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Mafia invisibile e domanda di mafia: riflessioni sulla crisi della legalità

Mafia invisibile e domanda di mafia: riflessioni sulla crisi della legalità

di Paolo Ortelli

Giacomo Di Girolamo, L’invisibile. Matteo Messina Denaro, il Saggiatore, Milano 2017 (1a ediz. Editori Riuniti, Roma 2008).
Fabio Armao,
Il sistema mafia. Dall’economia-mondo al dominio locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

«Ma non vede quel che succede nel nostro Paese? Tutti i nodi vengono al pettine.»
«Quando c’è il pettine.»
Leonardo Sciascia,
Il contesto


Nelle molte e brucianti delusioni che ci ha lasciato la XVII legislatura non sarebbe giusto includere l’operato della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi, la cui Relazione finale, presentata in Senato il 22 febbraio, è passata quasi del tutto inosservata durante la campagna elettorale. Si tratta di un documento di grande rilievo, non tanto perché contenga rivelazioni dirompenti, ma perché mai prima d’ora l’Antimafia aveva saputo offrire una prospettiva così nitidamente unitaria sul fenomeno mafioso in Italia, cogliendone la complessità, le continuità e soprattutto le trasformazioni.

Tra le novità dell’ultimo ventennio non si registrano soltanto l’espansione al Nord della ’ndrangheta calabrese (uno sviluppo che, descritto dall’Antimafia già nel 2008 e da numerose inchieste giudiziarie, oggi assume i contorni della colonizzazione)[1] e la “gemmazione” di nuove organizzazioni mafiose o paramafiose, come nel caso esemplare di Mafia Capitale. È avvenuta anche una sorta di metamorfosi, con strutture organizzative sempre più flessibili e reticolari e un ricorso alla violenza nettamente inferiore. Mentre scema la rilevanza della componente militare, l’attività criminale viene a fondarsi soprattutto su «relazioni di scambio e collusione nei mercati illegali e ancor più legali», sulla complicità sistematica con imprenditori, professionisti, politici, burocrati.

La mutazione mafiosa nasce anche da una sconfitta: la rottura dell’impunità storica sul finire degli anni ottanta. Cosa Nostra reagì alla disfatta del Maxiprocesso dapprima con la furia stragista del 1992-93, poi con la strategia dell’inabissamento sotto la guida di Bernardo Provenzano; le altre organizzazioni – più lontane dai riflettori – hanno sfruttato le finestre di opportunità aperte dalla crisi della mafia siciliana per incrementare il proprio giro d’affari e la propria influenza senza far troppo rumore. Di fronte alla sempre più efficace repressione giudiziaria subita dopo quella stagione, le mafie sparano meno, sono ormai silenziose, persino invisibili, ma sono diventate «protagoniste di una parte dell’economia italiana e internazionale». E, secondo l’Antimafia, alla riduzione del consenso “culturale” della popolazione ha fatto da contraltare la conquista di un forte consenso “strumentale” in diversi settori politici ed economici. In altre parole, il consenso mafioso «è passato dal basso della società alle élite».[2]

La cronaca degli ultimi dieci anni offre conferme piuttosto nette di queste tendenze, descritte nel dettaglio all’interno della Relazione Bindi: oltre alla ’ndrangheta al Nord e a Mafia capitale, basti pensare al colossale business – e alle drammatiche conseguenze per l’ambiente e per la salute – dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici; agli affari nella sanità privata (in Sicilia e Calabria, ma anche in Lombardia); alle grandi opere, ricchissimo banchetto a cui le organizzazioni criminali partecipano tramite il meccanismo dei subappalti (alta velocità, MOSE ed Expo 2015 sono gli esempi più noti ed eclatanti); ma anche a settori come il gioco d’azzardo, le energie rinnovabili, le catene di supermercati.[3] Senza trascurare, ovviamente, l’industria del riciclaggio dei capitali sporchi, che per la Banca d’Italia rappresenta da sola il 10% del Pil.[4]

Una situazione che sembra avverare la profezia sciasciana della “linea della palma”, ma soltanto a metà. Ha avuto molta fortuna la metafora coniata dallo scrittore di Racalmuto, apparsa nel Giorno della civetta e ripresa in un’intervista a Giampaolo Pansa del 1970, con cui Sciascia preconizzò l’espansione mafiosa al Nord:

Secondo una teoria geologica, per il riscaldamento del pianeta la linea di crescita delle palme sale verso il nord di un centinaio di metri all’anno. […] Per questo motivo, fra un certo numero di anni, vedremo nascere le palme anche dove oggi non esistono. […] Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l’Italia del nord.

