Mafia in Germania: almeno mezzo milione di affiliati
11 febbraio 2019
Sono aumentate, dall’inizio del 2019, le azioni di polizia contro i gruppi mafiosi in Germania. Obiettivo: ostacolare l’attività dei clan che conterebbero – a oggi – circa 500.000 membri. Per l’esperto – che cita la giustizia italiana come modello – è necessario cambiare la legge tedesca, invertendo, nei processi, l’onere della prova
Versione italiana a cura della Redazione del Tacco d’Italia
Le incursioni delle forze armate contro la criminalità organizzata si moltiplicano. 500 agenti di polizia si sono mobilitati, ai primi di febbraio, a Essen nel Nord Reno – Westfalia e altri 1300 a gennaio in diverse città della stessa regione del Paese. Nel mentre, a Berlino, si svolgeva un processo contro alcuni ladri, presunti membri di un clan mafioso.
“È tempo di applicare il principio della tolleranza zero“, ha affermato Herbert Reul, Ministro dell’Interno del Nord Reno – Westfalia, dove si sono svolte le più grandi azioni di polizia.
Di quali clan stiamo parlando?
Si tratta, in realtà, di varie famiglie, di gruppi mafiosi e gruppi etnici, presenti in Germania da qualche decina d’anni. Vengono dal Libano, dalla Turchia, dall’Albania, dal Kosovo o dalla Cecenia. Gli esperti più allarmati parlano di 500.000 persone, membri di gruppi più o meno attivi. “Hanno in comune il fatto di essere sottoculture che rivendicano il loro sistema di norme e valori, rigettando categoricamente il sistema legale tedesco, cercando di imporre il proprio sistema e di vivere, da un lato, utilizzando i sistemi sociali tedeschi e, dall’altro, mantenendo un alto tenore di vita attraverso atti criminali”, ha spiegato a Deutschlandfunk (una radio pubblica tedesca) Sebastian Fiedler, vicepresidente federale dell’associazione degli investigatori criminali tedeschi.
Gruppi stabiliti da decenni
Questi gruppi sono responsabili di atti criminali che vanno dal traffico di droga al traffico di armi, dal riciclaggio di denaro sporco ai furti spettacolari. Risiedono sul territorio da 20, 30 o 40 anni. A volte, vivono nel lusso perché tutti possano vedere. Possono, inoltre, permettersi anche i migliori avvocati del Paese.
Il loro ancoraggio all’ambiente è una difficoltà che la polizia e la giustizia devono affrontare. Alcuni sono cresciuti e hanno operato tutta la vita in questi gruppi. “All’epoca abbiamo chiarito loro che non li volevamo qui, che non avevano accesso all’istruzione o al lavoro”, afferma l’islamologo Mathias Rohe citando il caso dei primi rifugiati libanesi arrivati nel 1975, durante la guerra civile in Germania. “Le persone, in genere, provengono da paesi in cui sono sopravvissute grazie alla protezione della famiglia allargata. Lo Stato era, per loro, il nemico e vivevano una massiccia discriminazione. Ciò significa che la strategia di conservazione era rappresentata dall’unità”.
Pericolo per i “nuovi migranti” in Germania
Oggi la storia si ripete. Lo scorso dicembre, diversi media tedeschi hanno rivelato che i rifugiati arabi arrivati a Berlino dal 2015 erano diventati l’obiettivo del reclutamento di clan criminali di origine libanese. Si tratta spesso di uomini soli, in cerca di un lavoro, che non parlano bene o proprio non conoscono il tedesco. I gruppi criminali li usano per commettere rapine al loro posto.
Migliaia di casi già segnalati
Le attività criminali di questi gruppi sono lontane dall’essere separate le une dalle altre. Alla fine dell’agosto 2018, la polizia ha sequestrato 77 beni immobiliari appartenenti allo stesso gruppo, nella capitale tedesca. Proprietà acquisite con denaro proveniente da bancarotta, secondo gli investigatori.
Nell’altra regione gravemente colpita dalle scorribande di questi clan, nel Nord Reno – Westfalia, tra il 2016 e il 2018, sono stati registrati più di 14.000 reati. Si tratta di crimini violenti, crimini verso la proprietà, frode o traffico di droga.
Allineare repressione e prevenzione
Oggi la polizia sta provando ad agire e contrastare attraverso la cosiddetta politica delle “1000 punture di spillo”: cercare di moltiplicare gli interventi, a volte a sorpresa, per interferire al massimo con le attività della mafia.
I gruppi sarebbero così “disturbati” nelle loro vite quotidiane. “Ma la componente della polizia da sola non sarà sufficiente”, afferma l’islamista e specialista della migrazione, Ralph Ghadban. “Prima devi dinamicizzare il gruppo, in modo che ci sia l’integrazione individuale. Penso che il 30% – 40% dei membri voglia condurre una vita normale, pur sentendosi intrappolato nell’appartenenza ai clan. Bisogna offrire loro una via di fuga“, spiega. Cita i casi di giovani uomini ma anche di donne, per le quali non esiste, al momento, nessuna infrastruttura. “Se una donna esce da un clan, devi istruirla per far sì che trovi un lavoro, per renderla indipendente”, insiste.
Cambia la legge?
Ralph Ghadban ritiene che si debbano destinare più risorse alla giustizia per adattarla meglio alla minaccia. “Dobbiamo avere, come in Italia, un’inversione dell’onere della prova“, dice. Un sistema che eliminerebbe il principio della presunzione di innocenza. “Durante un’indagine, sono stati trovati 60.000 euro a casa di una persona che viveva con l’assistenza sociale del programma Hartz IV da anni. Attualmente spetta al tribunale dimostrare che il denaro è stato rubato. Ma la legge deve cambiare: i soldi devono essere immediatamente confiscati e se la persona interessata vuole recuperarli, deve dimostrare che quel denaro è stato guadagnato onestamente”, dichiara. “È così che sono riusciti a ridurre il potere della mafia in Italia”.
La lotta contro i gruppi mafiosi non è facile. Alcuni agenti di polizia sono già stati minacciati al di fuori del loro lavoro, nelle loro vite private. Ma gli esperti ora parlano di “crepe” all’interno dei clan. Alcuni membri acconsentirebbero a collaborare. “La lotta contro questi gruppi non è una gara di velocità sui 100 metri, ma una maratona”, conclude Rohe.
Versione italiana a cura della Redazione del Tacco d’Italia
fonte:https://www.iltaccoditalia.info