“Corruzione sì, mafia no. L’avvocato di Salvatore Buzzi ha commentato così le richieste di condanna della Procura della Repubblica di Roma, fondate sull’accusa di associazione mafiosa e di aggravante mafiosa in altri reati in questo processo denominato, forse con enfasi eccessiva.
Certo, non si può non riconoscere che il processo è traboccante di fatti di corruzione e in generale di pubblico malaffare, che hanno devastato più ancora che la situazione patrimoniale l’immagine del Comune di Roma. Non mi pare perciò che si possa sostenere che si tratti di un “processetto”. Si tratta di un processo complesso, anche complicato, rilevante sotto diversi aspetti, il principale dei quali è, appunto, la prova dell’esistenza nella Capitale di un’associazione di tipo mafioso. La Corte di Cassazione, giudicando sui ricorsi avverso le la custodia cautelare disposta a carico di alcuni indagati, ha riconosciuto la natura mafiosa dell’associazione svelata dalla Procura romana, in particolare il risalto delle figure di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e Luca Gramazio, cioè il delinquente abituale ad avviso della Procura, l’imprenditore introdotto e il politico di supporto; e ciò sulla base degli elementi di prova raccolti nel corso delle indagini e costituiti in massima parte da intercettazioni. In Mafia Capitale, infatti, non ci sono ‘pentiti’, uno che avrebbe potuto esserlo, Riccardo Mancini, l’Amministratore delegato di EUR e uomo di fiducia del Sindaco Alemanno, è stato “sconsigliato” da Carminati.
Al di là di questo dati processuali, conviene ricordare qualche vicenda risalente nel tempo e qualche novità registrata in anni recenti. La sentenza della Cassazione che ho richiamato fa espresso riferimento a una decisione della stessa Corte del 1989 a proposito del cosiddetto caso Teardo, la prima delle imputazioni proposte in applicazione dell’art. 416 bis del codice penale. Ironia della sorte, due degli imputati in quel processo celebrato dinanzi al Tribunale di Savona si chiamavano Buzzi e Testa, cognomi ricorrenti fra gli imputati di questo processo. Il capo dell’organizzazione era il Presidente della Regione Liguria, appunto Alberto Teardo. La Corte di Cassazione, in quella lontana occasione, affermò proprio il principio che la formula adottata dal legislatore ‘associazione di tipo mafioso’ fosse riferibile a qualsiasi congrega criminale, dovunque nata e operante, che si avvalesse del metodo mafioso e ne perseguisse i fini indicati nella norma da poco introdotta nel nostro ordinamento..
A parte l’esito del caso Teardo, che si concluse se mal non ricordo con una condanna per associazione a delinquere comune, è rilevante sottolineare come dall’entrata in vigore dell’art. 416 bis fino a oggi, i repertori di giurisprudenza riproducono il medesimo indirizzo interpretativo: l’associazione di tipo mafioso è riconoscibile e punibile, ogniqualvolta sono riscontrati il metodo e il fine mafioso della consorteria indipendentemente dal contesto storico-sociologica di origine, la Sicilia prima, la Calabria, la Campania e la Puglia successivamente.
Il ‘metodo mafioso’ consiste, com’è comune esperienza, nella intimidazione, ossia in una riserva di violenza, una minaccia, che può essere esplicita o implicita nel senso che è determinata o da uno specifico atto o dalla riconosciuta e riconoscibile caratura criminale dell’autore in quanto tale e in quanto appartenente a un sodalizio, piccolo o grande che sia, operante nel settore o nella categoria di appartenenza della vittima. Molti anni fa, era il 1972, una sentenza del Tribunale civile di Palermo ebbe a dettare una massima secondo cui la semplice riconosciuta qualità criminale del capocosca locale era la prova della sussistenza di una violenza definita ambientale.
