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Mafia e benzina, il cartello dell’oro nero: ecco chi sono i padroni dei distributori

L’Espresso

Mafia e benzina, il cartello dell’oro nero: ecco chi sono i padroni dei distributori

Dalle raffinerie alle pompe di carburante, così la criminalità ha messo le mani sul business del petrolio. Un accordo tra ‘ndrangheta, Camorra e Cosa nostra. Quattro procure e la Guardia di finanza in ottomila pagine d’indagini raccontano quali sono gli impianti nelle mani delle mafie

di Enrico Bellavia e Antonio Fraschilla

28 APRILE 2021

Frutta più della droga, spalanca le porte del salotto buono dell’economia, apre a relazioni internazionali: le mafie, tutte insieme, si sono prese anche il petrolio. Forti di un patto di spartizione che ricalca la signoria geografica sul Sud d’Italia, flirtano con colossi del calibro di Esso e Agip, controllano la filiera, dalle raffinerie alla grande distribuzione fino alla vendita al dettaglio. Dal bunkeraggio dei porti ai distributori di carburante nel meridione. Hanno marchi propri creati ad arte o ne controllano di esistenti. Riversano fiumi di denaro in società che finiscono per espugnare. Con gli amministratori, irretiti dalla solita illusione di considerare i clan alla stregua di finanziarie, fatalmente stritolati dall’abbraccio mortale.

Quattro diverse indagini su truffe e accise evase per la cifra sbalorditiva di un miliardo di euro, lette in controluce, incrociando dati e spunti investigativi, rivelano la rete mafiosa dell’oro nero. Il ferreo controllo di cosche come i Cappello, i Piromalli o i Moccia sull’affare delle benzine e della logistica che muove le cisterne. Con i loro prestanome, le loro teste di legno, i broker a procacciare affari, i politici lesti con licenze e autorizzazioni, un sistema di talpe pronte a vendere informazioni e i signori del carburante, dalle loro eleganti scrivanie in mogano, a recitare il ruolo di burattini.

Duecento finanzieri dei Nuclei di Polizia economica e finanziaria, sotto il comando del generale Giuseppe Zafarana, coordinati dalle procure di Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria, con la supervisione della Direzione nazionale Antimafia, tirano le somme di operazioni che hanno già inquadrato il ruolo di 400 tra boss e operatori del settore, 70 dei quali finiti agli arresti nelle settimane scorse per una truffa fotocopia ai danni dell’erario. Ma questo aspetto è solo la cifra più evidente di un sistema che svela come un’altra fetta di business legale, l’ennesima, sia finita nelle mani dei colletti bianchi del crimine.

Unendo i punti, c’è la mappa del controllo della distribuzione con l’acquisto del petrolio sia dalle grandi raffinerie dell’Eni o della Saras, sia attraverso operazioni di contrabbando, lo stoccaggio nei depositi e la vendita in strada nel circuito delle pompe bianche, cresciute come funghi al Sud contro l’oligopolio delle major, affermatesi come marchi indipendenti e concorrenziali. Insegne come la Sp Energia Siciliana di Orazio Romeo, erede dell’impero fondato da Sebastiano Pappalardo alle falde dell’Etna, con 120 distributori o le società del gruppo dei Ruggiero in Calabria o dei Coppola in Campania. Stelle di prima grandezza come i Piromalli di Gioia Tauro fanno capolino dietro ai big nazionali se di mezzo c’è il proprio regno calabrese. Mentre i Mancuso di Limbadi, storici partner e talvolta antagonisti, puntano alla Rompetrol, colosso dell’estrazione e distribuzione del petrolio nell’Est Europa, per allestire un network in grado di fare concorrenza all’Eni e alla Lukuoil nella gestione delle pompe di benzina. Immaginano di investire 100 milioni di euro per farsi un loro deposito costiero. Hanno tutto quello che serve. Racconta il fiduciario del ramo, Giuseppe D’Amico: «Se lo Stato viene là, poi noi facciamo lo Stato». Dalla sua, D’Amico ha il boss Luigi Mancuso, lo zio, «quello che grida», la forza della cosca. Il «supporto amministrativo lo dà la politica», quello economico gli investitori kazaki coinvolti da un broker milanese. E «per far quadrare il cerchio, in modo che quando arrivano le carte partono in modo veloce», c’è anche «squadretta e compasso», ovvero la massoneria. Notano i magistrati: «In poche battute, Giuseppe D’Amico metteva a nudo tutte le componenti di un sistema masso-mafioso che governa e soffoca la vita economica e sociale della Calabria».

