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Marrazzo, quattro passi da solo verso il patibolo

Nella tarda mattinata di venerdì tre luglio del 2009, il governatore del Lazio, Piero Marrazzo, viaggia con l’autista della Regione sulla via Cassia. I quotidiani sono pieni di notizie sugli scandali sessuali del presidente Silvio Berlusconi; addirittura il presidente della Repubblica è intervenuto per imporre alla stampa una moratoria in occasione del G8 che sta per aprirsi nell’Aquila terremotata: Berlusconi rischia infatti di presentare al mondo un’Italia grottesca, ricattata e corrotta.

Marrazzo fa cenno all’autista. «Fermati qua. Faccio due passi a piedi».

È un gesto di gentilezza. Come dire, “ti tengo fuori da questa storia”. Il Governatore, senza occhiali scuri, senza cappelluccio, uno dei volti più riconoscibili della città per il suo passato televisivo e il suo presente politico, scende dall’automobile e si avvia verso uno degli indirizzi più malfamati e loschi di Roma: il numero civico 96 di via Gradoli.

Non si sa con quale passo il Governatore compia la sua ultima passeggiata. Se di piede lento o veloce, se assorto o teso, furtivo o trasognato. Ma è possibile che sia semplicemente portato dagli eventi, attratto da una calamita. Non è una sfida, è piuttosto una marcia quietamente disperata verso un confuso patibolo. Al contrario di un “tirem innanz”, è un “andiamo fino in fondo, vediamo com’è”.

Il patibolo era stato effettivamente apparecchiato e quando Marrazzo vi sale trova non solo chi pensava lo stesse attendendo – l’amante brasiliana Natalì -, ma il campionario dell’Italia di oggi: il pusher che spaccia la cocaina in franchising per conto dei Casalesi; i carabinieri che da tempo lavorano con il pusher e con Natalì (le “mele marce”), il telefonino che gira il video, l’omertà dei coinquilini che non vedono e non sentono niente.

Lo minacciano, lo umiliano, gli mettono le mani addosso, lo denudano, lo filmano, lo derubano e lo ricattano. Il fatto che sia il presidente della Regione non conta nulla, anzi. La secolare sudditanza dei malfattori e dei carabinieri nei confronti del Potente svanisce.

Il fatto che la sudditanza sia svanita proprio al numero civico 96 di via Gradoli non può essere senza significato. E Piero Marrazzo, giornalista di inchieste, figlio di un famoso giornalista che si è occupato di potere, mafie e camorre, lo conosce benissimo.
Quella palazzina, trentuno anni fa, fu il centro operativo delle Brigate Rosse durante il primo mese del rapimento di Aldo Moro. Un appartamento era stato affittato da Mario Moretti, il capo delle Br, ed era servito, prima dell’azione, come deposito di armi, rifugio di latitanti e addirittura foresteria per militanti della lotta armata in cerca di relax. Talmente noto era il “covo”, che nei primissimi giorni del sequestro l’indirizzo prese a circolare. Il professor Romano Prodi, nel nobile intento di aiutare le indagini e salvare la vita di Moro, dichiarò che il nome di Gradoli era stato fatto nel corso di una seduta spiritica, ma il ministro degli Interni Francesco Cossiga mandò le truppe in una Gradoli in provincia di Viterbo, a vuoto.

Così Mario Moretti, insieme a Barbara Balzarani, continuò ad abitare in via Gradoli, senza preoccuparsi troppo di poter essere scoperto, fino a quando, il 18 aprile 1978, al 32esimo giorno del sequestro, uscì di casa e poco dopo l’acqua cominciò a gocciolare verso il piano di sotto. Infiltrazione, inquilino arrabbiatissimo, porta sfondata dai vigili del fuoco: et voilà, ecco a voi l’archivio delle Brigate Rosse, reso accessibile dal telefono di una doccia e da un rubinetto lasciato aperto.

Poi, molti anni dopo, si scoprì che nella palazzina molti appartamenti erano di proprietà di una società immobiliare che agiva per conto dei servizi segreti e ancora parecchi anni dopo la palazzina si adattò alla nuova economia residenziale, affittando appartamenti ai transessuali latinoamericani, che guadagnano bene, pagano bene e forniscono moltissime informazioni ai carabinieri sui Vip che le vengono a trovare.

