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L’imprenditore stritolato dai clan: «Il credito negato, le minacce, le sberle: così sono finito in mano ai mafiosi»

Il Corriere della Sera, 8 Luglio 2021

L’imprenditore stritolato dai clan: «Il credito negato, le minacce, le sberle: così sono finito in mano ai mafiosi»

Roberto Saviano intervista un imprenditore lombardo: «Hanno preso il controllo della mia azienda, ti mettono in una condizione tale che se provi a denunciarti ti devi autodenunciare. Ho pensato al suicidio, ma l’unica strada è denunciare»

di Roberto Saviano

Migliaia di imprese sono in crisi, il Covid non è solo un’emergenza sanitaria. È soprattutto un’emergenza economica. Ci renderemo conto del disastro appena inizierà — se inizierà — la ripresa. Chi già era in difficoltà entra in una spirale di sofferenza senza ritorno, le pandemie non creano la crisi ma la radicalizzano. Il sistema economico, il sistema politico, il sistema finanziario italiano non sta davvero aiutando le imprese in difficoltà. Più rallentano gli aiuti più le imprese vengono infiltrate, svuotate, aggredite. La storia che stiamo raccontando riguarda un imprenditore del nord nel settore dell’edilizia, con un passato solido, che d’improvviso si trova in difficoltà. Una difficoltà che non dipende da una sua incapacità, negligenza o da suoi errori. Non assistito da un sistema in grado di proteggere le imprese, è costretto a chiedere soccorso a figure di un territorio grigio che lo porterà nell’abisso dell’usura, del contatto criminale, del rapporto tossico col danaro mafioso. Lo incontro in una caserma dei Carabinieri del nord Italia.

Sei un imprenditore con una lunga storia nell’edilizia. Cosa succede?
«Succede che in un determinato periodo della nostra attività una banca con la quale avevamo un rapporto maggioritario decide di non rinnovarci più le linee di credito».

Qual è la motivazione?
«Non l’abbiamo mai saputa. Abbiamo anche fatto scrivere da un avvocato perché ci dessero una motivazione quantomeno plausibile, ma non hanno mai risposto alle lettere».

Insomma, le banche non concedono una linea di credito per te necessaria.
«Non la rinnovano, più che concedono. Io già l’avevo e mi è stata tolta. Quindi il problema è maggiore, perché un conto è chiedere e ricevere un rifiuto, il tuo status cambia di poco. Un altro conto è trovarsi con un’azienda che ai tempi fatturava 3 milioni e mezzo di euro l’anno e con un affidamento che di punto in bianco ti viene tolto. Ti viene a mancare la terra sotto i piedi. Noi avevamo già un affidamento abbastanza importante, superiore ai 100 mila euro, e trovarsi senza la possibilità di scontare praticamente le fatture, che nell’edilizia vengono pagate con notevoli ritardi, ci ha messi in ginocchio».

Le banche quindi con la loro politica rigida nata anche dalla non conoscenza del territorio chiudono i fidi: ma a questo si aggiunge il Covid. Ha avuto una responsabilità nella crisi economica della tua impresa?
«L’ha avuta quest’anno, sicuramente, perché lavorando nell’edilizia tutti i cantieri sono stati fermati, chiusi, rimandati. Ci siamo salvati grazie alla cassa integrazione…».

La tua è una famiglia lombarda?
«Sì, io sono lombardo di nascita, i miei genitori vengono dal nord».

E hai sempre lavorato in Lombardia.
«Il mio lavoro mi porta a operare quasi in tutta Italia. Principalmente al nord, ma avevo una buona fetta di mercato in Puglia perché col mio tipo di attività si viene a contatto con l’industria alimentare: faccio i lavori che servono alle industre alimentari per avere le certificazioni di cui hanno bisogno».

A chi ti rivolgi se le banche chiudono i rubinetti?
«In Puglia avevo un amico al quale raccontai un po’ la mia storia. Dicevo “guarda, non so come andrà a finire, quasi quasi vendo, non riesco a tenere in piedi”. E lui mi fa “io so che c’è, qua, una persona che ha le conoscenze bancarie per aiutare le imprese. Ti ci metto in contatto”. Io voglio credere che l’abbia fatto in buona fede… Forse anche lui si è fidato troppo di quello che sentiva dire di questa persona e me l’ha presentata come quella che poteva darmi aiuto».

Qual è la professione di questa figura? Come si è presentato?
«Lui si è presentato come il consulente».

Quindi un commercialista?
«Mah, neanche. All’inizio, a parte la parola consulente, ha millantato di essere un noto imprenditore nel settore della fornitura per l’industria conserviera. Aveva una società…».

