Cerca

Lo sfogo e l’appello angosciato di una cittadina… pensante

Non voglio più vergognarmi di essere italiana
Dichiaro il mio dissenso dal silenzio della società civile italiana che salvo alcune preziosissime eccezioni, non trova il modo, o forse la voglia e l’intelligenza e dunque la necessità di manifestare l’indignazione per ciò che accade con i respingimenti, con le ronde, insomma con lo sdoganamento istituzionale della peggiore e ottusa cultura che prevale tra le cittadine e i cittadini di questo paese oggi

Cara società civile italiana, ti scrivo una lettera perchè troppo cupi sono stati il dolore e la vergogna che ho provato a Maputo e a Sarajevo. Una vergogna maturata da prima dei respingimenti di donne e uomini migranti e ora anche l’approvazione del “pacchetto sicurezza” razzista in Parlamento. La voce autorevole del Presidente Napolitano è apparsa l’unica risposta basata sulla ragione e i principi fondamentali dei diritti umani. Da oltre trenta anni sono attiva nelle associazioni e nei gruppi di solidarietà e cooperazione internazionale. Dall’Africa, al Medio Oriente, America Latina e Balcani, ho sempre sentito una forte e fiera appartenenza e identità di pacifista a attivista del mondo della solidarietà e cooperazione italiana. Ovunque abbiamo agito, con coraggio, pur con difficoltà dovute principalmente alla miopia, della parte più ottusa del mondo politico, proponendo azioni e strategie politiche concrete basate sulla nostra esperienza praticata nelle aree difficili del pianeta. Si trattasse di proporre vie costruttive di uscita dalla crisi e violenza, di guerra, in Medio oriente, con i nostri amici dei movimenti attivi nei Territori Palestinesi o libanesi, iracheni, o in Africa e nella ex Jugoslavia e in Albania, abbiamo intessuto straordinarie relazioni non solo solidali ma anche ricche di capacità politica per la costruzione di possibilità nonviolente di uscita dai conflitti, di ricostruzione paziente delle società tormentate dalla guerra o dalla povertà, mettendo al centro le persone le comunità, non solo fisiche ma soprattutto umane e sociali.
E’stata una nostra costante parola d’ordine, un nostro principio guida universale, valido e forte: Non esiste una pace vera, senza diritti umani civili, senza democrazia senza partecipazione, prima di tutto nella vita umana di tutti i giorni.

Lo abbiamo praticato, questo approccio, in tante aree della Terra. In Africa, nella lotta all’apartheid e per la liberazione di Mandela, o a sostegno del popolo Saharawi, a sostegno dei movimenti di liberazione per l’indipendenza dai regimi coloniali. E poi in ormai 35 anni di esperienze di progetti e programmi di cooperazione allo “sviluppo”. In tante relazioni di amicizia vera tra persone e organizzazioni di comunità del sud e del nord, in quello che chiamo partenariato onesto tra soggetti simili socialmente e politicamente.
Non si è trattato infatti, solo di progetti ma spesso di legami tra espressioni di società civile attiva nei territori e comunità con le quali abbiamo sentito il forte bisogno di lavorare, ognuno a partire dalla propria realtà, noi qui nel nord, in Italia, e loro nei sud, per un comune obiettivoà: l’urgenza di fare la nostra parte per cambiare il mondo, di batterci per costruire nuove regole e principi. Quei criteri che sin qui hanno condotto alla crisi di quella che denunciavamo essere insostenibiltà del sistema finanziario, globale, che drammaticamente e puntualmente oggi abbiamo davanti a noi, di cui i poveri della Terra pagano e pagheranno inesorabilmente il costo.

Non tutti abbiamo, nella società civile italiana, sentito allo stesso modo, questa consapevolezza di responsabilità, che va oltre la più nobile delle solidarità.
Una responsabilità che solo alcuni hanno espresso coniugando imprescindibilmente, la lotta per i diritti delle migranti e dei migranti qui in Italia e in Europa e l’azione di solidarietà e cooperazione nel mondo, la lotta alla povertà. Per me tutto ciò è, qui ora e sempre, inscindibile da una ferrea, incondizionata, lotta al razzismo. A ogni forma e in ogni luogo dove questo si manifesta.
Non è possibile la convivenza tra sentimenti e dunque azioni politiche (per me sono sia quelli che dipanano i partiti così come i singoli individui) di declamata lotta alla povertà e forme più o meno “raffinate” e ipocrite di puro razzismo.