Ma nell’immaginare i tratti della mafia del futuro Sciascia si sbagliò:

Anche al Nord la mafia avrà gli stessi connotati che oggi ha in Sicilia. Qui da noi il mafioso si è mimetizzato dentro i gangli del potere. […] Ha vinto il sistema di Cosa Nostra: più rozzo, più spregiudicato, più violento. E vincerà anche al Nord.

Contrariamente alle sue previsioni, non ha vinto la mafia violenta e rozza, bensì un altro tipo di mafia “sommersa”, che minaccia di meno l’incolumità e la vita quotidiana delle persone ma è molto più pericolosa in termini di disuguaglianza economica ed erosione della democrazia. Una mafia sempre più diluita in sistemi di potere e corruzione a varia densità criminale, all’interno dei quali sfumano anche i confini tra legale e illegale, tra pubblico e privato.

Letto nella consapevolezza di questa metamorfosi, L’invisibile. Matteo Messina Denarodi Giacomo Di Girolamo – recentemente ripubblicato dal Saggiatore in una versione completamente rinnovata (la prima, uscita con Editori Riuniti, risale al 2010) – non è più solo l’avvincente biografia del più pericoloso latitante italiano, né solo un affresco della negletta Cosa Nostra trapanese, ma la grande allegoria di una mafia invisibile tanto quanto il più importante dei suoi boss ancora in libertà.

Matteo Messina Denaro ha attraversato tutte le stagioni di Cosa Nostra. Da ventenne rampante il boss di Castelvetrano partecipa alla guerra di mafia schierandosi dalla parte dei Corleonesi; pupillo di Totò Riina, nel 1992-93 è protagonista della sfida stragista allo stato. Anni di sangue e terrore che il boss commenterà così: «Con le persone che ho ucciso, potrei riempirci un cimitero». Poi la strategia della sommersione sotto la guida di Bernardo Provenzano, fino al nuovo corso “imprenditoriale”, con gli affari che abbandonano in larga misura la droga e le estorsioni per concentrarsi sugli impianti eolici della Sicilia occidentale, sui concessionari della grande distribuzione Despar, sulla sanità privata, sui villaggi vacanze (Di Girolamo riporta la vicenda di Carmelo Patti, patron della Valtur: secondo la Dia, che da anni reclama sequestri per la sbalorditiva cifra di 5 miliardi di euro, l’imprenditore deceduto nel 2016 era un «prestanome di Matteo Messina Denaro», p. 300).

L’invisibile segue dunque la traiettoria di un boss che, da “figlio d’arte” (il padre Francesco Messina Denaro, a sua volta, può essere considerato un traghettatore dalla mafia rurale alla mafia delle droghe), ha saputo coniugare tradizione e rinnovamento. Introvabile dal 1993, di anno in anno sembra lasciare sempre meno tracce:

Unire antico e moderno, carisma e silenzio.
Essere camaleontico e invisibile.
Stare nascosto, e davanti agli occhi di tutti.
Questo, Matteo, sei tu. (p. 28)

Non è per senso di sfida, né per un mero espediente narrativo, che Di Girolamo dà del tu a Matteo Messina Denaro, così come fa quasi ogni giorno sulle frequenze della locale Rmc 101, nella rubrica radiofonica “Dove sei, Matteo?”. Perché entrambi, sia il giornalista di provincia a caccia della verità sia il superboss latitante, sono «imbarcati nella “Sicilia irredimibile” di Leonardo Sciascia» (p. 362). Entrambi fanno parte dello stesso mondo, in cui è sempre più difficile distinguere tra lecito e illecito, tra potere istituzionale e potere criminale, tra economia pulita ed economia sporca. Di Girolamo, riprendendo un suo libro-reportage del 2012,[5] la chiama Cosa Grigia, «la mafia oltre la mafia»: un «ibrido in cui chi è geneticamente mafioso si mescola a tutta una serie di soggetti che un tempo erano estranei alla mafia, ma il cui operato adesso è funzionale, se non necessario, alla sua sopravvivenza» (p. 28). L’autore fa l’esempio del cemento:

