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Malta, l’isola dell’impunità ecco chi vuole insabbiare la verità su Daphne

La Repubblica, 13 Aprile 2018

Malta, l’isola dell’impunità ecco chi vuole insabbiare la verità su Daphne

L’indagine sui mandanti della giornalista uccisa è ferma, il governo vuole arrestare la sua fonte. Sei mesi dopo, il delitto Caruana Galizia è diventato un caso europeo

dai nostri inviati CARLO BONINI e GIULIANO FOSCHINI

LA VALLETTA – In cima alla antica Rocca, quella da cui tuona a salve il cannone della memoria due volte al giorno, c’è chi vuole che il volto in bianco e nero di Daphne Caruana Galizia non sorrida più. Perché c’è memoria e memoria. E dunque, come accade con un fantasma della cui ombra si ha urgenza di liberarsi, da settimane mani zelanti rimuovono di notte ciò che mani generose ricostruiscono di giorno: l’ultima traccia ancora tangibile dell’esistenza di Daphne. Il suo memoriale. Foto in bianco e nero, in un letto di fiori e candele, alla base di una scultura marmorea, epigrafe della sua vita, spezzata da un’autobomba sei mesi fa, alle 14 e 58 minuti del 16 Ottobre 2017, nella campagna di Bidnija.Nella furia iconoclasta di chi cancella c’è un riflesso condizionato e un’involontaria ammissione. Che il nome della giornalista investigativa che aveva messo a nudo il Potere — politico e finanziario — dell’isola, la sua corruzione, sia un’onta al sentimento di una intera nazione. E, dunque, che quel ricordo vada cancellato con la stessa protervia che il Potere aveva riservato a Daphne da viva. Quando la additavano come una “strega” da bruciare, la trascinavano 46 volte in tribunale per diffamazione, le congelavano i conti in banca per demolirne l’ostinazione nella denuncia.

Il memoriale rimosso
Ancora giovedì notte, in Republic Street, il corso pedonale che taglia il quadrilatero dei palazzi del Potere, scopettoni, detersivi e sacchi dell’immondizia hanno inghiottito per l’ennesima volta fiori, messaggi, candele che, da sei mesi, hanno trasformato il basamento in marmo del “Great Siege Monument”, la scultura che ricorda il Grande assedio del 1565, in un memoriale spontaneo. Perché la giustizia maltese, che di fronte al monumento ha il suo Palazzo dei tribunali, non dimenticasse di rispondere alle uniche domande che oggi contano. Dentro e fuori l’isola di Malta. Chi ha ordinato la morte di Daphne?
Quali fili non dovevano più toccare le sue inchieste? E come è stato possibile che in un Paese dell’Unione Europea una giornalista sia stata ridotta al silenzio con un’autobomba? Ma, ancora giovedì pomeriggio, le foto e i fiori di Daphne sono riapparsi. Almeno fino al prossimo colpo di ramazza.

Perché nella città e nel Paese scelti dall’Unione come capitale della cultura europea per il 2018, la damnatio memoriae è cominciata almeno da febbraio. Con le parole postate sul proprio profilo Facebook da Jason Micallef, presidente della Fondazione “Valletta 2018” responsabile per le celebrazioni e gli eventi messi in calendario dal Governo laburista del premier Joseph Muscat, il Grande Accusato da Daphne. E suo Grande Accusatore. «Mi opporrò — aveva scritto Micallef — a qualunque iniziativa voglia trasformare il Grand Siege Monument in un memoriale permanente di Daphne Caruana Galizia. Come Paese sovrano, non possiamo accettare lo svilimento di un monumento storico che celebra una delle più grandi vittorie di sempre di Malta». Era quindi arrivata la risposta di Corinne Vella, una delle sorelle di Daphne («Micallef, che spende centinaia di migliaia di euro dei contribuenti in vanitosi progetti che ingombrano le pubbliche piazze, ha obiezioni su dei fiori deposti in memoria di una donna che da viva lo aveva chiamato a rispondere della corruzione dei suoi padrini al Governo. Confonde la democrazia in azione con il rumore delle posticce parate da Corea del Nord»).

La Castilla, l’Europa, l’Fbi
La sfida della memoria in Republic Street si consuma mentre, assediato nella Castilla, sede del Palazzo del Governo, il premier laburista Joseph Muscat, come pure gli uomini chiave del suo Gabinetto, si muovono in uno straniante copione che evidentemente ha deciso di rimuovere «il problema Daphne Caruana». Fin qui, Muscat e i suoi hanno navigato a vista. Alla giornata. E, a oggi, non si va oltre generiche indicazioni che rimandano a «un’inchiesta ancora in corso» sul movente e i mandanti di un omicidio che è e resta oggettivamente politico. Sul piano dell’immagine c’è invece un goffo tentativo di spin (un annuncio nelle ultime 24 ore di misure triennali «per rendere più efficiente il contrasto al riciclaggio e al gioco d’azzardo») che, nelle intenzioni del Governo, dovrebbe attutire la tempesta che si è andata addensando in Europa, Dove, in questi sei mesi, i fatti hanno cominciato a rendere giustizia a quello che Daphne, sola, aveva denunciato da viva.

