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Mafia viterbese: attentati, estorsioni, omertà. Chiesti 135 anni di carcere

Mafia viterbese: attentati, estorsioni, omertà. Chiesti 135 anni di carcere

Dieci gli imputati, sette ore di requisitoria. Le condanne più alte (20 anni) sollecitate per i presunti capi Giuseppe Trovato e l’albanese Ismail Rebeshi. L’accusa: importati i sistemi della ‘ndrangheta

di Stefania Moretti

Le teste d’agnello della ‘ndrangheta e la ferocia della mala albanese. A Viterbo la mafia era questa, secondo i magistrati della Dda romana: una doppia riserva di violenza esplosa in due anni (2016 – 2018) tra auto incendiate, animali sgozzati e vetrine crivellate. Così «zio» Giuseppe Trovato, vicino al clan Giampà di Lamezia Terme, terrorizzava i «nemici»: dai titolari di compro-oro come lui, che gli facevano concorrenza e che Trovato cercava di far chiudere, a chiunque gli si metteva contro, carabinieri compresi. Lo aiutava l’uomo considerato il più grande trafficante di cocaina della Tuscia, Ismail Rebeshi, l’altro boss del cartello italo-albanese. Puntavano a controllare Trovato i compro-oro, Rebeshi lo spaccio e i locali notturni.

 

Chiesti 135 anni di carcere

 

Ora rischiano vent’anni di carcere e ventimila euro di multa. È la pena più alta chiesta dai pm Giovanni Musarò e Fabrizio Tucci nel processo con rito abbreviato alla mafia viterbese: dieci imputati – altri tre, con accuse minori, saranno giudicati in un processo a parte – per associazione di stampo mafioso e una lunga serie di estorsioni e danneggiamenti. Fino all’operazione «Erostrato» del gennaio 2019: 13 arresti e gli elicotteri dei carabinieri che svegliarono Viterbo all’alba. A un anno dal blitz, la pubblica accusa ha tirato le somme a piazzale Clodio, con gli arrestati in videconferenza dai penitenziari di mezza Italia. Chiesti in tutto 135 anni di carcere per dieci imputati (pene dagli otto ai vent’anni) e 96mila euro di multa.

 

La piovra della Tuscia

 

Il rosario degli attentati e delle estorsioni sgranato dai pm per più di sette ore davanti al gup Emanuela Attura per convincerla che non si tratta di criminali comuni. «Una mafia autoctona, la prima mai scoperta a Viterbo», l’aveva definita il procuratore aggiunto della Dda di Roma Michele Prestipino. Una «piovra» senza tentacoli, senza ramificazioni altrove, ma legata alla Calabria tramite Trovato, che per l’accusa ha importato nella Tuscia i metodi della ‘ndrangheta. «Quella viterbese – hanno detto i pm – è una “piccola mafia” perché piccola è la cerchia dei suoi componenti e piccolo è il suo territorio, ma non per questo è meno pericolosa. I connotati mafiosi ci sono tutti: violenza, armi, interessi economici, forza intimidatrice del gruppo, capacità di creare un clima di terrore e omertà». Citano le intercettazioni e un’informativa dei carabinieri in cui si dice che la banda di «zio» Trovato era pronta a scatenare una guerra contro un gruppo di origine nomade pur di mantenere il controllo del territorio. «Dobbiamo terrorizzare tutti», era l’imperativo di Trovato. «A noi non ci mette paura niente», dicevano.

 

Il pentito: «Trovato voleva comandare»

 

«Trovato voleva imporre rispetto e onore», ha detto Sokol Dervishi, il pentito, l’unico dei 13 che ha deciso di collaborare coi magistrati. Per lui è stata chiesta la pena più bassa, con l’attenuante della collaborazione. Ma ridotta al minimo: «Quando ha iniziato a parlare dal carcere di Nuoro – spiegano i pm – l’organigramma della mafia viterbese era già stato in gran parte ricostruito». Dervishi ha completato il quadro, con 123 pagine di interrogatorio fiume: «Trovato – dice – era la mente della banda. Voleva che le persone del Viterbese si rivolgessero a lui per qualsiasi cosa». Dal recupero crediti al regolamento di conti. Anche a questo doveva servire la mafia viterbese, spiega uno degli imputati nelle carte dell’inchiesta: «La mafia c’è perché la giustizia non funziona».

11 febbraio 2020 | 17:48

fonte:www.corriere.it