Sono poche le aziende di calcestruzzo che controllate direttamente. Non vi conviene: ve le sequestrano. Sono tantissime quelle che controllate con prestanome, e ancora di più quelle che non avete bisogno di controllare, perché […] è emersa una classe di imprenditori che si autocontrolla, che sublima il metodo mafioso e lo applica senza lasciare tracce visibili.
 (p. 276)

Di questa Cosa Grigia, «forma di criminalità leggera che da un lato [gli] permette di fare affari, dall’altro [lo] sta a poco a poco esautorando», Messina Denaro è allo stesso tempo «epigono e vittima» (p. 289). Un uomo che da un quarto di secolo riesce a sfuggire allo stato, anziché dall’aura della leggenda criminale, sembra circondato da un senso di stanchezza. Invisibile e ingombrante. E così, la figura del boss carismatico e onnipotente sembra trasformarsi in un residuo del passato.

La morte di Totò Riina rimescolerà le carte, come ipotizza la Commissione antimafia? È davvero finita l’epoca dei padrini? E in che misura possiamo rallegrarcene? Il libro di Di Girolamo mostra una mafia che difende e fa fruttare le ricchezze del passato e che vede tramontare il mito della sua invincibilità, decimata dagli arresti, in affanno nel controllo del territorio. Ma sullo sfondo traspare una Sicilia – e un’Italia – ancor più irredimibile, sospesa tra la sostanziale indifferenza dei più e il disorientamento di un movimento antimafia che di fronte alla novità della Cosa Grigia «sa offrire solo vecchi rituali, un lessico consunto, idee di seconda mano» (p. 364).

Questa amara conclusione ci riconduce al discorso più generale sull’evoluzione delle mafie italiane, e suggerisce alcune domande, sorprendentemente estranee al dibattito pubblico.[6] Possiamo limitarci, come fa la Relazione della Commissione antimafia, a interpretare la scelta dell’inabissamento, il ricorso più dosato alla violenza, la predilezione per le attività “legali” e l’espansione in nuovi territori come una semplice strategia adattativa alla repressione dello stato e a una più diffusa sensibilità pubblica? E davanti a tali innegabili successi giudiziari e culturali possiamo permetterci, al pari di alcuni autori, di guardare agli ultimi decenni della storia italiana come a un successo in senso più generale?[7]

Per rispondere a queste domande, di cui dovrebbero risultare evidenti le implicazioni politiche e sociali, occorre qualcosa in più di una semplice ricognizione dei fatti storici, di un quadro “empirico” della situazione italiana – all’interno del quale, comunque, spiccherebbe lo strapotere della ’ndrangheta, che ha incrementato traffici, giro d’affari e capacità espansiva senza arretrare sul fronte del controllo del territorio d’origine. Se è vero che «la forza della mafia sta fuori dalla mafia» e che, simmetricamente, esiste un’elevata «domanda di mafia» nella società italiana,[8] occorre adottare un’ottica sistemica, che ne indaghi le interazioni con gli attori economici, politici, istituzionali anche sotto il profilo teorico. Non solo: bisogna finalmente prendere atto che la mafia è un fenomeno globale e come tale va studiato. All’Italia tocca probabilmente il triste primato della loro “invenzione” storica, ma soprattutto negli ultimi decenni le mafie stanno conoscendo uno straordinario successo in tutto il pianeta.

Pubblicato nel 2000, Il sistema mafia di Fabio Armao, docente di Relazioni internazionali all’Università di Torino, rimane il tentativo più riuscito e affascinante, se non l’unico, di abbracciare questa duplice prospettiva, sistemica e globale. L’opera ha l’ambizione di proporre una dottrina generale della mafia di ampio respiro teorico, perché solo con una teoria forte si può evitare che «la frequenza e i toni del dibattito pubblico e, aspetto forse più rilevante, i tempi e i modi dell’azione politica di contrasto seguano pedissequamente l’andamento degli eventi di mafia», riverberando di fatto «la strategia dei padrini» (p. 16).

