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Mafia dell’Agrigentino, il boss: “Senza di noi torna il banditismo”. E il ladro si inginocchia per chiedere perdono

La Repubblica

Mafia dell’Agrigentino, il boss: “Senza di noi torna il banditismo”. E il ladro si inginocchia per chiedere perdono

di Gioacchino Amato

Rubava senza il permesso di cosa nostra, immortalato dalle microspie dei carabinieri il ladro è stato costretto a inchinarsi davanti a Calogero Di Caro implorandone il perdono per sé e per la propria famiglia. Il boss Falsone con il suo avvocato: “Troppa microcriminalità, c’è da scappare dalla Sicilia”

02 FEBBRAIO 2021

Cosa nostra come baluardo dell’ordine pubblico. Una visione ottocentesca che rivive nelle parole e nei gesti dei boss dell’Agrigentino intercettati da microspie e telecamere. Due gli episodi che emergono dall’operazione dei Ros che ha portato in carcere 22 persone fra le quali sei boss della mafia arigentina.

Il primo riguarda un ladro che rubava senza l’autorizzazione di Cosa nostra, un comportamento di cui è stato chiamato a rispondere. Immortalato dalle microspie dei carabinieri il ladro è stato costretto a inchinarsi davanti al boss di Canicattì Calogero Di Caro implorandone il perdono per sé e per la propria famiglia. E’ uno dei particolari dell’inchiesta del Ros che ha portato al fermo di 22 tra capimafia e gregari delle famiglie agrigentine. Il boss dispensava la sua assoluzione: il tutto sotto gli occhi delle telecamere che hanno avuto la prova del ruolo incontrastato dello storico capomafia di Canicattì, che, dai domiciliari per ragioni di età, continuava a curare interessi e assetti del mandamento. Lo affiancavano, in una sorta di triumvirato, altri due uomini d’onore. Insieme gestivano gli affari di un ampio territorio che si estende da Canicattì a Campobello di Licata imponendo le loro “regole” sulla criminalità comune totalmente assoggettata all’anziano padrino.

Poi il boss di Agrigento che affida la sua personale visione del ruolo della mafia in Sicilia al suo avvocato. “La Sicilia è una terra desolata, è una terra di miseria, ora si formeranno tutte situazioni di piccolo banditismo che sarà micidiale, questi nascono per natura, no? Lei ce l’ha presente il carciofo? Come si coltiva il carciofo?”. Il boss agrigentino Giuseppe Falsone, non sapendo di essere intercettato mentre parla col suo legale, usa la metafora del carciofo per descrivere la recrudescenza della criminalità comune. Emerge dall’indagine dei carabinieri che ha portato ai 22 fermi tra i quali l’avvocata Angela Porcello, legale di Falsone accusata di associazione mafiosa. “Ogni carciofi si vede che fa 20 carduna (i getti della pianta ndr), e così è la cosa… quando non c’è ragionevolezza, ognuno poi ragiona a conto suo, – spiega alludendo al fatto che senza il controllo di Cosa nostra la microcriminalità prolifera – quando non c’è punto di riferimento … la società da noi è una società difficile, c’è da scappare dalla Sicilia, io non lo so come la gente resiste…”.

Preoccupati i sindacati: “L’inchiesta del Ros dei carabinieri suggerisce che contro la mafia disponiamo di armi spuntate, che consentono sistemi di complicità che garantiscono ai boss di continuare a operare anche quando dovrebbero essere tecnicamente fuori gioco perché in carcere. Non può bastare la meritoria azione repressiva di magistratura e forze dell’ordine ma bisogna adeguare l’intero sistema di contrasto sul piano legislativo, amministrativo, dei controlli”. Lo sostiene il segretario generale della Cgil Sicilia, Alfio Mannino, che da un lato plaude all’azione della magistratura e delle forze dell’ordine, dall’altro si dice “inquieto” per l’emergere di “una rete che coinvolge anche soggetti deputati ai controlli nelle carceri e che operano nell’ambito del sistema della giustizia come l’avvocata di Canicattì. In un sistema in cui potenzialmente nessuno è innocente occorre tenere alta la barra di regoli e controlli, in modo da offrire un filtro adeguato per l’illegalità”.