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Lombardo: «Gli 11 miliardi del Pnrr fanno gola. Ma le mafie “fatturano” venti volte tanto ogni anno»

Lombardo: «Gli 11 miliardi del Pnrr fanno gola. Ma le mafie “fatturano” venti volte tanto ogni anno»

Il procuratore aggiunto di Reggio racconta i “nuovi” sistemi criminali. «Che siano una cosa unica si sa da 30 anni». La scelta di vita «dopo aver sentito il rumore delle Stragi», il legame con Grat…

Pubblicato il: 29/05/2022 – 7:03

di Pablo Petrasso

MILANO «Salvatore, può essere il sovramondo che ha deciso determinate cose?». Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha appena finito di raccontare con un esempio cosa sia, da almeno trent’anni, il sistema mafioso. Lo fa usando una clessidra, la cui base rappresenta il mondo di sotto: la criminalità di base, quella che spara (sempre meno) e riconosce come capi assoluti i pochi che si trovano nella strozzatura della clessidra. Questa mafia “di base” non vede affatto ciò che le sta sopra; i contatti con chi muove davvero i fili sono tenuti dai suoi generali. Ma le decisioni vengono dalla parte alta della clessidra, il sopramondo, «componente invisibile da cui derivano tutte le grandi strategie e decisioni». E quella parte riservata è «altissima mafia», così alta che già negli anni 90 avrebbe potuto decidere della vita e della morte di due magistrati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che avevano capito troppo. È per questo che dopo la domanda del magistrato reggino al fratello di Borsellino scatta un applauso e cala per qualche secondo il silenzio. Lombardo parla durante il convegno “Mafie e Massoneria: il patto letale per strangolare l’Italia”, nella sala Pirelli del grattacielo che ospita il consiglio regionale della Lombardia.  E ancora nella dialettica con Salvatore Borsellino, racconta uno scambio di battute – avvenuto in un recente incontro sulla normativa antiriciclaggio – che capovolge il punto di vista su uno dei temi più dibattuti negli ultimi mesi: il rischio che le mafie mettano le mani sui fondi del Pnrr.

«Gli 11 miliardi del Pnrr? Fanno gola, ma non sono decisivi. Le mafie “fatturano” 220 miliardi all’anno…»

In realtà, la domanda di Borsellino non è di natura economica: «Perché non ci sono più le stragi? Perché le mafie non uccidono più i magistrati?». Il procuratore aggiunto esordisce con una battuta che strappa un sorriso alla sala: «Salvatore, io spero che sia davvero così…».
La risposta, però, arriva. «Quel sistema criminale che si è ulteriormente evoluto a cavallo delle Stragi e negli anni successivi – spiega –, è un sistema che ha riprogrammato il suo modo di agire recuperando una dimensione che nei primi Novanta aveva in parte perso: la dimensione economico-finanziaria».
«Qualche giorno fa – continua Lombardo – mi hanno chiesto: “Non è un pericolo quello connesso agli 11 miliardi di euro del Pnrr, particolarmente appetibili per il sistema mafioso e per la ‘ndrangheta?”». La risposta del magistrato aiuta a mettere le cose nelle giuste (per quanto spaventose) proporzioni: «Lo sa di che volume di affari si parla riguardo alle dinamiche criminali evolute che cerchiamo di ricostruire? Circa 220 miliardi all’anno: io capisco che gli 11 miliardi sono particolarmente appetibili ma il problema è di portata ben più vasta e certamente va parametrato a una capacità economico-finanziaria che è venti volte superiore… all’anno». In effetti, «una stima effettiva della movimentazione finanziaria di questo sistema criminale è impossibile, perché ci si riferisce a numeri critici (sono quei non accertabili fino in fondo: ad esempio, quanti uccelli ci sono oggi in volo). E, in questo caso, le stime sul volume d’affari delle grandi componenti mafiose sono numeri critici per difetto, perché se andiamo a monitorare soltanto il narcotraffico abbiamo risposte più allarmanti rispetto ai 220 miliardi ipotizzati».

