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Mafie e politica

Ecco come le mafie s’ingrassano con la crisi e la complicità del 30% nel ceto politico dominante

La dichiarazione del procuratore della Repubblica di Napoli Giandomenico Lepore, rilasciata alla Commissione parlamentare antimafia, non ha avuto l’eco e la rilevanza che meritava. Nemmeno la parte in cui riferiva che il trenta per cento dei politici campani sono collusi con la criminalità organizzata. La scarsa attenzione dei media si può spiegare almeno in un triplice modo. O il fenomeno dei rapporti fra politici e mafie è oramai così scontato da apparire persino superfluo parlarne nelle prime pagine. O la notizia, per la sua portata, avrebbe richiesto uno spazio e un approfondimento che le stesse redazioni televisive e della carta stampata hanno ritenuto di non poter o voler dedicare. O considerare valido quanto affermato nel recente Rapporto di Freedom House secondo cui “La stampa in Italia è ‘parzialmente libera’ a causa delle limitazioni imposte dalle leggi sulla diffamazione, delle intimidazioni della mafia ai giornalisti e della concentrazione proprietaria dei media”.
Cosa può significare – in termini sociali, economici e politici – il fatto che il trenta per cento del ceto politico collude o intrattiene rapporti stretti negli affari con la malavita organizzata?
Poiché non hanno alcuna vocazione ideologica né tanto meno etica, le mafie cercano di puntare di volta in volta sul cavallo vincente. Attraverso un’accurata preselezione, il personale politico con cui entrano in contatto è quello che, in ultima analisi, detiene per intero il potere decisionale della amministrazione pubblica. Se si fanno due semplici conti, non ci vuole molto a capire che il trenta per cento dei politici rappresenta tutta la classe politica che conta. Il sindaco, il presidente della provincia, il presidente della regione, le rispettive giunte. E’ con i rappresentanti di queste istituzioni e gli esponenti di questi organismi – quelli inclini ovviamente al connubio – che il crimine organizzato stabilisce una relazione che ha bisogno di alimentarsi continuamente, non solo delle risorse che saranno destinate alle opere pubbliche e ai servizi – di cui i capi-clan si aggiudicano gli appalti più sostanziosi – ma anche di interloquire nelle nomine di primari ospedalieri, nelle raccomandazioni per i concorsi all’Università, nelle candidature elettorali, nelle designazioni degli amministratori degli enti locali, nella realizzazione dei centri commerciali, nelle variazioni dei piani regolatori generali e particolari, così come in ogni campo e piega della società da cui si potranno trarre vantaggi economici, controllo del territorio, consenso dei cittadini.
Ed è proprio sulla ricerca del consenso che mafia e politica spesso si trovano ad utilizzare, in un certo senso, gli stessi mezzi; mezzi che ora possono essere messi in atto con un sottile gioco di intimidazione, di ricatti, di pressione, di clientelismo, ora con la corruzione e la complicità. Quasi ad indicare un terreno comune su cui gli interessi diventano convergenti. Se questo corrisponde, come pare, al quadro tracciato dal procuratore di Napoli, è difficile potere avere, per il prossimo futuro, una speranza di cambiamento.
Nonostante siano stati sciolti, fino al 30 giugno del 2008, ben 180 consigli comunali per infiltrazioni mafiose – 80 in Campania, 49 in Sicilia, 41 in Calabria, 7 in Puglia e 3 in Lazio, Basilicata e Piemonte – parti rilevanti del territorio continuano ad essere controllati dalle cosche e dalle famiglie mafiose. Le organizzazioni criminali continuano ad influenzare i flussi della spesa pubblica procurandosi l’appoggio di una certa stampa e dei media locali – sebbene non necessariamente tale appoggio dipenda da intimidazione o minacce (questo succede “quando essi, i giornalisti, cadono sull’endemia depressiva, corruttiva, opportunistica prodotta dal sistema”, sottolineava, a proposito di sistema di informazione, Enzo Roggi su questo giornale) – e, non di rado, una copertura politica con agganci a livello nazionale. Gli esempi della Campania di qualche mese fa ne sono una dimostrazione.
Non soltanto preoccupa questa situazione, allarma – come ha opportunamente rilevato pochi giorni or sono il Presidente Napolitano – il fatto che l’occupazione dei gangli vitali dell’economia e della società possa divenire ancora più penetrante ed estesa. “Le organizzazioni di stampo mafioso approfitteranno dell’attuale crisi per acquisire il controllo delle aziende in difficoltà con un’invasiva presenza in tutte le regioni del Paese”. E invitava tutti a non abbassare il livello di attenzione che “va mantenuto sempre alto”. Benché i risultati straordinari raggiunti con la cattura di pericolosi latitanti, la disarticolazione dell’organizzazione e la decapitazione di alcune famiglie potenti, la criminalità organizzata (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra) mai come ora può essere pericolosa grazie alla sua grande disponibilità di denaro. Non va dimenticato che nel corso del 2008, mentre gli effetti della crisi mondiale si facevano sentire e il nostro prodotto interno lordo indicava il segno meno (nel 2009 è previsto un -4,2%) le mafie incrementavano il “loro” Pil passando dai 90 miliardi di euro del 2007 ai 130 nel 2008. Se si pensa che la sola ‘ndrangheta possiede un patrimonio finanziario pari a 44 miliardi di euro – l’equivalente del 3% del Pil – si può agevolmente immaginare quanto sia alto il rischio per le imprese che si trovano in grave disagio e soprattutto quelle più esposte che facevano già fatica ad ottenere il credito dalla banche. A fronte delle scarse risorse finanziarie ed economiche del Paese, l’enorme massa di liquidità da parte della delinquenza organizzata costituisce un ulteriore elemento di turbativa in un sistema di libero mercato, sia pure compromesso da bolle speculative che sono esplose in questi mesi. L’azione di contrasto si fa più complessa. Le forze del contro-Stato rispetto allo Stato legittimo potranno avere in questo momento la meglio, per quanto le forze dell’ordine abbiano fatto e facciano bene il loro dovere, con arresti e repressioni efficaci.
Il passaggio dal “finanziamento iniziale” all’accaparramento dell’azienda, anche sotto forma e con i crismi della legalità, spesso è impercettibile. In questo modo l’ingresso della malavita organizzata nella grande distribuzione commerciale, nell’imprenditoria e nelle attività finanziarie e bancarie può essere facilitato da mille fattori: talvolta determinati da cause per così dire oggettive, altre volte incentivati da motivi ed interessi soggettivi.
Come combattere questo fenomeno e avere qualche possibilità di vittoria? La magistratura e le forze dell’ordine, preposte alla prevenzione e alla repressione, ci dicono che da sola la loro azione non basta. Da Falcone a Borsellino, fino all’attuale capo della Direzione Nazionale Antimafia, Pietro Grasso, tutti ci dicono, rivolgendosi in primo luogo alla politica, ai giornali, alla televisione, al mondo della scuola, che l’unica cosa che le mafie temono sono gli attacchi sul terreno della comunicazione e dell’azione sociale.
Notiamo purtroppo che c’è una sproporzione fra il “consenso”, preponderante, che ancora riescono a raccogliere la malavita organizzata e quella parte politica che la sostiene, e il consenso e l’aiuto, insufficienti, di tutte le altre componenti della società – soprattutto i mezzi di comunicazione – che si dichiarano disposte a dare un supporto robusto e decisivo all’antimafia della repressione e della prevenzione.
Filippo Piccione

(Tratto da Ponte di Ferro voci dal quartiere Marconi)