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MALAPIANTA | Il boss «massone» che poteva «sistemare i processi»

MALAPIANTA | Il boss «massone» che poteva «sistemare i processi»

Le rivelazioni del pentito Antonio Valerio nell’inchiesta contro la “locale” di San Leonardo di Cutro. I vecchi dissapori con Nicolino Grande Aracri superati perché il capocosca Alfonso Mannolo avrebbe avuto amicizie anche in ambienti giudiziari. Che potevano tornare utili al capo indiscusso della “Provincia” di Crotone

di Sergio Pelaia


CROTONE Uno «’ndranghetista vecchio stampo» che però, negli anni, avrebbe acquisito amicizie «istituzionali e para istituzionali» anche in ambienti giudiziari. Così il pentito Antonio Valerio descrive Alfonso Mannolo, ritenuto il capo della “locale” di San Leonardo di Cutro colpita dai 35 fermi emessi dalla Dda di Catanzaro nell’ambito dell’inchiesta “Malapianta”. Condannato nel maxiprocesso “Aemilia” come elemento di vertice dell’articolazione emiliana del clan Grande Aracri, Valerio ha fatto rivelazioni che gli inquirenti definiscono «davvero illuminanti» sui legami di cui i Mannolo avrebbero goduto anche in ambienti insospettabili.

UNA VECCHIA CONOSCENZA Valerio è nato a Cutro nel 1967 e quando aveva appena 10 anni suo padre venne assassinato per una banale lite. Quella morte sarebbe poi stata vendicata dal capo indiscusso della “Provincia” di Crotone, Nicolino Grande Aracri, di cui Valerio sarebbe diventato il braccio operativo al Nord. Il pentito sostiene di conoscere Alfonso Mannolo dal 1991 e dice che all’inizio i rapporti dei sanleonardesi con i Grande Aracri non erano buoni. Mannolo all’epoca sarebbe stato vicino ai Dragone ma, dopo la fine della faida e l’omicidio del boss Totò Dragone (ucciso il 10 maggio 2004), le due famiglie si sarebbero avvicinate. Valerio rivede Mannolo circa vent’anni dopo, tra il 2010 e il 2011, quando interviene a favore di un imprenditore originario di Capo Colonna ma trapiantato a Verona. L’imprenditore, a dire del pentito, aveva chiesto un prestito da un milione di euro ai Mannolo ma ben presto il debito sarebbe raddoppiato. Così, dopo vari incontri avvenuti a Reggio Emilia, viene concordato «un piano di riparto» e la questione del prestito a strozzo poi si risolve quando Nicolino Grande Aracri esce dal carcere e interviene personalmente.

I PROCESSI DA SISTEMARE Le dichiarazioni di Valerio servono agli inquirenti per decifrare i rapporti tra i due capicosca e il motivo del loro avvicinamento. A questo proposito il pentito fa notare che Mannolo ha «rapporti con soggetti istituzionali ed extraistituzionali funzionali alle dinamiche delle cosche cutresi». Il racconto del collaboratore di giustizia rimanda a un suo incontro con i Mannolo a cui avrebbe partecipato anche Giovanni Abramo, parente stretto di Nicolino Grande Aracri, la cui presenza «serviva perché un esponente di rilevo della cosca facesse capire a Mannolo che di me poteva fidarsi in quanto appartenente alla cosca Grande Aracri». In quell’occasione Valerio sostiene di aver chiesto ad Abramo se fossero svaniti i vecchi dissapori con la famiglia di San Leonardo. «Lui mi rispose affermativamente – spiega il pentito – anzi mi disse che i rapporti tra Nicolino Grande Aracri e Alfonso Mannolo erano diventati molto stretti e me ne spiegò anche la ragione: Mannolo poteva contare su diverse amicizie, istituzionali e para istituzionali, anche nell’ambiente della giustizia e che potevano tornare utili per la sistemazione di processi e quant’altro». Valerio dice quindi che il capocosca di San Leonardo «era un massone». Quello che rivela dopo è coperto da “omissis”. (s.pelaia@corrierecal.it)


30 maggio 2019

fonte:https://www.corrieredellacalabria.it