Nell’estate del 2006 scrivemmo un manifesto che intitolammo una “badante è una cooperante”. Per alcuni risultava una provocazione, per altri era una constatazione, un fatto, una denuncia. Un sasso lanciato verso le istituzioni, l’opinione pubblica ma anche e soprattutto, a noi della cosiddettà società civile. Il nesso tra lotta per i diritti e la dignità delle e dei migranti, la lotta al razzismo e la cooperazione Internazionale, non era scontato allora e non lo è più in modo crudele ed eclatante oggi.
Si può dire di essere impegnati nella lotta alla povertà senza occuparsi contestualmente qui e ora la propria condanna al razzismo e ai provvedimenti che autorizzano i respingimenti, introducono il criminalizzazione di donne e uomini clandestini. Dicevamo che la Badante era una cooperante. Oggi se perde il lavoro a causa della crisi, non abbiamo niente da dire se viene per decreto diventa criminale perché clandestina e espulsa?

Io non dimentico. Il nostro attaccamento declamato ai principi scritti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani svanisce alla prova dei fatti.
Troppe volte ho sentito risuonare parole di stupore, ho visto storcere il naso, esprimere tra le righe il dissenso più o meno celato. E’ la non comprensione del nesso, “che c’entra la cooperazione e la solidarietà internazionale con l’immigrazione e la sicurezza?” che mi da la misura della distanza, della incompletezza e contradditorietà di certe nostre azioni. Come si potesse separare, sentire sostenibile o complementare la nostra nobilissima solidaretà e cooperazione piccola media o grande che sia… purchè ben lontana da qui. Da ciò che qui pratichiamo nella società, nel territorio di questo
paese.
Credo che in questi, sottili o grandi quanto una trave, elementi di “dissociato” approccio alla realtà che non può che essere universale, affondano le radici della cultura non più solidale e razzista che è oggi egemone in Italia. Sono segnali che da tempo covavano anche nel nostro caro mondo solidale, nella nostra cara società civile.

Ha vinto l’egoismo, spero solo per ora, perchè mi auguro maturi tra le persone, e prima di tutto in quello che era il vasto mondo della solidarietà un sussulto pari almeno a quello della generazione dei nostri genitori che seppe fare negli anni bui, quando in Europa infestava il fascismo e il nazismo e in Italia nacquero le condizioni per le leggi razziali. Loro seppero reagire, trovare in se stessi le forze migliori, in molti ci hanno rimesso generosamente la vita per costruire un mondo migliore, per mettere fine alla guerra, per costruire uno stato democratico, per costruire e affidarci una Costituzione di cui andare fieri. Un regalo, il loro, al quale non ci stiamo dimostrando all’altezza.

Voglio nel mio piccolo provare ad onorarlo, dicendo che provo vergogna per il suicidio di Nabruka, perchè non abbiamo fatto abbastanza perchè sentisse che pure in minoranza, ma noi ci siamo, c’eravamo, per difendere il suo diritto alla vita, al sogno. Dichiarando il mio dissenso dal silenzio della società civile italiana che salvo alcune preziosissime eccezioni, non trova il modo, o forse la voglia e l’intelligenza e dunque la necessità di manifestare l’indignazione per ciò che accade con i respingimenti, con le ronde, insomma con lo sdoganamento istituzionale della peggiore e ottusa cultura che prevale tra le cittadine e i cittadini di questo paese oggi.

