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Lo Stato sordo ai servitori celebrati come martiri. 

SE FOSSIMO IN UNA NAZIONE NORMALE E VERAMENTE CIVILE E DEMOCRATICA TUTTI I VERTICI ISTITUZIONALI DELL’EPOCA ED I RESPONSABILI DEI DIPARTIMENTI CENTRALI E PERIFERICI INTERESSATI STAREBBERO A MARCIRE IN GALERA DOPO ESSERE STATI CONDANNATI PER ALTO TRADIMENTO.

La Stampa, MERCOLEDÌ 17 LUGLIO 2019

Lo Stato sordo ai servitori celebrati come martiri

FRANCESCO LA LICATA

Sono passati 27 anni da quel 19 luglio di via D’Amelio. Tanti, ma sono niente se ancora oggi sentiamo accapponarsi la pelle ascoltando le parole gravi, il triste sarcasmo di Paolo Borsellino che illustra a diverse Commissioni antimafia (dall’84 al ’92) come i magistrati, e l’apparato investigativo in generale, fossero costretti a lavorare in condizioni proibitive. Nulla che non fosse conosciuto, ma sentirlo dire dall’uomo che è andato coscientemente incontro alla morte per non venir meno al suo rigore istituzionale, per non piegarsi alla legge della mafia, fa impressione. E produce una certa rabbia, perché rende ancora più evidente il “danno” che il Paese ha subito per la scomparsa di due servitori dello Stato come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Rabbia perché risalta la sottovalutazione del pericolo da parte dello Stato, rimasto sordo di fronte alle parole disperate di “specialisti” celebrati come martiri subito dopo le stragi. Nei discorsi di Borsellino c’è un presagio di ciò che sarebbe accaduto. Fa sorridere l’ironia del giudice che racconta ai parlamentari come fosse costretto a usufruire di una scorta dimezzata a causa della presenza di una sola auto blindata. O la rappresentazione dell’inadeguatezza delle risorse investigative, tanto fragili da non prevedere una sola volante nella Marsala di quegli anni. Nel 1984 Giovanni e Paolo, senza pentiti e sostanzialmente senza mezzi, lavoravano ad un rapporto giudiziario che può essere ritenuto la cellula primordiale del successivo Maxiprocesso di Palermo. Contavano sul fondamentale contributo dei commissari Ninni Cassarà e Beppe Montana (uccisi l’anno successivo), anch’essi costretti a fare i pedinamenti con mezzi intestati a loro familiari o con un furgone che i delinquenti di Palermo sapevano essere della polizia. Questa era la lotta alla mafia negli Anni 80. Eppure quel lavoro frutterà, reso fertile anche dal sangue di tanti caduti. Mette i brividi l’analisi di Borsellino sui tesori della mafia trapanese e sui legami coi corleonesi di Totò Riina. Che la voce del giudice, dunque, possa essere ascoltata in presa diretta è cosa buona. Ma non può essere considerata la fine dei misteri. L’operazione di trasparenza reale rimane quella che invoca Fiammetta Borsellino, con le domande sul depistaggio di via D’Amelio ancora zeppo di ombre e risposte vaghe. Lo Stato dovrà impegnarsi per placare la sete di giustizia della figlia del giudice, se non si vuole ridurre la lodevole iniziativa della Commissione a ennesima commemorazione “liturgica” dei nostri eroi.