Che cosa ti ha offerto?
«All’inizio si è presentato con dei soldi. Io gli ho raccontato la mia storia, sono andato a trovarlo, ci ho parlato. Ha visto com’ero, che non avevo quasi i soldi per andare a fare la spesa e mi ha messo lì 5.000 euro. Mi fa: “Me li ridarai, tranquillo. Tre mesi”. E da lì è iniziato tutto. Io ho preso fiducia della persona, ma non tanto perché mi avesse messo lì dei soldi. Di solito quando prendo un cliente nuovo vado a vedere su Creditsafe, piuttosto che Cerved o Lince. Si va a vedere un po’ la storia dell’azienda che c’è dietro prima di fare un lavoro a un’azienda. E sono andato a vedere con la sua partita Iva chi era veramente quest’azienda. Quando ho visto che fatturava 8 milioni di euro l’anno e aveva un capitale sociale di un milione ho pensato: non può essere un bandito. L’azienda ce l’ha, è strutturata, ha un forte capitale sociale e mi sono fidato».

Cosa succede dopo?
«Succede che si presenta dicendomi: “Se vuoi avere credito, bisogna che qualcuno garantisca per te. Ti faccio avere una fideiussione bancaria di un primario istituto svizzero: 400 mila euro di fideiussione”. Lì per lì ci abbiamo pensato, abbiamo chiesto, ci siamo informati. Sembrava che fosse una cosa fattibile, poi alla fine ci ho un po’ ripensato, l’ho chiamato e gli ho detto “guarda, sì, la cosa potrebbe interessarmi, però lasciamo stare”».

Dici no perché inizi ad avere sospetti?
«Quando non vedi tutte le dinamiche precise con tutti gli elementi al loro posto, inizia a venirti qualche piccolo dubbio. Però non nascondo che la cosa mi allettava perché per me anche se c’era da pagare una fideiussione che poi mi garantiva di andare in banca, avere di nuovo del credito e poter di nuovo espandere la mia attività sarebbe stata la panacea».

Quindi, dopo che dici no cosa succede?
«Mi richiama dopo un po’ di tempo e mi dice: “Il funzionario di banca con cui ho parlato avrebbe già istruito la pratica, ha già visto i tuoi documenti. E ti faccio vedere che ho già la fideiussione in mano”. Lì per lì dici: come fa a farlo, non ha la documentazione… Gli faccio: “guarda, no”. Al che è andato su tutte le furie. Ha iniziato a insultarmi, a dire che questa persona della banca svizzera ormai doveva pagarla, doveva pagare le persone che aveva messo in mezzo che fanno da mediatore fra lui e questo personaggio. Praticamente mi presenta il conto che mi verrà fatturato dalla sua società ed era oltre 40mila euro. A quel punto mi sono trovato da un lato ad avere paura che mi succedesse qualcosa, dall’altro dico: se pago, poi magari sistemo tutto. Ho deciso di pagare».

Quindi tu avevi ricevuto i 5.000 euro che poi sono stati restituiti.
«Sono stati restituiti».

Poi è arrivato il conto da 40 mila euro per la consulenza.
«Sì, erano la sua attività di consulenza, più quello che chiedeva il mediatore».

E hai pagato.
«E ho pagato, con regolare fattura, tutto».

E poi?
«Mi ha chiesto i documenti e li ho forniti».

Questi 40 mila euro servivano a ottenere la fideiussione?
«Sì».

Non chiudevano la pratica.
«No, servivano a ottenerla».

Quindi tu hai dato 40 mila euro per poterne ricevere 400 mila dalla banca svizzera.
«Sì, esatto».

Hai pagato, hai inviato la documentazione che ti veniva richiesta. La risposta?
«Disse che era “tutto sbagliato e che quello della banca svizzera ha detto che così non vi dà niente”».

A quel punto hai richiesto i 40mila euro.
«Sì, e lì ho capito dove ero andato a finire. Non conoscendolo e pensando che fosse un imprenditore mi sono un pochino incazzato. E lui mi ha fatto capire che non era il caso che io alzassi la voce né che alzassi la cresta».

Quando hai capito che erano mafiosi?
«Quando mi ha detto: se vuoi ottenere qualcosa adesso fai quello che ti dico io. Diceva che avevo una contabilità tenuta male — per altro me la teneva una nota associazione italiana di cui non faccio il nome — e ha voluto che seguissi le sue direttive. Io a quel punto mi trovavo ad aver tirato fuori 40 mila euro e le banche comunque sia non mi davano niente. Avevo impegnato soldi che in teoria mi dovevano servire per pagare i fornitori, quindi mi trovavo più sotto di come ero prima. E quindi mi è stato imposto: “Guarda, se vuoi ottenere le tue cose fai quello che ti dico io. Innanzitutto cambia commercialista, ti porto dalla mia commercialista. Lei sa già cosa serve a te”. Da lì è stato un continuo chiedere soldi».

