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Londra lavatrice mondiale del denaro sporco: 100 miliardi riciclati all’anno

Londra lavatrice mondiale del denaro sporco: 100 miliardi riciclati all’anno

di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi

Lunedì 3 aprile 2017

La più grande lavanderia mondiale di denaro sporco ha l’aspetto tranquillizzante degli edifici di Belgravia, di Knightsbridge e di Mayfair. Ha il volto rispettabile dei banchieri della City e di Canary Wharf, e il suono delle Ferrari che il sabato mattina ruggiscono attorno a Grosvenor Square. Secondo la National Crime Agency (Nca), l’agenzia contro il crimine organizzato del Regno Unito, ogni anno in Gran Bretagna vengono riciclati tra 36 e 90 miliardi di sterline (tra i 42 e i 105 miliardi di euro), dal 2 al 5% del Prodotto interno lordo britannico pari a 1.800 miliardi di pound, e la gran parte di questi soldi approdano a Londra. Qui vengono investiti nell’industria finanziaria o nel mercato immobiliare delle abitazioni di lusso, sempre più fiorente.

L’ultima conferma del ruolo di Londra come porto sicuro del riciclaggio internazionale è il caso rivelato pochi giorni fa dall’organizzazione non governativa Occrp (Organized crime and corruption reporting project) e dal giornale russo Novaya Gazeta. Tra il 2010 e il 2014 almeno 20 miliardi di dollari sono stati riciclati a Londra attraverso una dozzina di grandi banche internazionali, una cifra che secondo gli investigatori britannici potrebbe arrivare a 80 miliardi di dollari. I soldi, frutto di tangenti e corruzione, confluivano nelle banche londinesi provenienti dalla Russia dopo essere transitati per la Moldova e la Lettonia.

Il più grande centro finanziario del mondo

Nella grande lavatrice londinese i soldi illeciti si mescolano con quelli puliti. E il cuore di questo sistema è la City, il miglio quadrato, l’area di Londra dove si concentrano i servizi finanziari e dove lavorano ogni giorno oltre 400mila persone.

A Londra operano più banche straniere di qualsiasi altro centro finanziario, circa 250. Nei loro uffici e nelle loro filiali sparse nel Regno Unito vengono gestiti 3.200 miliardi di dollari di obbligazioni internazionali e vengono gestiti 6.800 miliardi di sterline di fondi. Nella gestione di asset, il Regno Unito è la seconda piazza più importante del mondo ed è il primo centro finanziario europeo per la gestione di hedge fund e di private equity. È il più grande centro assicurativo d’Europa e il terzo nel mondo. Qui si concentra il 37% di tutti gli scambi in valute del mondo. A Londra sono scambiati più dollari che in tutti gli Stati Uniti. Il suo primato mondiale è riconosciuto anche nel settore dei derivati. Il 39% di tutti i derivati sui tassi di interesse sui mercati over the counter vengono, per esempio, trattati qui, secondo uno studio di TheCityUk, l’organismo che promuove l’industria dei servizi finanziari della City.
Tutti ciò ha fatto del Regno Unito il principale esportatore di servizi finanziari del mondo con un surplus di 97 miliardi di dollari nel 2015, più di due volte l’attivo registrato dagli Stati Uniti e quattro volte quello della Svizzera. Da questo punto di vista la City non ha concorrenti. Ed ecco perché così tanti soldi illeciti arrivano qui. 

A garantire l’espansione della City è stata certamente una regolamentazione molto blanda ma anche un sistema fiscale che ha favorito i grandi capitali e i tycoon stranieri. Nel 1914 fu introdotta la norma che consentiva agli stranieri residenti ma non domiciliati nel Regno Unito di non pagare le imposte sui redditi percepiti a livello mondiale e di essere tassati solo sui redditi guadagnati in Gran Bretagna. Così oggi il proprietario di fondo d’investimento o di un hedge fund non domiciliato può fare in modo che il suo reddito venga registrato contabilmente al di fuori della Gran Bretagna e non versare neppure una sterlina di tasse. Ecco perché Londra è diventata il rifugio (fiscale) di uomini d’affari, banchieri, finanzieri e milionari di mezzo mondo, tutti a caccia dello status di “residente non domiciliato”. Un privilegio che i comuni cittadini britannici non hanno.