E qui vengo alla mia vergogna che ho masticato amaramente in questi giorni. A Sarajevo in un seminario internazionale, il presidente di una ONG austriaca ha fatto un parallelo ormai purtroppo usuale in questo tipo di consessi, quello tra ciò che Hitler denunciava e cioè l’inaccettabilità dell’esitenza di 500mila disoccupati in Germania e il al tempo stesso il numero di ebrei presenti nel paese, e ciò che accade oggi in Europa e soprattutto nel suo paese diminato anch’esso dalla destra e in Italia con il fenomeno del razzismo poggiato su simili approcci: la denuncia della insicurezza e la disoccupazione e l’insostenibilità dell’arrivo dei migranti dai paesi più poveri, della necessità di porre un limite e dunque respingerli.
Del resto lo dice pure Fassino, legittimando dall’altra parte reazioni altrettanto razziste della Lega o della destra in generale. E’ questo che mi preoccupa, che mi spaventa. Non è solo Berlusconi. E’ il popolo italiano, che a grande maggioranza lo sostiene e che lui rappresenta in modo forse spettacolare, ma assolutamente vero. E’ con questa realtà nuda e cruda che dobbiamo fare i conti.

La reazione non univoca e indecisa dell’opposizione che mi lascia stordita. Cosa è accaduto?  Ma mi chiedo a chi posso pensare per condividere questo senso di rivolta, di indignazione per esprimere un’adeguata risposta nelle strade, nella società, con le persone, e verso le istituzioni, verso il cosiddetto mondo della politica? Mi guardo intorno e tanti compagni di strada con cui ho condiviso lotte in anni di inziative sull’Africa, il debito, la solidarietà la riforma radicale della cooperazione italiana, per un modo più giusto. Dove sono? Brillano in questo buio, solo poche luci. Quelle degli spazi delle donne, come il coordinamento contro il razzismo, il Centro Benny Nato e pochi altri, ma sono piccoli, sono, siamo minoranza, priva dei mezzi per attrezzare e dare gambe a una necessaria
ricostruzione e rivoluzione prima di tutto culturale da dispiegare nella nostra società.

Esistono molte persone e gruppi che lavorano ogni giorno testimoniando che nonostante tutto un’altra Italia ancora esiste. Ma manca la strategia comune, un luogo comune.
Mia madre, che per tutta la vita si è battuta per i diritti, credendo fortemente nell’abbattimento delle frontiere spinta da un ideale internazionalista solidale e responsabile che ha materializzato nella sua pratica di vita, da quando partì con altri giovani da tutto il mondo nell’immediato dopoguerra per ricostruire Varsavia distrutta dalla seconda Guerra mondiale dove trovò mio padre che aveva lo stesso spirito e idee, ha da poco chiuso gli occhi per sempre e io pur nello sconforto e nella tristezza ho pensato che almeno non ha visto la fine che ha fatto quel grande popolo della solidarietà che in
Italia aveva conosciuto e amato. E’ una sensazione di potentissima impotenza. Ma voglio provare, come dovettero fare lei e tanti altri giovani in un momento forse più duro del nostro, a ricostruire le ragioni e il senso dei più basilari principi del diritto e di umanità.

Qualcuno in questa società “civile” si affacci, batta un colpo, trovi il coraggio di pensare con la testa e non con la pancia. Provi a fare 2 più 2 unendo ciò che oggi separa, senza trovarvi contraddizione, le nobili iniziative contro la Povertà nel mondo e il più o meno latente razzismo concreto qui in casa loro.
Lo facciano anche le reti concentrate a preparare eventi intorno e o contro il G8. Non ho visto esprimere una sola parola sui respingimenti dei poveri qui e ora. Non una parola per Nabruka che accompagni le analisi sul Fondo Monetario Internazionale. Questi poveri del mondo stanno bussano anche alla loro porta. Lo sanno? O non se ne sono accorti o pensano che siano “altra cosa” da ciò di cui si occupano ogni giorno?

A quando una manifestazione, non una qualunque, una cosa invece immensa e umana? Che simboleggi il dissenso e restituisca loro una dignità con la quale presentarsi ai loro stessi parters dell’Africa, Asia America Latina, Balcani e Medioriente? Il pressionometro o “PressoOttometro” io l’ho messo in casa mia da tempo, ma non quello inaugurato in Campidoglio per misurare il grado di pressione sui governi dei G8, ma sul grado di civiltà della società “civile”. Tutt’altro che arresa ma senza illusioni, aspetto una risposta.
Raffaella Chiodo Karpinsky

(Tratto da www.aprileonline.info)