In primo luogo, Armao sgombra il campo da alcuni malintesi. Mafia e crimine organizzato non sono sinonimi. Se “crimine organizzato” ha una valenza prettamente economica, “mafia” indica un fenomeno politico-sociale che in origine non ha una struttura e un’efficienza imprenditoriale. Più precisamente le mafie si definiscono come

organizzazioni, più o meno strutturate a seconda dei tempi e delle esigenze, che si propongono di perseguire l’utile economico di un’élite attraverso il controllo e/o la conquista di posizioni di potere politico, la gestione diretta e massiccia dei mercati illegali nonché l’uso strumentale di sezioni crescenti di mercati legali, l’annullamento dei rapporti di solidarietà civile, utilizzando come mezzo non esclusivo, ma specifico, la violenza. (p. 15)

La pluralità dei piani analitici, la profondità storica, la ricchezza concettuale, lo sforzo di comparazione tra le principali organizzazioni mafiose mondiali sono tali che riassumere compiutamente l’opera di Armao sarebbe qui impossibile e persino fuorviante. Ciò che più rileva mettere in risalto, per gettare luce sui ragionamenti svolti finora, è che le mafie non sono un residuo arcaico, né un virus o un cancro, né un “antistato” (premesse ormai comuni a tutta la letteratura specialistica), ma al contrario «una possibile manifestazione della modernità», legata all’affermazione dello stato e del capitalismo e funzionale a un certo modo di intendere il capitalismo e la politica. Trovano una ragion d’essere nella “società reale” e rappresentano un fenomeno riproducibile.

Adottare una prospettiva sistemica è utile proprio perché consente di rintracciare accanto ai mafiosi – per l’autore leader carismatici e deresponsabilizzati – e ai loro clan – gruppi di potere weberianamente intesi, dotati di regole, strutture e un codice di (dis)valori, che sarebbe errato ridurre alla componente familistica – una comunità mafiosa di sostegno. Armao individua nel potere mafioso un’inclinazione intrinsecamente totalitaria, che tende a riproporre mutatis mutandis le caratteristiche che Frank Neumann teorizzò con riferimento al Behemoth nazionalsocialista: un’organizzazione monistica, totale e autoritaria; l’atomizzazione degli individui; la proliferazione delle élite; la trasformazione della cultura in propaganda, la violenza che non solo terrorizza ma attrae. Eppure, malgrado la loro natura totalitaria e ultra-elitaria, le mafie non possono prescindere dalla relazione con gruppi anche consistenti di individui.

Quali dunque le ragioni del consenso, e quali le funzioni del potere mafioso? Il punto è che la democrazia liberale pone dei vincoli all’esercizio indiscriminato del potere e al perseguimento incondizionato del profitto. L’invisibilità (dell’organizzazione e degli affiliati, ma anche degli affari) e l’uso dell’intimidazione e della violenza costituiscono il valore aggiunto che fa delle mafie gli alleati ideali per i politici o le autorità statali e locali che desiderano rimuovere “impacci” come le procedure per la risoluzione nonviolenta della conflittualità, la trasparenza del potere e la necessità di rispondere all’opinione pubblica, il rispetto universale dei diritti e in primo luogo delle minoranze; e sul fronte economico per aggirare la libera concorrenza, le normative ambientali, il diritto del lavoro, gli obblighi fiscali e contabili.

Armao rileva così una «convergenza di interessi tra le mafie e tutte quelle forze che manifestino un pari disprezzo nei confronti dei principi di eguaglianza sociale e di libertà individuale». Sfruttando le loro straordinarie capacità di adattamento, le organizzazioni mafiose alternano la guerra alla ricerca di alleanze, si infiltrano nella società civile e nell’amministrazione, creano una zona grigia di collusioni e protezioni. «Le nuove tirannie, quali quella mafiosa, sviluppatesi nell’era delle democrazie di massa, ne conoscono alla perfezione i meccanismi interni e, se serve, sono in grado di riprodurli adattandoli alle proprie esigenze. [Sanno] approfittare delle défaillance della democrazia, alimentandone le cause» (pp. 99-100).