«Investimenti sul debito pubblico degli Stati. Così i soldi delle mafie diventano potere politico»

I soldi, però, non sono (soltanto) il fine: «Se il crimine organizzato – evidenzia Lombardo – ha recuperato la propria dimensione economico-finanziaria lo ha fatto non perché ha il desiderio di accumulare ricchezze ma lo ha fatto perché il potere reale sta lì. E non è un potere fine a se stesso: il potere economico-finanziario ha la possibilità di condizionare le scelte degli Stati. Pensiamo al fatto che enormi capitali possono essere ricollocati anche in relazione ai titoli del debito pubblico: ecco allora che diventa un potere politico, perché 220 miliardi all’anno per difetto, ove collocati solo in parte sul debito pubblico diventano condizionanti sulle scelte politiche».
È questo «il vero problema» nel contrasto alla criminalità, «ma questo tipo di ricostruzione non si fa con cinque finanzieri, ma con un esercito di analisti finanziari che noi non abbiamo».
Un lungo ragionamento che conduce alla risposta alla domanda di Borsellino: «Questo sistema, fino a quando funziona, non spara anche se è capace di uccidere senza cadaveri, è capace di arricchirsi senza movimentare un euro, di ricattare le democrazie senza apparire. Anche il contrasto alle grandi operazioni di riciclaggio richiede un livello di professionalità che io in questo momento non vedo. Ed è molto grave». Le strutture criminali «devono essere immediatamente snidate quando si stabilizzano in determinati ambienti: se questo non avviene in tempi rapidissimi, noi non li riconosceremo più».

«Perché cambiare il sistema antimafia più evoluto del mondo?»

È un «aspetto drammatico» della lotta alla criminalità che invece vive del continuo discutere di riforme. «Non c’è stato governo che non abbia detto che il problema in Italia è legato alla necessità di riformare la giustizia e quindi, mi viene da dire, non abbia detto che il problema in Italia sono i magistrati», dice il procuratore aggiunto. La richiesta è «che stabilizzino le regole del gioco», anche se qualche domanda è necessaria. «Se è vero che il sistema antimafia italiano è il più evoluto del mondo e questo ci viene riconosciuto da tutti, allora perché è un sistema che va cambiato? Perché, visto che la partita è già così difficile, dobbiamo dare vantaggio a chi quel sistema lo teme e ha cercato di cambiarlo?». Lombardo ritiene necessario «stabilizzare un insieme di regole che funzionano e renderle funzionali a individuare un tipo di criminalità organizzata che è molto peggio di quella degli anni 90. Ecco perché non sparano – conclude –. Ma attenzione, questo non significa che non potranno tornare a farlo ove determinate contingenze lo richiedano. Non pensiamo che l’ala violenta della mafie non possa nuovamente manifestarsi».

«Ho ascoltato il rumore delle Stragi. E ho scelto la mia strada»