La rete dei paradisi fiscali

C’è poi la Borsa. Quasi 400 società quotate al London Stock Exchange sono domiciliate in paradisi fiscali legati alla Gran Bretagna: di queste, 129 sono nell’isola di Guernsey e 42 nelle Isole vergini britanniche. Perché Londra è un grande hub delle giurisdizioni offshore, al centro di una ragnatela di paradisi fiscali composta da tre Dipendenze della Corona (Jersey, Guernsey e l’Isola di Man) e da 14 Territori d’oltremare, sei dei quali sono riconosciuti paradisi fiscali (Anguilla, Bermuda, Isole vergini britanniche, Cayman, Gibilterra e le isole Turks e Caicos). Un network che assicura alla City di Londra massicci afflussi di capitali.

I flussi finanziari che legano gli avamposti offshore con il cuore pulsante della City sono stati analizzati in uno studio commissionato nel 2009 (il primo e ultimo disponibile) dal Cancelliere dello Scacchiere britannico. Alla fine di giugno del 2009 – erano le conclusioni del report – i soldi prestati dalle banche britanniche alle entità bancarie e finanziarie domiciliate nelle nove giurisdizioni offshore erano pari a 413,8 miliardi di dollari mentre i flussi che dai centri offshore erano confluiti verso la City ammontavano a 670,8 miliardi di dollari. Dunque l’afflusso netto di capitali dalla rete periferica dei paradisi fiscali della Gran Bretagna verso la sua capitale era di 257 miliardi di dollari. La City “pompa” soldi dalla periferia dell’impero e li investe nel “miglio quadrato”. Non ci sono elementi per affermare che dal 2009 le cose siano cambiate. Anzi. Ma quanti di quei soldi siano puliti e quanti sporchi è davvero difficile calcolarlo, anche se le stesse autorità britanniche parlano di centinaia di miliardi di dollari riciclati.

Il rapporto della National crime agency

Nel presentare l’ultimo rapporto sul crimine organizzato, il presidente della Nca Lynne Owens ha affermato che «la minaccia della criminalità organizzata continua a evolversi e lo ha fatto nel corso dell’ultimo anno in modi che hanno suscitato notevole e comprensibile attenzione dell’opinione pubblica. Ci sono stati grandi successi operativi che hanno abbracciato molteplici settori della criminalità, costruiti sulla collaborazione, che è fondamentale sia per la nostra comprensione della minaccia che per approntare le risposte più efficaci».
Sul sito dell’Agenzia si legge ancora – a chiare lettere – che la criminalità organizzata rappresenta una delle più gravi minacce alla sicurezza nazionale e per la collettività ha un costo stimato in oltre 20 miliardi di sterline all’anno.
Nel rapporto, diffuso a settembre 2016, l’agenzia ha definito il riciclaggio di denaro come «un rischio reputazionale e finanziario per il Regno Unito». Come se ciò non bastasse, l’incapacità di contrastare le reti corruttive, rappresenta un danno per le stesse società inglesi che invece operano nella più totale e trasparente tracciabilità finanziaria.

Pochi mesi prima – correva per l’esattezza il 24 novembre 2015 – di fronte alla Commissione parlamentare antimafia era stato Nicola Gratteri, attuale capo della Procura di Catanzaro, all’epoca procuratore aggiunto di Reggio Calabria, a fornire un punto di vista tutto italiano su quanto accade oltremanica. Con la solita schiettezza sciolse così il ghiaccio con la presidente Rosy Bindi: «Faccio solo un esempio: poco tempo fa ero a Londra. Noi pensiamo alle Bahamas, ma se lei si ferma dieci minuti al centro di Londra, vedrà che la macchina più piccola e più scadente che passa è una Bmw Serie 5. La concentrazione di ricchezza che io ho visto a Londra non l’ho vista da nessuna parte. Eppure a Londra non ce n’è un pozzo di petrolio, né una miniera di diamanti».

Le due tessere – quella dell’Agenzia anticrimine inglese e quella di un pm da decenni impegnato contro le lavanderie internazionali alimentate dal narcotraffico – vanno incastrate nello stesso mosaico. Le mafie italiane, infatti, giocano un enorme ruolo nel riciclaggio che gioca di sponda con il Regno ed è chiaro che il polmone finanziario che permette di accumulare risorse gigantesche e di reinvestirle in attività commerciali e proprietà immobiliari è il traffico di droga, nel quale il Regno Unito gioca un ruolo fondamentale.
Del resto, se volessimo guardare a quanto è accaduto a partire dal 2015, noteremmo che non manca né la voce camorra né la voce ‘ndrangheta nelle indagini che hanno visto scendere in campo investigatori e inquirenti dei due Paesi.