Le défaillance della democrazia che le mafie sanno sfruttare sono principalmente due: a) il persistere degli arcana imperii, quegli spazi di segretezza della vita politica, giustificati con il decisionismo, la realpolitik o l’emergenza, in cui viene meno il principio del “potere pubblico in pubblico”; b) la personalizzazione della politica (fenomeno su cui non occorre soffermarsi, tanto è diventato macroscopico). Favorite da tali circostanze, le mafie ricorrono al dominio del territorio grazie a un apparato militare e alla delega delle forze anti-democratiche del sistema politico, a cui assicurano la permanenza al potere finanziandole con la corruzione e alterando i meccanismi elettorali con la compravendita di voti.

In ambito economico, gli alleati ideali delle mafie sono i difensori di interessi oligopolistici o monopolistici – che se ne avvalgono per annullare la concorrenza, reclutare manodopera clandestina, reprimere qualunque rivendicazione sociale e aggirare le restrizioni di legge alle attività legali – e società locali strutturate per ceti acquisitivi, refrattarie alle principali conquiste delle moderne rivoluzioni borghesi, che hanno trovato nelle mafie i più validi agenti per l’estrazione violenta di capitali.

Allargando lo sguardo al livello globale, le mafie svolgono soprattutto la funzione di creare catene commerciali transnazionali, lungo le quali sono in grado di far circolare quantitativi di denaro colossali e merci estremamente redditizie, ma che richiedono elevatissimi costi d’investimento, come le droghe o le armi. È dunque in questi «mercati della morte» che si esprime al meglio il totalitarismo criminale, che così riavvia «processi di accumulazione originaria e selvaggia di capitali» sganciati da ogni logica di produzione (p. 92). In ciò i mafiosi reincarnano i «mercanti d’alta quota» – commercianti sulla lunga distanza che per Fernand Braudel furono protagonisti della genesi del capitalismo – soddisfacendo la sempre più forte richiesta sistemica di capitali liquidi imposta negli ultimi decenni dai mutamenti dell’economia-mondo. Si può sostenere, infatti, che la criminalità organizzata prolifera e si arricchisce in tutto il mondo di pari passo con la tendenza del capitalismo all’“azzardo”, con la finanziarizzazione dell’economia, con lo sviluppo del credito privato e dei mercati offshore.

Riconoscere il successo globale e le funzioni politiche ed economiche delle mafie non significa affermare che siano ovunque o che possano espandersi dappertutto, né tanto meno negare che la loro nascita e il loro sviluppo siano avvenuti in particolari e limitati contesti locali. Storicamente, la criminalità mafiosa si è irradiata a partire da città portuali o centri di transito commerciali, in territori politicamente periferici nei quali il governo centrale ha lasciato ampi spazi di manovra a potentati e reti clientelari locali.

Le mafie nascono solitamente in presenza di uno stato e non in sua assenza, con esso e non contro di esso, in conseguenza di un mal valutato patto dell’autorità sovrana con alcuni poteri territoriali con i quali, in una determinata contingenza storica, ritiene più vantaggioso cooperare, cooptandoli, che confliggere, eliminandoli. (p. 170)

Dunque possono trasformarsi in mafie gruppi di potere locali a cui il governo centrale assegna delle funzioni, o che comunque legittima quali interlocutori, per esempio un’aristocrazia latifondista, i dirigenti di un partito autonomista, un gruppo guerrigliero (a questo proposito, Armao sottolinea come le guerre forniscano forti input all’azione mafiosa, favorita dal ribaltamento dei canonici meccanismi del mercato, che diventa “ nero” per i normali prodotti di consumo e “libero” per armi, schiavi e droghe). Di fatto i territori che lo stato lascia al controllo delle mafie vengono «sottratti al dominio delle leggi e trasformati in serbatoi di risorse, indifferentemente politiche ed economiche, da sfruttare poi privatisticamente» (p. 172).

