Cerca

Lo schiaffo dei clan e la reazione che manca

Il Mattino, MERCOLEDÌ 19 DICEMBRE 2018

Lo schiaffo dei clan e la reazione che manca

di Marilicia Salvia

Che su Castellammare pesi l’ombra minacciosa della camorra e che nonostante gli arresti, le inchieste e il tempo che passa non ci sia foglia, nei palazzi del potere stabiese, che ancora oggi si muova senza un qualche tentativo di condizionamento criminale, non c’era bisogno di aspettare l’operazione «Olimpo» per saperlo. Dall’omicidio del consigliere comunale Tommasino in poi, il clima di ambiguità e veleni non si è mai dissipato e la conferma da parte del Riesame, ieri pomeriggio, dell’arresto dell’imprenditore Adolfo Greco arriva a confermare ancora una volta i sospetti sulla commistione di interessi che da decenni impedisce alla città di innescare un percorso di crescita virtuoso. Esattamente come ai tempi dello strapotere del boss Michele D’Alessandro, e della successiva, violentissima guerra tra la cosca di Scanzano e il «traditore» Mario Umberto Imparato, nei vicoli del centro storico come nei quartieri-dormitorio della degradata periferia stabiese il pensiero dominante resta quello criminale, criminale è il circuito economico alimentato da racket e droga, criminale il welfare che assicura assistenza alle mogli dei carcerati e un futuro agli orfani di morti ammazzati. Mentre tradizioni industriali centenarie e fiorenti venivano meno, bruciando posti di lavoro e identità sociale, mentre patrimoni ambientali di valore incommensurabile, come le acque termali che altrove assicurano benessere e fatturati a molti zeri, venivano ridotti al nulla assoluto da scelte gestionali dissennate, nessuno dei tanti sbandierati progetti di rilancio occupazionale e di riqualificazione ambientale ha mai mosso neanche i primi passi. Castellammare è rimasta in trappola, immobile, tra il suo passato ingombrante e il suo presente inconsistente. Se questo è per così dire il quadro elettrico, il corto circuito registrato lunedì con il flop della manifestazione anticamorra che doveva partire dal rione Savorito, teatro l’8 dicembre della pira anti-pentiti, era abbastanza preventivabile. Per quanto ci possano essere delle ragioni nell’opinione di chi rimarca una cattiva organizzazione – di lunedì mattina si sta a scuola e al lavoro – chiudere gli occhi davanti a dati incontestabili può soltanto contribuire a peggiorare le cose. E un dato incontestabile è che la manifestazione aveva ricevuto se non il patrocinio certamente il consenso della politica, visto che tra i venti presenti, lunedì mattina, si contavano il sindaco, un paio di consiglieri comunali e un drappello di parlamentari 5 Stelle: la mancata risposta della città è la mancata capacità della politica di mobilitare, di provocare reazioni «positive». Un dato incontestabile è che in otto giorni – tanti ne erano passati, ne sono dovuti passare prima di vedere una forma di reazione alla vergognosa notte dei falò – c’è stato tutto il tempo di coinvolgere scuole, sindacati, Chiesa e tutti i soggetti della cosiddetta anticamorra militante, ambienti di solito puntualmente reattivi: sono state assenze assordanti, difficilmente casuali. Un altro dato di fatto, purtroppo anch’esso incontestabile, è che mentre in strada la ventina di persone aspettava di capire se il corteo si sarebbe mai formato, ai balconi del rione si affacciavano le donne, dai negozi osservavano la scena i commercianti. Ma né le une né gli altri si sono fatti sfiorare dall’idea di aggiungersi, di partecipare. Di schierarsi in quella che sarebbe stata una scelta di legalità. Ha vinto l’omertà, ha vinto la paura. Il vero timore però è che abbia vinto il «partito» della camorra. Esattamente come nella notte del falò. Un falò fuorilegge – al di là del «valore aggiunto» rappresentato dal messaggio lanciato a chi si è pentito e a chi tra gli ultimi arrestati potrebbe pentirsi – perché vietato da una precisa ordinanza comunale, che concentra sul lungomare i «fucaracchi» della tradizione dell’Immacolata. Ma che è stato acceso dando fuoco a una pira cresciuta giorno dopo giorno, per settimane, con tonnellate di legno accatastato davanti a tutti, ai residenti certo, ma anche alle forze dell’ordine, ai vigili, al sindaco che sarebbero potuti passare in ogni momento. Ma che evidentemente non sono passati. Nel contrasto stridente tra l’esplosione di gioia, di applausi e risate registrata dai telefonini in quella notte di vergogna e il silenzio dell’imbarazzato dietrofront di lunedì mattina c’è tutto il senso della partita che si sta giocando a Castellammare. Che Castellammare sta giocando sulla sua stessa pelle. Una partita dentro la quale il sindaco Cimmino tenta adesso di tirare Salvini, il ministro decisionista diventato nell’immaginario del Paese l’ultimo salvagente prima del baratro. Chiede più attenzione, più sorveglianza, più uomini della polizia il sindaco, per contrastare questa che legge come «una sfida allo Stato». È la richiesta di un aiuto necessario, ma in sé non sufficiente. Perché non si può immaginare di risolvere con la sola repressione un’emergenza provocata da molte mancanze, da molti errori, da molte commistioni. Perché, hanno ragione i parroci stabiesi che lo hanno scritto in un documento comune, alla denuncia «va accompagnata una intensa opera di educazione e formazione delle coscienze»: che non si realizza però negli oratori, se al di fuori di essi non c’è risposta all’emarginazione. Mentre solo così può costruire quella «voglia di riscatto» che fa ripartire una comunità, cui orgogliosamente Cimmino fa cenno nella sua lettera come se a Castellammare fosse davvero acquisita. E che invece, se c’è, va dimostrata. In mancanza di meglio, anche con un corteo.