Il lungo filo nero di Carminati

Londra – fin dagli anni Sessanta – è stata ed è una città rifugio per decine di militanti o latitanti di estrema destra di ogni parte del globo. Una buona parte di questi, negli anni di piombo, erano italiani e molti, anche cambiando cognome, si sono fermati nella City. In particolare, dagli anni Ottanta, c’è un lungo elenco di personaggi membri o vicini ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari (c’è chi li indica in un gruppo di almeno 40 soggetti). Nei decenni, dunque, si è creata una vasta ragnatela di “neri” che non è solo servita a proteggere i singoli ma anche ad impiantare floridissime attività economiche, soprattutto nel campo immobiliare e del commercio.

Tra le figure di ex Nar rifugiati a Londra da 35 anni spicca Vittorio Spadavecchia, che in Italia deve scontare una lunga pena. Spadavecchia, seppur non indagato, entra nell’indagine “Mondo di mezzo” della Procura di Roma con un ruolo che appare decisivo per i rapporti che intrattiene con Massimo Carminati, accusato di essere a capo di quella che mediaticamente è stata ribattezzata “mafia Capitale”, arrestato in fretta e furia il 2 dicembre 2014. Un arresto reso necessario perché, scrive il Giudice per le indagini preliminari Flavia Costantini, c’è il rischio di fuga di Carminati, verosimilmente proprio a Londra, alla luce dei «suoi contatti con latitanti all’estero (Spadavecchia) le sue disponibilità economiche, i suoi investimenti all’estero, in territori off shore…».
Carminati, ai primordi della sua carriera criminale, militava nella formazione di estrema destra Nar e, allo stesso tempo, ricorda sempre il Gip Costantini, «era coinvolto in gravi attività delittuose che hanno segnato la storia della Banda della Magliana per aver stretto rapporti fiduciari con alcuni degli appartenenti di maggiore spicco».

Tra ex Nar – a meno che non intervengano punti di vista diametralmente opposti sugli affari – il filo nero non si è mai spezzato e Carminati, a dicembre 2013, secondo la ricostruzione del Ros dei Carabinieri, aveva avuto notizia di una probabile azione giudiziaria nei suoi confronti mentre si trovava in visita al figlio Andrea a Londra.

Il riavvolgimento del nastro consente di ricostruire ad investigatori ed inquirenti che nel 2011 Carminati si stava adoperando per disbrigare le pratiche necessarie al rilascio del passaporto, avendo intenzione di partire alla volta di Londra per far visita ai propri sodali – compreso Vittorio Spadavecchia – lì residenti.

Visite di affari, per come emerge dalle indagini. Intercettato alle 15.43 del 3 giugno 2013 presso un bar di Roma, è lo stesso Carminati che rivela ad un coindagato di aver acquistato un immobile a Londra «a Notthing Hill…il primo piano l’ho comprato da poco io, molto bella…». Ma è nei giorni immediatamente precedenti – è il 28 maggio – che secondo l’accusa, Carminati spiega la sua passione londinese. Intercettato quel giorno alle 13.34 afferma di avere l’intenzione di effettuare nella città inglese degli investimenti economici da affidare al figlio Andrea: «Ho pensato, apro una o due attività, Andrea sta lì che se fa un altro lavoro però controlla, me guarda, capito? A questo punto c’ha un reddito no?». Investimenti possibili, annota il Gip, perché il figlio avrebbe potuto godere delle sue conoscenze, come lo stesso Carminati, intercettato il 1° giugno 2013 alle 12.18 nello stesso bar, punto di ritrovo della presunta associazione mafiosa, sembra confermare: «Lui (riferito al figlio Andrea, nda) a Londra avrebbe il mondo, lì … ». Poco dopo, nel corso della chiacchierata, fa capire che Londa per lui non ha ostacoli e riferendosi ad un conto corrente londinese da aprire al figlio Andrea, spiega le modalità attraverso le quali potevano avvenire le transazioni finanziarie all’estero usufruendo delle sue conoscenze nella capitale inglese. 

