matteo mi chiese se mediante un’operazione “pulita” potevo intestarmi un terreno che da quello che capiì apparteneva alla famiglia mafiosa di Castelvetrano: si trattava di un terreno di tre salme e mezzo sito alle spalle della grande costruzione di Genco cui si accede da viale Roma. Non sono in grado di dire se quel terreno intestato formalmente a …omissis…di fatto apparteneva già a Messina Denaro Matteo ed ai suoi amici mafiosi oppure se di fatto costoro ne diventavano proprietari a seguito della vendita nella quale io figuravo come formale acquirente. L’acquisto avvenne, se mal non ricordo, tra i 1990 e il ’91 (…) Successivamente alla compravendita, il terreno acquistato da …omissis….fu un compromesso rivenduto ai Sansone di Palermo per la somma di 550 milioni. Il Sansone mi versò 450 milioni in assegni ma prima che saldasse completamente il debito venne arrestato per cui rimase in debito di 100 milioni. Ricordo che si diceva che quel terreno doveva diventare edificabile e che anzi il Sansone doveva realizzare un grosso insediamento edilizio, tipo “Castelvetrano due”; infatti attualmente il terreno vale svariati miliardi. Con il guadagno di 250 milioni previsto a seguito di quella compravendita, il Matteo mi aveva detto che dovevo intestarmi un terreno di Riina…».

La collegialità mobile
«Non è in discussione la struttura unitaria di Cosa nostra – dirà Lo Voi in Commissione antimafia – recenti acquisizioni ci confermano che le regole anche con riferimento alla struttura continuano ad essere rispettate. Regole con riferimento alla struttura significa nella nostra lettura contatti tra uomini di diversi mandamenti o addirittura di diverse province per la soluzione di determinate questioni, il che vuol dire che la struttura è unitaria. Da ciò a dire che esista un’unica autorità, come è avvenuto in passato attraverso non solo la commissione di cosa nostra, che di tanto in tanto si prova a ricostituire (recentemente le cronache ne hanno dato notizia), ma con riferimento al personaggio maggiormente carismatico che assume la veste di leader, forse ce ne corre. Probabilmente in questo momento non c’è il capo assoluto (attenzione, dico “forse” e lo sottolineo tre volte), però questo per certi versi rafforza la struttura storica di cosa nostra, che prevede non il capo assoluto, ma l’incontro delle espressioni dei vari territori. C’è una collegialità mobile (chiamiamola così) apparentemente senza un capo assoluto, posizione che non sembra (anche qui “sembra” sottolineato tre volte) in questo momento essere rivestita da Matteo Messina Denaro.
Qui ci si trova di fronte a un latitante decisamente diverso da quello a cui eravamo abituati prima. Mi sono occupato di ricerca di latitanti anche con qualche positivo risultato, da Bagarella a Brusca ad altri che non nomino, ma qui siamo in presenza di un latitante decisamente sui generis.
È un latitante che controlla il suo territorio, ma che non per questo, dalle acquisizioni che abbiamo di questi ultimi anni, sta permanentemente sul suo territorio, siamo in presenza di un latitante che, come la recente operazione del 3 agosto ha dimostrato, continua a utilizzare i pizzini per lo scambio delle informazioni, ma allo stesso tempo non escludiamo che utilizzi sistemi di comunicazione molto più moderni, tecnologici e meno controllabili.
Siamo in presenza di un latitante evidentemente mobile sul territorio, non solo sul suo territorio d’origine, perché alcuni elementi di valutazione ce lo danno mobile sul territorio nazionale e al di fuori del territorio nazionale, quindi siamo in presenza di una serie di attività finalizzate alla sua cattura che sono estremamente complesse, che vedono impegnate attualmente il meglio delle forze di polizia presenti in Italia, le eccellenze in un gruppo interforze appositamente costituitosi tra raggruppamento operativo speciale dei carabinieri e servizio centrale operativo dalla polizia, con il parallelo, periodico affiancamento in determinate attività della Dia o della Guardia di finanza, a seconda delle varie emergenze investigative, che sta lavorando senza tralasciare nulla».
r.galullo@ilsole24ore.com