IL GRANDE PATTO

«La nostra indagine nasce quando ci accorgiamo di un legame tra la Camorra napoletana, rappresentata in questo comparto da Alberto Coppola, e la Max Petroli, un grande gruppo della distribuzione di petrolio a Roma», racconta Domenico Napolitano comandante del nucleo Pef di Napoli. La società in sospetto di contaminazione è quella fondata dal petroliere Sergio Di Cesare, guidata dal 2017, un anno prima della morte dell’imprenditore, dalla moglie, Anna Bettozzi, trascorsi da starlette e solida presenza nel mondo degli affari. Rapporti, dice lei, di peso: «Io ho soci che si chiamano Tronchetti Provera e Silvio Berlusconi».

L’occasione del contatto coincide con le difficoltà economiche in cui versa l’erede dell’impero Di Cesare. Lesta a cogliere l’opportunità di finanziarsi senza troppi impicci, Bettozzi acconsente e si vanta pure di essersi messa alle spalle ingombranti protettori: «Io dietro c’ho la camorra». Non disdegna neppure di evocare i romani Casamonica, quando serve. Poi avverte il fiato sul collo, fiuta che i metodi non ortodossi dei nuovi amici cozzano con l’immagine di rampante manager dalle frequentazioni altolocate. Ma è troppo tardi.

La verità è che Coppola offre 550 mila euro pronto cassa. Attinge dall’inesauribile forziere del cugino Antonio Moccia, a capo di un gruppo camorrista che da Napoli ha messo radici a Roma, provando a ripulire la facciata di un castello di affari sporchi. Anche così la Max Petroli prende il largo e il volume d’affari cresce in 36 mesi di 45 volte. Addentrandosi nei meandri dei rapporti, prima delle eloquenti conversazioni captate dalle cimici, viene fuori la giostra delle 200 società “cartiere” che alimenta la girandola di fatture per cessioni inesistenti di petrolio in ambito comunitario, Iva esente, e che rimane invece in Italia.

Lungo la via del petrolio si arriva più a sud: al deposito della Italpetroli di Locri in mano a Domenico e Giovanni Camastra, legati ai clan della ’ndrangheta, a quello della Made Petrol Italia e ad altre società legate a Sergio Leonardi, imprenditore contiguo al clan Mazzei di Catania, alle ditte dei Ruggiero, emanazione dei Piromalli nel Reggino e a quelle dei fratelli D’Amico, considerati uomini di Luigi Mancuso a Vibo. È la rete. Scrivono gli investigatori: «Facendo leva sulla rispettiva appartenenza e contiguità ai contesti criminali di riferimento, i campani Giuseppe Mercadante e Alberto Coppola (contigui alla criminalità organizzata napoletana – rispettivamente al clan dei Casalesi ed al clan Moccia), i calabresi Antonio e Giuseppe D’Amico (appartenenti alla Locale di Limbadi) ed i siciliani Sergio Leonardi e Gioacchino Falsaperla (contigui alla criminalità organizzata catanese e, in particolare, ai clan Mazzei e Pillera), nonché tramite i rapporti e le relazioni con imprenditori attivi nel settore del commercio di carburanti (con particolare riguardo a Virgina Di Cesare, Anna Bettozzi e Felice D’Agostino, amministratori e gestori di un deposito fiscale sito in Roma), definivano accordi criminosi che, oltre a prevedere una generale e stabile destinazione di forze, mezzi e risorse agli interessi della associazione, pianificavano ed attuavano differenti sistemi di evasione delle imposte».

Non c’è nulla di casuale in questa cartina. Perché la spartizione è decisa a tavolino. In un piano che prevede la suddivisione per aree di influenza che copia il controllo territoriale delle organizzazioni e summit a suggello dell’intesa, come quello del 9 luglio del 2019 a Villa San Giovanni tra Giuseppe D’Amico, per il clan Mancuso e Leonardi per i Mazzei. O come quell’altro incontro, questa volta tra un imprenditore siciliano e D’Amico in cui quest’ultimo fa esplicito riferimento a intese consolidate tra le due sponde dello Stretto. Al tempo in cui Cosa nostra e ’ndrangheta si diedero la mano per le Stragi del 1992 e del 1993 e vagheggiavano dei magnifici orizzonti che il futuro Ponte di Messina avrebbe riservato a entrambe le consorterie. Dice D’Amico: «A gennaio ti faccio conoscere un personaggio che con i tuoi compaesani stavano a tavolino… questo si è seduto… si è seduto per lo Stretto, si è seduto per tante cose… quando c’è stato il problema in Sicilia che hanno fatto tutte quelle casinate là… alla zona di Carini». Amministratori locali, spinti dal vento del consenso pilotato dalle ’ndrine, sono a completa disposizione dei gruppi impegnati a lavare con la benzina i profitti di mille traffici.