Sulle difficoltà di un lavoro investigativo monumentale portato avanti dalle Procure che si propongono di ricostruire la struttura del sistema mafioso verte parte dell’intervento del magistrato. Lombardo non nasconde l’amarezza: «È con profonda tristezza che andiamo avanti in perfetta solitudine perché questa è la verità. Nessuno mai ci ha dato un supporto duraturo, convinto, in questi anni. Ma non ci siamo fermati perché ognuno di noi porta con sé la sua storia e la storia che noi abbiamo vissuto». Nel suo vissuto c’è il racconto della notte che gli cambiò la vita. «Ho ascoltato con le mie orecchie il rumore delle stragi – spiega –. Il 28 luglio 1993 tornavo da una delle tante serata con i colleghi universitari e andavo dall’Eur al quartiere Nomentano, dove vivevo. Arrivato alle Terme di Caracalla sono stato costretto a cambiare strada e mi hanno invitato a prendere la direzione che porta a San Giovanni in Laterano. Sono passato da lì 20 minuti prima che esplodesse la bomba del 28 luglio 1993. Arrivato a casa, ho sentito un boato spaventoso. Quando ho appreso che l’ordigno era esploso sulla strada che avevo appena fatto ho capito che da studente in giurisprudenza era obbligatorio per me fare un certo tipo di percorso. E di questo non mi sono mai pentito». È legato, in qualche modo, alle Stragi anche un altro passaggio della storia professionale di Lombardo: «Quando ho iniziato a fare questo lavoro e affrontare queste tematiche – cioè il sistema mafia con proiezioni in altri ambiti apparentemente non mafiosi che invece sono altissima mafia – ho messo insieme alcuni pezzi che hanno preso forma tra fine 2009 e inizio 2010. E qualcuno lo ha saputo, ovviamente. Visto che (i mafiosi, ndr) non riescono a comprendere fino in fondo che non ci spaventa il lavoro che facciamo, hanno pensato di minacciarmi pesantemente il 25 gennaio 2010, circa 22 giorni dopo aver fatto esplodere un ordigno davanti alla Procura generale di Reggio Calabria. Mi hanno detto queste testuali parole: “Fatti i cazzi tuoi, smettila perché farai la fine di Falcone e Borsellino”. Ecco perché sono una massa di stupidi: potevano minacciarmi in mille modi ma utilizzare il riferimento a Falcone e Borsellino mi ha dato la certezza che la strada era giusta».

«Io e Gratteri veniamo dal territorio a più alta densità mafiosa del mondo»

Falcone e Borsellino sono i punti di riferimento nell’analisi di ciò che la mafia è diventata. «Parlare di mafie storiche (Cosa Nostra, ‘ndrangheta, Sacra Corona Unita, ndr) è assolutamente errato. È superato e antistorico ma facile da raccontare. Si tratta di cose accertate – dice Lombardo – non attuali e che non fanno più paura». E invece «ci sono acquisizioni di grandissimo rilievo, che risalgono a 30 anni fa, che ci dicono che questo tipo di approccio non porta a nulla. E questo era in realtà il metodo Falcone: ci diceva che un approccio settoriale non fornirà mai risposte chiare sulle componenti apicali di questo sistema criminale, spesso e volentieri occulte. Quando abbiamo cominciato a lavorare sulla componente invisibile e riservata del sistema criminale qualcuno ha avuto il coraggio di dire e di scrivere che se è invisibile non esiste e che probabilmente esiste solo nella mente di qualcuno». Una forma di disinformazione «inaccettabile per la fatica che costa fare un certo tipo di lavoro». Questo approccio risale alle inchieste di Falcone e Borsellino «non vivevano di sensazioni ma lavoravano su elementi concreti». E dai loro risultati si è continuato a costruire: «Non possiamo in alcun modo ripartire da zero perché è un regalo al sistema mafioso che siamo chiamati a contrastare». Altro passaggio che investe la sfera personale e che mostra che si costruisce ciascuno sul lavoro di chi lo ha preceduto: «Nicola Gratteri – dice Lombardo – era sostituto procuratore dell’ufficio che era diretto da mio padre e io sono stato sostituto procuratore di Nicola Gratteri: è bellissimo. Perché ci guardiamo in faccia e ci capiamo, perché siamo nati e cresciuti nel territorio a più alta densità mafiosa d’Europa, secondo me del mondo, che è la Locride. Che è il territorio in cui la componente mafiosa riferibile alla ‘ndrangheta ha ancora oggi i suoi riferimenti principali, tanto da essere immediatamente riconoscibile in qualsiasi continente. Così come Falcone e Borsellino sono nati e cresciuti in una Palermo di cui sapevano tutti. Non può piacere: ben venga perché siamo capaci di capire e contrastare. Minacciateci». «Però – ammonisce – essere vicini ai magistrati non vuol dire manifestarci solidarietà. Ci hanno mostrato solidarietà moltissime volte ma sono state parole che ho percepito come merce scadente, perché quelle stesse persone il giorno dopo facevano i conti della serva per vedere quante risorse fosse possibile destinare a un’azione antimafia che fosse davvero effettiva».