Quindi, primo passaggio, cambiare commercialista. La nuova commercialista cosa fa?
«Tratta con lui la gestione della mia azienda. Sono state fatte addirittura delle fatture a mio nome di 6 mesi antecedenti a quando ci siamo conosciuti con loro. Cioè hanno fatto cose retrodatate. E a me dicevano: se vuoi (i soldi 
ndr), è così».

E nel frattempo cosa accadeva? Tu ricevevi un mensile?
«No, io continuavo a lavorare e puntualmente arrivavano richieste di soldi. C’è da modificare una cosa dal commercialista, c’è da fare un’altra pratica. E ogni volta erano 5 mila, 6 mila, 10 mila. Continuamente dare soldi».

Fin dove è arrivata questa strategia?
«La loro strategia l’ho capita alla fine: era quella di prendere un’azienda con un forte storico — io erano almeno 20 anni che avevo l’azienda — con una forte attività, e senza nessun precedente; fargli gonfiare i fatturati e a quel punto chiedere credito alle banche. Come lo facevano? Non si faceva altro che far asseverare dei crediti Iva e usare questi crediti Iva per poi, a fine anno, pagare le tasse generate da falsi utili. Per farla semplice, se con un giro di fatture da cartiere ho 100 mila euro di credito, loro avevano un funzionario interno che glielo certificava. Avevo a disposizione nel cassetto fiscale questi 100 mila, potevo dichiarare di aver guadagnato un milione di euro, prendere questo credito e pagarlo. Questo milione di euro di utile potevo metterlo a riserva o a capitale sociale. Il mio capitale sociale si gonfiava, i bilanci li facevano loro artificiosamente e a quel punto l’obiettivo era presentarsi alle banche e chiedere finanziamenti».

Quindi le stesse banche che avevano rifiutato a te, impresa sana, di rinnovare la linea di credito, avrebbero invece finanziato, aperto, rinnovato la linea di credito alla tua azienda ma gonfiata. A loro serviva un corpo sano con uno storico sano, lontano da ombre.
«In una zona notoriamente tranquilla. Nel Varesotto raramente si sente di scandali… Fin tanto che l’obiettivo era mantenere una società fittiziamente sana, io continuavo a pagare. Sono arrivato a pagare oltre 400 mila euro, ma non in nero, tutto in fatture; quindi ho tutti i bonifici. Quando si sono resi conto che le banche avevano attuato un credit crunch molto forte verso il settore dell’edilizia, hanno visto che tutto questo lavoro che stavano facendo non portava a raggiungere il loro scopo che era quello di gonfiare, chiedere e poi sparire, lasciandomi il cerino in mano. A quel punto hanno fatto terra bruciata. L’ultima azione è stata quella di riuscire, con una società straniera, a far arrivare sul conto corrente per un giorno 130 mila euro, su un istituto che non mi dava credito neanche per 100 euro. Non so come, quel giorno sul conto c’erano 130 mila euro e il giorno dopo mi chiama la banca per dirmi: sei sotto di 130 mila euro. Ho chiesto: ma come facevano a esserci? Perché mi han detto che c’è una falla nel sistema bancario e loro la conoscevano, sono venuti da me, si son fatti dare il token, si sono fatti i bonifici in giornata per i 130 mila euro e da allora sono spariti».

A quel punto vai a denunciare. Il consulente lo hai più sentito?
«No, non l’ho più sentito. Quando ho capito che mi aveva sacrificato, perché con una cosa del genere si finisce subito in centrale rischi, non puoi più chiedere un prestito, ti revocano anche il telepass (cosa che mi è successa), ho realizzato che è stato il colpo di grazia per poi non farsi più vedere. Perché cosa avrebbe potuto chiedermi? Con una banca che si trova uno scoperto di 130 mila euro, segnalato subito in centrale rischi in Banca d’Italia…».

Intimidazioni fisiche loro le hanno fatte?
«Qualche volta un paio di sberle le ho prese. Perché mi volevo rifiutare di fare un giro di fatturazioni per ottenere un credito Iva di 200 mila euro. Servivano giri di fatture fra la mia società e la sua di milioni di euro».

Perché sono arrivati alla violenza fisica?
«Perché ho detto no. Cioè un conto è averti pagato 40 mila euro, un conto è aver continuato… un altro è dire: faccio fatture false, ricevo fatture false. Ho pensato: qui vado dentro».

E di fronte alle sberle non ti accorgevi che eri dentro una situazione ormai tossica?
«Sì, ho perso oltre 10 chili in quel periodo. Non riuscivo più a dormire di notte».