Le case hanno spesso una loro storia, sono segnate e spesso anche popolate da fantasmi.

Nessuno sa con quale faccia, quel 3 luglio, Marrazzo abbia fatto il viaggio di ritorno verso la macchina di servizio, ma certo aveva negli occhi le prove generali della sua esecuzione, che infatti avverrà tre mesi dopo.

In quei tre mesi il Governatore non ha usato, né abusato del suo potere. Ha solo disperatamente aspettato che si attuassero le procedure. La sua storia era cominciata cinque anni prima: candidato alle elezioni perché era stato un popolare conduttore Tv “dalla parte dei cittadini”, era già stato sotto ricatto dei suoi avversari politici che avevano pensato di assoldare un viado contro di lui. La sua vita personale era a conoscenza di taxisti (i veri untori della morale pubblica romana), il suo partito non lo teneva in grande considerazione, una sua ricandidatura era dubbia, la sua immagine non appariva più quella del vincente difensore del popolo, e, sul piano della voracità economica, scontrarsi contro le cliniche private gli aveva fatto toccare con mano quanto feroce potesse essere la loro risposta.

E così il Governatore ha seguito, immobile, i movimenti del ricatto per tre mesi. Gli spostamenti e le duplicazioni del video, il destino dei suoi assegni, la morte del pusher, i piccoli tormenti di Natalì, il cd nella disponibilità dei padroni delle cliniche private, la melliflua telefonata di Berlusconi (“voglio darle una mano”, come nelle più ciniche battute dei film di gangster di James Cagney), il perfetto timing dei Ros contro le “mele marce” della compagnia Trionfale, una normale audizione in Procura come “persona informata dei fatti”, e poi – oh, finalmente, non ne potevo più – la mia testa che rotola.

Il nostro presidente del Consiglio, a differenza di Marrazzo, è invece ancora in sella. Gli angiporti di Casoria, la cocaina del pappone di Bari, le ragazzine che lo dileggiano, il mondo che lo dileggia, la dolente prostituta pugliese che lo registra e ne canta la mattina dopo le erezioni, la manifattura di farfalline, le guardie del corpo attonite, ma fedeli (queste non sono “mele marce”), la famigliarità con l’industria del ricatto, si sono dimostrate tutte armi inutili di fronte alla sua prorompente voglia di vita. I suoi sostenitori sostengono la sua primordiale verità: la femmina da possedere, da stuprare, da pagare. I suoi sostenitori ridono del debole Marrazzo, delle sue inquietudini e soprattutto della sua inettitudine. La questione del governo, alla fine, è tutta qua.

Dicono che gli italiani si riconoscano in Berlusconi e nel suo sogno realizzato: diventare molto ricchi, diventare molto potenti per potere finalmente permettersi una notte di docce fredde (sempre la doccia, a palazzo Grazioli come in via Gradoli) e di sesso con una petulante Patrizia D’Addario che gli chiede di risolvere il suo irrisolvibile problema di abuso edilizio. Dicono che Berlusconi sia talmente magico da convincere gli italiani che questa, solo questa, è la vita che vale la pena essere vissuta; il discorso amoroso e il condono edilizio.

Fece capire lui stesso, peraltro, di essere in grado di dare la vita, un figlio, a una donna in coma da diciassette anni. Nessuno si alzò per prenderlo a schiaffi, ma molti sicuramente videro quanta voglia di morte ci fosse in quelle sue tristissime parole.
Nell’augurio e nella speranza che l’immaginario del successo e del potere da trasmettere, possa essere meno tragico, mi resta la curiosità di che cosa succederà, non tanto di villa Certosa e di palazzo Grazioli, quanto della palazzina di via Gradoli 96. Chissà: forse l’appartamento di Mario Moretti è stato affittato a un trans, o è la base di un pusher.

Chissà, forse tra dieci anni, quando ci saranno nuovi inquilini, nei lavori di ristrutturazione edilizia, dietro la solita intercapedine, verrà ritrovato un pacchetto che nessuno aveva notato.

L’originale del video che ricattava Piero Marrazzo? Il filmato girato da Mario Moretti ad Aldo Moro nella prigione del popolo?

08 novembre 2009
(Tratto da L’Unità)