Il 20 febbraio 2014 ancora Carminati, questa volta intercettato nell’auto dello stesso coindagato, si lascia andare a dettagli ulteriori sui suoi viaggi nella capitale inglese. Questa volta per far visita ad una coppia di amici che stavano aprendo una catena di ristoranti: «vorrei annà su un paio di giorni … in mezzo alla settimana…vediamo perché loro stanno aprendo…il fratello li su sta aprì tutta una cosa di ristoranti per conto suo…».
Come se non bastasse, sullo sfondo dell’indagine Mondo di mezzo emergono una serie di tentativi – alcuni riusciti, altri no – di trasferire proprio a Londra alcune società costituite in Italia. 

In un’intercettazione del 3 giugno 2013 alle ore 15.34, all’interno del bar romano di Vigna Stelluti le “cimici” dei Rs dei Carabinieri registrano la presenza di Massimo Carminati e di altri tre soggetti. Ad uno di questi, Carminati, dopo aver assicurato che a breve li avrebbe raggiunti anche il figlio Andrea, chiese se avesse avuto modo di conoscere i suoi amici di Londra, indicati come Spadavecchia e Tiraboschi, Carminati spiegò che i due, anni addietro si erano recati a Londra in quanto “ricercati” e che poi si erano stabiliti li, sviluppando numerose attività economiche, si legge nell’informativa consegnata alla Procura di Roma, «che avevano permesso loro di percepire enormi guadagni».

Estradizione dal Regno Unito a tappe forzate

La storia di Spadavecchia è emblematica della difficoltà di riportare in Patria chi si è macchiato di gravi delitti in Italia ma è riuscito a riparare in Inghilterra o in Irlanda del nord, nel nome degli affari. L’Extradition Act del 2003 non assegna infatti all’operatività del mandato di arresto europeo un termine di efficacia collegato alla data in cui è stato commesso il reato (come pure sarebbe stato consentito dalla decisione quadro del Consiglio Ue 2002/584 Jha).
Spadavecchia – che non ha mai scontato un giorno di pena in Italia – è stato condannato a 15 anni di reclusione con la sentenza della Corte di assise di appello di Roma del 17 giugno 1988, divenuta irrevocabile il 5 giugnio 1989, per diversi reati: attentato per finalità terroristiche, banda armata, sequestro di persona, violazione di domicilio, lesioni personali aggravate, rapina, furti aggravati, ricettazione, detenzione e porto illegale di armi. 

Il 10 maggio 2000 la Bow street magistrates’ Court (un tribunale storico di Londra, frequentato da Charles Dickens quando era giornalista) rigettò per la prima volta la richiesta di estradizione (non vigeva all’epoca il mandato di arresto europeo), visto che Spadavecchia era stato condannato in contumacia, senza garanzia della possibilità di celebrare un nuovo processo e che per due delle imputazioni formulate era già intervenuta una sentenza assolutoria del Tribunale di Parigi.

Passati 15 anni nel silenzio totale, l’autorità giudiziaria ha emesso mandato di arresto il 1° luglio 2015, vale a dire sei mesi dopo l’esplosione dell’indagine “Mondo di mezzo” nella quale compare il suo nome. Il 10 maggio 2016, però, il giudice della Westminster magistrates’ Court ha rigettato la richiesta di consegna per diversi motivi, come precisa al sole24ore.com Raffaele Piccirillo, direttore generale della Giustizia penale del ministero della Giustizia. «In primo luogo il giudice inglese ha ritenuto che la condanna di Spadavecchia – spiega Piccirillo – non rispondesse ai principi fondamentali del giusto processo stabiliti dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, poiché essa “si basava sulla dichiarazione testimoniale dei due coimputati, dando lettura della prova e in assenza di controinterrogatorio”».

A parere del giudice inglese emergeva anche l’impossibilità di richiedere una remissione dei termini per impugnare la decisione. Non sarebbe stato neppure possibile accedere ad una revisione del processo e questo perché non c’è stata una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia accertato la violazione della norma convenzionale. 

Il giudice inglese ha poi richiamato il precedente del caso Celinski, per il quale la Corte ritenne che gli interessi sottesi all’estradizione, pur tendenzialmente prevalenti, devono essere bilanciati dalla protezione delle esigenze di vita privata e familiare dell’estradando. «Secondo la giurisprudenza richiamata dal giudice inglese – sintetizza Piccirillo – l’interesse pubblico nell’estradizione ha un peso variabile a seconda della natura e della gravità del reato e del tempo trascorso rispetto all’epoca dei commissione. Quest’ultimo fattore può ridurre il peso da attribuire all’interesse pubblico nell’estradizione ed aumentare quello della protezione della vita privata e familiare».

fonte:http://www.ilsole24ore.com/