Dal tritolo al petrolio, è sempre questione di business. E che si passi per l’eccidio Falcone o per intese su nuovi affari, finita per i siciliani l’era corleonese di Riina, da questa parte dello stivale è sempre con i Mancuso di Limbadi che bisogna fare i conti.

LE POMPE DI BENZINA

Patti anche per impiantare un canale alternativo e perfettamente efficiente della distribuzione del carburante. Il Sistema, se opera nel ramo del contrabbando, fa arrivare il petrolio da Slovenia e Nord Africa, oppure in modo apparentemente più canonico, dalle grandi raffinerie. In questo caso il gioco di prestigio consisteva nel darlo per rivenduto a livello comunitario ma anche destinato a scopi agricoli. Formalmente dato via, il carburante tornava in circolo nei distributori sotto il controllo dell’organizzazione a prezzi concorrenziali in grado di attrarre gli automobilisti.

Un giro che ruotava oltre che sulla Max Petroli di Roma sulla Petrol di Leonardi, sulla Dr Service dei D’Amico a Vibo Valentia e soprattutto sulla Italpetroli a Locri della famiglia Camastra, indicati nel novero dei prestanome dei Piromalli con un nugolo di altri amministratori. Come Antonino Grippaldi, finito adesso agli arresti: imprenditore molto noto in Sicilia per essere stato presidente di Confindustria Enna e fino a qualche giorno fa vicepresidente dell’Università Kore. Amico e poi grande avversario di Antonello Montante, l’ex presidente di Confindustria Sicilia a capo di una rete nazionale per indirizzare indagini e affari in nome della finta antimafia condannato a 14 anni. Grippaldi, secondo i magistrati, dopo un accertamento della Guardia di finanza il giorno di San Valentino del 2019 avrebbe aiutato l’organizzazione a creare un’altra società per gestire il deposito di Locri coinvolgendo anche Leonardi, altra figura chiave dell’organizzazione: Leonardi è un imprenditore catanese, proprietario di una rete di distribuzione, la Lbs Rifornimenti, che nel 2018 compare in un’altra indagine sul contrabbando di petrolio comprato da una raffineria a pochi chilometri da Tripoli.

Dopo lo stoccaggio nei depositi controllati, occorre però avere comunque una rete di distribuzione. E qui arriva la parte più sorprendente, perché mettendo insieme le indagini delle quattro procure viene fuori l’enorme influenza della criminalità sulle pompe di benzina. «Soprattutto pompe bianche, ma non solo, e con ramificazioni dal Lazio alla Sicilia», dice Gavino Putzu, comandante del Nucleo Pef di Roma. Una rete a servizio è quella dell’erede di Pappalardo, Orazio Romeo, con le sue società Energia siciliana ed Energia pugliese: da sole oltre 120 pompe di benzina sparse soprattutto nel Sud, ma con presenze anche in Toscana e Veneto. Verifiche sono in corso poi su un altro importante imprenditore che avrebbe in gestione diverse pompe di benzina nel Meridione e che sarebbe consuocero di un condannato attualmente al 41-bis.

Poi ci sono le pompe di benzina dei Piromalli. Il collaboratore Antonio Russo ha detto ai pm di Catanzaro: «I Piromalli hanno le loro pompe di benzina: c’hanno Esso a Gioia Tauro, c’hanno l’Agip, hanno un altro Esso dei fratelli Schiavone». Altra catena in mano ai clan calabresi sarebbe la Lp Carburanti (che gestisce anche insegne Tamoil), legata ai Mancuso. Ma proprio i Mancuso hanno anche dell’altro. Il collaboratore di giustizia Giulio Rubino, del clan Cappello di Catania, ha riferito ai pm di un viaggio a Limbadi per incontrare Luigi Mancuso per un problema di un carico di droga (altro elemento che prova l’asse Sicilia-Calabria) insieme alla compagna di Turi Cappello, Rosa Campagna. Ed è proprio Campagna a riferirgli in quella occasione che «tutte le pompe di benzina da lì alla Campania in qualche modo erano sotto di lui, di Luigi Mancuso».

La filiera è lunga e importante. E un ruolo chiave ce l’hanno anche i broker, come i milanesi Francesco Mazzani e Francesco Porretta, che avevano fatto arrivare in Calabria il manager kazako legato alla Rompetrol, Arman Magzumov, per far fare il grande salto ai Mancuso; oppure Renato Lavazza, «formalmente di professione odontotecnico ma di fatto broker attivo nel settore del commercio dei carburanti con società in Inghilterra». È proprio Lavazza che intercettato dice: «Conviene vendere il gasolio che la droga eh…hai dei guadagni che sono allucinanti».