L’espansione internazionale delle mafie segue le rotte determinate dalle leggi della domanda e dall’offerta. La formazione dell’economia-mondo mafiosa prende avvio, appunto, con la diffusione della domanda di droghe al termine della Seconda guerra mondiale; nello stesso periodo Cosa nostra, Yakuza e Triadi, mafie emergenti, vengono legittimate dalla realpolitik di Italia, Giappone e Cina durante la guerra fredda, penetrando così nelle rispettive strutture politiche e accedendo alla spesa e agli appalti pubblici.

La fine del sistema di Bretton Woods nel 1971 inaugura una fase di deregolamentazione dei mercati internazionali e di espansione della finanza privata che accelera ulteriormente dopo la fine del bipolarismo internazionale nel 1989: una data di svolta anche perché il crollo del Muro di Berlino spalanca nuovi immensi mercati per l’economia criminale, e perché la frettolosa dismissione dell’intero patrimonio pubblico sovietico consegna immani risorse – anche militari – nelle mani di poteri mafiosi, determinando talvolta l’insediamento di vere e proprie cleptocrazie. Nel frattempo, si è verificata un’esplosione del mercato delle droghe; la Mezzaluna d’oro (Iran-Afghanistan-Pakistan) e l’area andina si specializzano nella produzione rispettivamente di eroina e cocaina.

La storia della globalizzazione, così, diventa anche la storia di una vera e propria escalation criminale: le varie articolazioni della mafija russa, i cosiddetti cartelli colombiani e messicani, i poteri criminali balcanici (che saranno tra i protagonisti delle guerre jugoslave), turchi e nigeriani si aggiungono alle “storiche” Yakuza, Triadi, mafie italiane e italo-americane. Interconnesse in reti transnazionali, protagoniste – come sempre nella loro storia – dell’espansione in nuove “colonie” ma ancora fortemente radicate nei luoghi d’origine, per Armao le mafie sanno ormai coniugare globale e locale molto meglio dello stato, e sono giunte alla fase tendenziale della «prevalenza».

L’autore però aggiunge un’avvertenza, che sembra voler dare una prima risposta alle nostre domande sulla progressiva “sommersione” delle organizzazioni italiane: «Chi si illude che», al termine del loro percorso di rafforzamento, «i sistemi mafiosi possano in qualche modo subire una mutazione in senso pacifico e legale, come era successo agli imprenditori privi di scrupoli delle origini del capitalismo americano», ignora che mai nella storia tali sistemi hanno completamente rinunciato all’estorsione o alle attività illegali: «Il mafioso non butta mai nessuna delle proprie maschere» (p. 240). Inoltre, si dimostrano capaci di espandersi, e nei nuovi territori di insediamento tendono a ripercorrere le medesime, aggressive tappe di consolidamento del potere criminale. Semplificando: le mafie non si “ripuliscono” mai del tutto, e non cessano mai di “sporcare” nuove aree.

Non sorprende rilevare, dopo questa immersione nel ricchissimo apparato teorico di Armao, alla ricerca delle “funzioni” politiche ed economiche delle mafie nella realtà sociale, che in tempi più recenti lo studioso dell’Università di Torino si sia spinto a descrivere il caso italiano come una «democrazia a partecipazione mafiosa» di tipo consociativo.[9] L’attuale crisi di legalità è così profonda da minare le fondamenta della democrazia: le patologie del clientelismo e della corruzione, diffuse anche negli altri paesi democratici, assumono in Italia una forma completamente diversa soprattutto a causa delle mafie, che gestiscono risorse di violenza e denaro in misura pressoché ignota al resto dell’Occidente. Anche Armao sottolinea il cambio di strategia, dopo la frattura del 1992-93, dei gruppi mafiosi, che ricorrono meno alla violenza esplicita e, a seconda degli interessi coinvolti, hanno affinato «un più vasto repertorio di relazioni dissuasive/corruttive/collusive/clientelari» con l’ambiente circostante. Questa evoluzione, paradossalmente, è stata rafforzata dal crollo della Prima repubblica dopo le inchieste di Tangentopoli, che hanno aperto un vuoto – anche ideale – nel sistema politico. L’azione giudiziaria non è riuscita a sortire effetti sulle cause strutturali della corruzione, che è esplosa. Si è rinsaldato un sistema di appropriazione particolaristica di risorse collettive in cui le mafie si sono inserite sempre di più, con un ruolo di “facilitatori” (ricordiamo la Relazione dell’Antimafia: il consenso «è passato dal basso della società alle élite»).