Nell’ordine.
Primo: due diverse commissioni di inchiesta del Parlamento europeo hanno illuminato i buchi e le inefficienze della legislazione antiriciclaggio maltese; la pericolosità di un programma di vendita dei passaporti e dunque della cittadinanza maltese a chiunque, oligarca russo piuttosto che sceicco del Golfo, o satrapo asiatico, possa sborsare 650mila euro; la mancanza di indipendenza del potere giudiziario rispetto all’esecutivo.

Secondo: il consiglio di Europa, con una risoluzione che sarà presto sottoposta al voto, ha dubitato dell’indipendenza dell’inchiesta sui mandanti dell’assassinio e considera la possibilità di inviare sull’isola un osservatore indipendente che ne verifichi la correttezza. Come in un paese del terzo mondo.

Terzo: la Banca Centrale europea ha avviato un’inchiesta sulla Pilatus Bank, snodo, secondo Daphne, della corruzione e del riciclaggio di denaro sull’isola e su cui sarebbe transitato un milione di dollari a beneficio di Michelle Muscat, moglie del premier. Prezzo — secondo quanto ricostruito da Daphne — di relazioni opache tra il governo de La Valletta e il regime azero. Di più: a fine marzo, l’Fbi ha arrestato per riciclaggio (115 milioni di dollari) e frode bancaria il proprietario della Pilatus Bank, l’iraniano Ali Sadr Hasheminejad.

Gli affari opachi
Joseph Muscat ha sempre negato. La storia della Pilatus «è una grande menzogna», dice. Come una menzogna sarebbero le opacità del programma di vendita dei passaporti e il lassismo nei controlli antiriciclaggio. Conviene prenderne atto e raccogliere in proposito le parole di Eva Joly. Parlamentare europea francese, già pm del “affaire Elf”, l’inchiesta giudiziaria che, negli anni ‘90, svelò per la prima volta la rete globale di corruzione che teneva e tiene insieme i paradisi off-shore, è oggi a Bruxelles vicepresidente della Commissione di inchiesta sul caso “Panama Papers”, il mastodontico leak di documenti riservati provenienti dallo studio legale Mossack Fonseca che, due anni fa, ha consentito di svelare i depositi su conti off-shore di esponenti politici e imprenditori delle classi dirigenti di mezzo mondo (a quel leak aveva lavorato anche Daphne). Dice la Joly a Repubblica (la sua intervista è parte del documentario “Daphne”): «A Malta regna l’impunità: per il riciclaggio, per la vendita dei passaporti. E questo in un Paese dove la magistratura e le forze di polizia non sono indipendenti. Malta è diventata la porta d’Europa per il denaro sporco e il crimine organizzato».

La seconda donna
“State of denial”, lo chiamano. Stato di negazione. Ma a Malta, la storia di Daphne non è solo questo. In Grecia, una donna, madre come Daphne, poco più che trentenne, è stata inseguita fino a questa mattina da un mandato di arresto con cui la magistratura maltese aveva strumentalmente chiesto la sua estradizione alla Valletta dove dovrebbe rispondere dell’accusa dell’appropriazione indebita di 2 mila euro. È una russa. Si chiama Maria Efimova. Ha lavorato nella filiale della Pilatus Bank di Malta. È stata l’ultima fonte di Daphne Caruana Galizia. È la whistleblower di questa storia. Ieri, un giudice greco ha definitivamente respinto la richiesta di estradizione perché — questa la motivazione destinata a confermare l’esistenza di un caso Malta in Europa — «sull’isola non è garantita l’incolumità della donna». Che, dunque, stamattina lascerà il carcere di Tebe dove è stata detenuta per tre settimane dopo essersi spontaneamente consegnata alla polizia greca.

Repubblica l’ha intervistata nel tempo in cui, dopo aver lasciato Malta, si era nascosta sull’isola di Creta (anche la sua testimonianza è nel documentario). «Un giorno dissi a Daphne — racconta — che temevo che la uccidessero. Lei, sorridendo, mi rispose: “E come? Con un’autobomba?”. Forse avrei dovuto essere più convincente ed è un rimpianto che mi porto dietro dal 16 ottobre del 2017. Mentre c’è una cosa che sicuramente non rimpiango. Di aver deciso un giorno di sedermi davanti al mio computer per scrivere una mail a quella donna che non conoscevo. Daphne. A cui avrei raccontato quella verità che lei avrebbe avuto il coraggio di pubblicare».