Lo sporco patto fra i mafiosi e i ”colletti bianchi”
Sebastiano Ardita 24 Febbraio 2021
Dopo le stragi del 1992, al dominio della mafia militare – violenta e presenzialista – Cosa nostra ha preferito un “governo” diverso, che potesse far dimenticare la stagione del sangue e dell’attacco alle istituzioni. E così ha riorganizzato le proprie fila dietro il modello “catanese”, nel quale mafia e Stato andavano a braccetto: niente più omicidi e ricerca di nuove relazioni
Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi.
Dopo le stragi del 1992, al dominio della mafia militare – violenta e presenzialista – Cosa nostra ha preferito un “governo” diverso, che potesse far dimenticare la stagione del sangue e dell’attacco allo Stato. E così ha riorganizzato le proprie fila dietro il modello “catanese”, nel quale mafia e Stato andavano a braccetto: niente più omicidi e ricerca di nuove relazioni. Mentre si sono ridotti i fenomeni mafiosi visibili, si sono invece moltiplicate e fatte più aggressive le espressioni antimafiose. Ma non sempre è venuta alla luce la vera novità: la nascita di una Cosa nostra SpA, che incrocia il suo enorme fatturato con gli interessi dei colletti bianchi che governano multinazionali, enti e istituzioni politiche.
Cosa nostra ha iniziato ad avvalersi in modo ordinario della corruzione e della collusione, che un tempo erano rare e sintomatiche dell’imprendibile “concorso esterno”. Ma per contrastare questo nuovo agire gli strumenti processuali iniziano a rivelarsi insufficienti. E così, tra mimesi e infiltrazione, la nuova mafia scompare e l’unico suo tessuto visibile rimane quello dei quartieri, dove le squadre continuano a delinquere per garantirsi una sopravvivenza. Su quel fronte la repressione funziona: soldati, capi e decine in armi finiscono in galera. E in molti – politici e industriali, riuniti in nuovi centri di potere con targhetta “antimafia”– celebrano la sconfitta di una mafia relegata dietro il 41-bis e gridano che lo Stato ha vinto. Altra è la musica se si scopre che pezzi di istituzioni e di economia da sempre hanno tenuto in piedi Cosa nostra e le sue ambizioni di potere: lì si tace. E vien fatto calare il silenzio anche sulla sentenza che accerta che la mafia trattò con lo Stato.
«Lo Stato ha vinto», si insiste. Ma ne siamo davvero sicuri? Raccontando Catania cercheremo di spiegare che non è così semplice proclamare la vittoria. Se la mafia militare ha perso, non sono perdenti i metodi insidiosi della mafia nascosta. Per questo occorre ricercare il filo sottile che segna l’alleanza tra poteri che vorrebbero dare la scalata pure all’antimafia, dopo essersi appropriati di ogni ricchezza a danno dei cittadini.
Discutere in modo superficiale di mafia e antimafia, come se fossero immutabili, ha rappresentato un comodo riparo per impostori. Discuterne laicamente – senza la pretesa di possedere delle verità ma mettendo in dubbio le troppe certezze di un’antimafia di regime – è una operazione un po’ eretica, ma alla quale non possiamo sottrarci. Lo dobbiamo a quanti hanno vissuto questo impegno fino a perdere la vita e che non potrebbero tollerare – se fossero vivi e potessero guardarci – che persone e poteri che gli furono ostili, si ritrovino uniti nel loro nome per dire che lo Stato ha vinto. Ma lo dobbiamo anche a quanti – vivendo in povertà nei quartieri senza speranza – sono condannati senza appello a essere serbatoio o esercito della mafia, in nome di una antimafia di classe che si rifiuta di vedere altrove il male da combattere e di portare la propria attenzione sulle classi dirigenti.
Lo faremo parlando di un problema che riguarda oramai l’intera nazione, partendo da Catania: dalla sua contraddittoria bellezza e dalla sua crudeltà verso gli ultimi.
Tratto da: editorialedomani.it