Questa devastante crisi di legalità rappresenta la “via italiana al neoliberismo”, e suggerisce ancora una volta che non possono essere la magistratura e le forze dell’ordine a contrastare la domanda di mafia esistente nella società, la quale – come abbiamo visto – si colloca in un più ampio processo globale di privatizzazione della sfera pubblica e di finanziarizzazione dell’economia. Opporsi ai sistemi mafiosi, anche e soprattutto quando assumono i contorni indefiniti di una “Cosa Grigia”, significa soprattutto promuovere la democrazia e difenderla dai suoi nemici: la persistenza dei poteri invisibili, la manipolazione del consenso, l’apatia politica, la restrizione degli spazi pubblici a opera del capitalismo finanziario. Una sfida che non potrà che essere combattuta, anche sotto il profilo culturale e conoscitivo, a livello internazionale, come troppi connazionali si ostinano a ignorare.

NOTE

[1] Sul tema della colonizzazione mafiosa, le analisi più aggiornate e convincenti, di cui si è avvalsa anche la stessa Commissione antimafia, provengono dall’Osservatorio sulla criminalità organizzata (CROSS) diretto da Nando dalla Chiesa, del quale si veda, per una lettura d’insieme, Passaggi a Nord. La colonizzazione mafiosa, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2016.

[2] Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, Relazione conclusiva, XVII Legislatura, approvata il 7 febbraio 2018, p. 16.

[3] Tra gli studi sulle attività economiche “legali” delle mafie italiane, si segnalano due volumi curati da Rocco Sciarrone, che contengono i risultati di diverse ricerche sul campo: Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Donzelli, Roma 2011; e Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali, Donzelli, Roma 2014.

[4] Pietro Grasso, Enrico Bellavia, Soldi sporchi. Come le mafie riciclano miliardi e inquinano l’economia mondiale, Dalai, Milano 2011.

[5] Giacomo Di Girolamo, Cosa Grigia. Una nuova mafia invisibile all’assalto dell’Italia, il Saggiatore, Milano 2012.

[6] Una delle eccezioni più recenti e significative è il volume curato da Attilio Bolzoni, La mafia dopo le stragi. Cosa è oggi e come è cambiata dal 1992, Melampo, Milano 2018, che raccoglie gli interventi di magistrati, sociologi e giornalisti per il blog “Mafie” di Repubblica.it. Rileggendo la parabola storica di Cosa Nostra, Bolzoni e altri autori concludono che la mafia oggi è oggi consociativa, filogovernativa, politicamente corretta: se la si cerca, non la si trova. Per Bolzoni non si tratterebbe però di una novità, ma di un semplice ritorno all’antico dopo la parentesi venticinquennale dei Corleonesi.

[7] Su tutti, Costantino Visconti, «La mafia è dappertutto» Falso!, Laterza, Roma-Bari 2016 (senza che, criticando l’eccesso di ottimismo dell’autore, si voglia sostenere che la mafia è dappertutto).

[8] Le due espressioni, ormai ricorrenti anche in ambito giornalistico, sono da attribuire rispettivamente a Nando dalla Chiesa (per esempio in La convergenza. Mafia e politica nella Seconda repubblica, Melampo, Milano 2010) e Federico Varese, Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori, Einaudi, Torino 2011.

[9] Fabio Armao, «Mafia-Owned Democracies. Italy and Mexico as Patterns of Criminal Neoliberalism», in Tiempo devorado, II,1 2015, pp. 4-21; «The Trickle-Down of Corruption: Italy, Mafia, and the Crisis of Legality», in Matthew Evangelista (a cura di), Italy From Crisis to Crisis. Political Economy, Security, and Society in the 21st Century, Routledge, London 2018, pp. 83-102.

(20 marzo 2018)

 

fonte:http://temi.repubblica.it/micromega-online/