Ne parlavi con qualcuno?
«Solo con mio fratello. Mia moglie ha saputo tutto dopo l’ultimo fatto. Perché lei mi vedeva strano. La cosa che più mi ha ferito è stata quando mio figlio a 3 anni viene vicino a me e mi dice: papà, perché sei triste? Ho detto: qui la misura è colma. Loro giocano sul fatto di metterti in una condizione tale che se provi a denunciarli ti devi autodenunciare… Il loro avvocato ha telefonato al mio dicendogli: perché non vieni giù e vediamo di sistemare la cosa? Come sistemare la cosa? Alla fine gli ha detto: volete denunciarci? Denunciateci. Come per dire: siete voi i primi dentro tutto questo. Perché le firme erano le mie, le fatture le facevo io. Sono stato io a pagare. Quindi da un lato loro, ancora oggi, secondo me, dormono sonni tranquilli. Ma io ho fatto una denuncia che solo a leggerla ci vuole mezz’ora, dove ho messo dentro tutto. Ho fatto nomi, cognomi e cifre. Io sono stato il primo ad autodenunciarmi…».

Ti rendono responsabile delle azioni criminose che tu vorresti denunciare…
«Esatto, prima ti rendono criminale, così ti senti sporco. Ti dicono: sei stato mio complice, le cose le abbiamo fatte insieme. Anche se non è così».

Raccontami del giorno in cui decidi di denunciare.
«Pioveva, passeggiavo nel parco sotto l’acqua, a pensare che non poteva non esserci una via d’uscita. In quei momenti si pensa di fare le peggiori azioni. Ma ho un bimbo piccolo…».

Tu hai pensato di suicidarti?
«Ho pensato anche a quello. Non sapevo dove sbattere la testa. Sono andato dal nostro avvocato, siamo in amicizia. Gli ho detto: senti, ho bisogno di parlarti. Ho capito che o interveniva una persona da fuori con lucidità e faceva ordine alle cose, o qualsiasi mossa avessi fatto di testa mia sarebbe stata deleteria. Mi sono rivolto a lui. Ma all’inizio non volevo nemmeno raccontare un decimo di tutti i fatti. Lo ringrazio per non avermi chiuso la porta in faccia. Mi ha cavato tutto fuori in 3 mesi, mi ha portato a fare una prima denuncia blanda ai carabinieri e poi a stendere una vera denuncia fatta bene. È riuscito a farmi capire che la strada migliore era dire tutto, ammettere quello che era stato fatto e mettersi a disposizione di chi avrebbe indagato».

Una volta fatta la denuncia, quella più profonda, più articolata, cosa succede?
«È tutto sotto segreto istruttorio. Presumo che sia in mano alla Dia».

Quand’è che scopri che si tratta di persone della Sacra Corona Unita?
«La persona con cui trattavo si faceva accompagnare da un uomo. Un giorno, fra le righe, gli è uscito che lui era un colletto bianco e che la persona che si teneva vicino aveva già ammazzato».

Chi ti ha aiutato?
«Il mio avvocato, che mi ha fatto andare in caserma a parlare con il capitano: lui mi ha spiegato certi modus operandi di questa gente, mi ha spiegato che ti mettono in una condizione nella quale senti di non poter reagire. Lì mi sono sentito sollevato, per un attimo non mi sono più sentito io il colpevole ma ho preso coscienza di essere stato una vittima».

Con l’associazione anti racket hai rapporti?
«Certo. Il mio legale è amico di una persona che fa parte della prima associazione antiracket italiana, che mi ha accompagnato in caserma, si è reso disponibile. Mi diceva: anche io prima sono stato con questo tipo di persone, non ti giudico, voglio aiutarti a tirarti fuori».

A chi si trova in una situazione come la tua, con un’attività che non ha mai dato problemi ma che è costretta a chiedere fidi bancari e non li riceve, cosa consigli?
«È brutto da dire, ma se tornassi indietro, prenderei i libri e li porterei in tribunale. Perché tutto quello che può succedere per un fallimento è niente rispetto al vortice nel quale puoi entrare. Se non hai nessun aiuto conviene che prendi e tiri giù la serranda, è un fallimento per la persona, è un fallimento per tutti, ma io dico, se non vedi via d’uscita, chiudi. Perché purtroppo più si va avanti e più ricevere affidamenti bancari diventa difficile. Tutti quelli che possono prometterti un aiuto lo fanno con un secondo fine. E il conto da pagare è più alto, si va a finire da un fallimento a una bancarotta fraudolenta. Per che cosa? Per aver cercato in tutti i modi di salvare un’azienda. Il gioco non vale la candela. Per quanto possa dispiacerti lasciare a casa 15 dipendenti, chiudere un’attività, vedersi portare via la macchina, un capannone, una casa…». .

Ha collaborato Antonio Castaldo