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Marijuana nei capannoni: così la mafia cinese trasforma le ex-fabbriche del Nord Est

La Repubblica, Giovedì 30 Marzo 2017

Marijuana nei capannoni: così la mafia cinese trasforma le ex-fabbriche del Nord Est

Nelle mani della criminalità le strutture abbandonate dopo la crisi. Da Padova all’Emilia, lo dimostrano decine di blitz delle forze dell’ordine

dalla nostra inviata BRUNELLA GIOVARA

PADOVA. C’era un cinese. Uno solo, e anche piuttosto suonato. A fargli compagnia, nel capannone alla periferia di Piove di Sacco, un migliaio di piante di marijuana, varietà Skunk, bella potente, geneticamente modificata, quasi matura per il raccolto. Più o meno la stessa scena a Codevigo, ad Agna e a Bagnoli di Sopra, tutti piccoli Comuni della provincia di Padova. In altrettanti capannoni apparentemente abbandonati, ecco le coltivazioni intensive, le mega serre clandestine che producono a livello industriale, sempre più roba, a sacchi, a quintali.

Che succede nel ricco Nord est, e che succede anche in Emilia, nelle aree industriali colpite dalla crisi, ora in ripresa dopo gli anni più duri? La crisi ha lasciato dietro di sé morti e feriti, e non per modo di dire. Imprenditori suicidi, fallimenti, pignoramenti, chiusure di stabilimenti, operai licenziati, esodo di giovani all’estero o in altre regioni. Ha lasciato anche centinaia di “capanòn” deserti, ex simbolo del successo di un’area vincente, un poeta come Andrea Zanzotto ci aveva fatto una battaglia personale, troppo cemento, il paesaggio stravolto. Ora c’è il nuovo business, ma criminale. Una nuova frontiera del Made in Italy, in Olanda qualcuno apprezzerà.

Questo grosso e nuovo affare della marijuana è in mano ai cinesi. Occupano strutture vuote, a volte le affittano in regola, ci fanno i necessari lavori (tutto di notte, nessuno vede mai niente), poi ci mettono un disgraziato a guardia, che sorvegli gli impianti di irrigazione e illuminazione. Lo forniscono di cibarie per un po’ di tempo, poi sigillano tutto e tornano quando è ora di raccogliere. Quindi confezionano, imballano sottovuoto e spediscono, per quel che ne sanno gli inquirenti, nel Nord Europa.

È un po’ la fine di un mito, queste strutture erano “l’emblema dello sviluppo degli anni Ottanta, una cifra distintiva di un modo di fare impresa”, dice Stefano Micelli, direttore della Fondazione Nord Est (Confindustria e Camera di commercio). “Gli imprenditori hanno guardato al capannone come bene rifugio, a lungo defiscalizzato. Un’alternativa all’investimento sul capitale umano, che oggi rimpiangiamo”. Un errore, lo definisce il professor Micelli. “Erano luoghi di bassissima qualità, ma ben serviti, facilmente raggiungibili, dotati di parcheggio. Poi li si è scoperti vuoti, e oggi sono difficili da riutilizzare. Ci vorrebbe un progetto alternativo”, pensa Sara Marini, architetto e professore all’università IUAV di Venezia. Ci hanno pensato i cinesi, o chi per loro. Nessuno sa veramente chi gestisca il nuovo business. Così, capita ogni volta di piombare in una ex area artigianale o industriale, come è successo anche a Montagnana all’inizio del mese, e Mauro Carisdeo, che dirige la Squadra mobile di Padova, racconta: “Abbiamo trovato il guardiano, un clandestino. Mai fotosegnalato, un signor nessuno. Il posto è in aperta campagna. Dentro c’era un sistema a livello industriale, con impianti fatti apposta, condotti di areazione, trasformatori, i sacchi di fertilizzanti. Tutto quasi a costo zero: si erano agganciati direttamente ai cavi Enel”. E 1640 piante, belle alte, e un odore insopportabile di marijuana, tanto che il cinese non appariva in gran forma, stordito dalla concentrazione di principio attivo. Quel fantasma non è di alcuna utilità alle indagini, perché con sé non aveva neanche un cellulare, e quindi da lui non si potrà risalire a complici, o capi, o ai gestori dell’organizzazione. Qualche giorno dopo, stessa operazione a Mesola, provincia di Ferrara: un cinese e 900 piante. E a Reggio Emilia, 648 piante, e a Castel del Rio, provincia di Imola, a Fiumicino, vicino a Forlì, e anche vicino a Treviso.

I carabinieri del Comando provinciale di Prato conoscono il fenomeno perché forse è partito tutto da lì. L’anno scorso hanno cominciato a trovare capannoni – altro settore, il tessile – pieni di piante rigogliose, cresciute sotto le lampade al sodio. Hanno arrestato un imprenditore cinese, già proprietario di una fabbrica di abiti, poi riconvertita a cannabis. E seguendo quel filo i colleghi veneti sono arrivati al capanòn di Riese Pio X, in provincia di Treviso (2mila piante). Sorpresa: i cinesi hanno delocalizzato, approfittando della crisi locale, di molti proprietari magari con l’acqua alla gola, più spesso attirati da un guadagno sempre cash. Quanto costa, affittare una struttura con viabilità, acqua e luce, ma discretamente fuori mano? Anche 10mila euro al mese, dipende dagli impianti. Così, nel Nord est della ripresa, dei distretti che ricominciano a respirare, c’è chi fa un altro business, a dispetto dei cartelli italiani e albanesi, che controllano produzione e traffico, e chissà cosa faranno adesso, con la nuova concorrenza.