Questo remoto precedente giurisprudenziale risulta attuale non solo per il principio espresso, che appare precursore, in sede penale, dell’art. 416 bis, ma per il suo attagliarsi alla figura e alla fama criminale di Massimo Carminati e del suo gruppo militare e ad uno degli episodi oggetto di Mafia Capitale. Infatti, il caso deciso dal Tribunale di Palermo riguardava l’intervento del capo della cosca mafiosa del quartiere volto a ottenere da parte della vittima della violenza, definita ambientale, la vendita a basso prezzo di un’area edificabile dello stesso quartiere. Se pensiamo alla pressione subita da Seccaroni per cedere nell’interesse di Carminati un immobile di proprietà familiare, c’è da dire nulla di nuovo sotto il sole.
In epoca più recente si registrano altri elementi che conducono a una piena assimilazione della cosca fondata e diretta da Massimo Carminati a un’associazione mafiosa per così dire tradizionale.
Uno di essi, forse il più sintomatico consiste nella ricerca e nell’appoggio di esponenti politici e rappresentanti istituzionali, contigui o talvolta partecipi del sodalizio; fattori questi di acquisizione di profitti illeciti e insieme di potenziamento della capacità intimidatrice. La DC di Ciancimino e Lima, ieri, il PDL di Gramazio, oggi. L’ascendenza ‘politica’, un vecchio fascista si è definito Carminati, ha facilitato questo genere di rapporti privilegiati con le stanze del potere, specie dopo l’elezione di Alemanno a Sindaco di Roma.
Prima che il Parlamento approvasse l’introduzione nel nostro codice penale dell’associazione di tipo mafioso, dopo la strage del settembre 1982, a Palermo, in via Carini, in una relazione presentata in occasione di un Convegno del CSM Giovanni Falcone e Giuliano Turone indicarono che le indagini antimafia avrebbero dovuto svilupparsi lungo tre livelli successivi, il primo costituito dai reati di strada e riguardante la manovalanza delle famiglie mafiose, il secondo quello in cui si realizzavano gli scopi principalmente economici delle stesse famiglie incrociando gente disponibile eppure non affiliata, e il terzo che rappresentava la interessenza con esponenti politici e istituzionali, cioè la conquista di apparati pubblici. Non mi sembra che il mondo di sotto, il mondo di mezzo e il mondo di sopra, teorizzati da Carminati si allontanino molto dal sistema di potere descritto dai due magistrati che operavano, è bene ricordarlo, uno in Sicilia e l’altro in Lombardia. Giuliano Turone scrisse poi, a commento della legge Rognoni-La Torre che la capacità intimatrice era una componente del patrimonio dell’associazione mafiosa come l’avviamento lo era per l’impresa; una riserva di violenza, appunto.
Il Pubblico Ministero ha premesso nella sua requisitoria che in questo processo non si tratta di stabilire se a Roma c’è o non c’è la mafia, come pure spesso si legge o si è sentito dire anche in dibattimento. Si tratta piuttosto di decidere che la consorteria criminale di cui il capo è Massimo Carminati e il principale organizzatore Salvatore Buzzi sia da qualificare associazione di tipo mafioso, al pari di altre, piccole o grandi, che agiscono in ogni parte del nostro Paese laddove c’è odore e flusso di denaro, soprattutto pubblico. È la riproduzione di Cosa Nostra, oggi come ieri.
Roma non è una città mafiosa come non lo era Palermo quando oltre trent’anni fa in un’altra aula-bunker ebbe inizio il primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Fu quello, al contrario, l’avvio di un lungo e tormentato, forse non ancora compiuto percorso di liberazione della società civile e delle istituzioni da un sistema economico-politico-criminale soffocante e pervasivo. Lo stesso mi auguro che segua all’esito di questo processo, che non infanga la Capitale e la sua popolazione, ma ha lo scopo di verificare e rimuovere il fango prodotto da una compagine criminale che ha usato il metodo mafioso per conseguire profitti illeciti e invadere le sfere dei poteri pubblici”
di Alfredo Galasso, difensore di parte civile di Sos impresa, l’associazione fondata da Libero Grassi al processo Mafia Capitale