«Calabria fuori da qualsiasi circuito informativo che abbia rilevanza nazionale»

Altra considerazione amara Lombardo la destina alla copertura mediatica dei fenomeni mafiosi: «Non accettate il racconto che troppi presunti esperti di mafie fanno anche su importanti testate giornalistiche: devo dirlo, la Calabria è totalmente fuori da qualsiasi circuito informativo che abbia una rilevanza nazionale e anche internazionale per il ruolo che la ‘ndrangheta ha a livello mondiale. Questo è inaccettabile, perché l’informazione ha un ruolo fondamentale nel trasformare il linguaggio giuridico in uno strumento capace di demolire culturalmente i fenomeni mafiosi. Senza informazione le sentenze rimarranno nella disponibilità di pochissimi. L’informazione data in modo tempestivo, completo approfondito consente a tutti che sono stati celebrati processi ma di comprendere le risposte civili, sociali, che siamo stati in grado di dare a determinati fenomeni che sfiorate senza essere in grado di capire che quello è mafia».

Le verità di Leonardo Messina nel 1992. «Le mafie sono una cosa unica a livello mondiale»

Cosa sia il sistema mafia oggi, Lombardo lo spiega con materiale che risale a trenta anni fa. «Ci sono metodiche di comando molto comuni tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta, tant’è che la componente riservata c’è in Calabria e c’è in Sicilia. Ce lo dice un collaboratore di giustizia che è uno degli ultimi ascoltati da Paolo Borsellino, Leonardo Messina. Messina, nel 1992, morto Borsellino, viene ascoltato dalla Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante il 4 dicembre e risponde alle domande dei commissari. Che iniziano a chiedergli: “il progetto politico che si stava portando avanti negli anni delle Leghe meridionali è un progetto che Cosa Nostra vuole eseguire dove?”. E quello risponde incredibilmente: “In tutti i territori dove c’è Cosa Nostra”. E allora il commissario si incuriosisce: “Perché, dove c’è Cosa Nostra?”. Al che Messina risponde: “In Calabria, in Sicilia e in tutti gli altri territori, mica posso elencarli tutti. Forse non ci siamo capiti: dove c’è la ‘ndrangheta ci siamo noi, dove ci siamo noi c’è la ‘ndrangheta. Siamo una cosa unica”». «L’avete mai letta questa cosa?», chiede il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria. La testimonianza di Messina va avanti: «Gli chiedono “è vero che esiste la commissione provinciale palermitana, regionale siciliana?”. E lui: “Ancora alle commissioni siete? C’è la commissione nazionale e anche la commissione mondiale».
«Trent’anni fa – chiosa Lombardo –. Si può fare contrasto evoluto ai sistemi criminali senza conoscere verità di trent’anni fa? Se le mafie sono una cosa sola, vuol dire che hanno una linea unica a livello nazionale e mondiale. E questo spiega perché la ‘ndrangheta è il player internazionale di riferimento per il narcotraffico da circa 30 anni. E chi comanda? C’è stato un tempo in cui comandava Riina e un tempo in cui comandavano altri. E sugli altri vi dovete accontentare…». Per ora, sembra dire il magistrato. Perché il lavoro delle Procure antimafia non si ferma. (p.petrasso@corrierecal.it)

fonte:https://www.corrieredellacalabria.it/2022/05/29/lombardo-gli-11-miliardi-del-pnrr-fanno-gola-ma-le-mafie-fatturano-venti-volte-tanto-ogni-anno/