Cerca

L’impero del male del clan mafioso Piromalli

 

L’Espresso, Giovedì 11 maggio 2017

L’impero del male del clan mafioso Piromalli

È la più potente e misteriosa cellula della ‘ndrangheta calabrese: i suoi tentacoli raggiungono Stati Uniti e Sudamerica attraverso insospettabili personaggi in grado di investire in settori strategici. Ecco come ha fatto a diventare così forte partendo da Gioia Tauro

DI GIOVANNI TIZIAN

Olio d’oliva e agrumi nei grandi magazzini degli Stati Uniti d’America. Arance e clementine fino in Romania, Danimarca e Francia. Rifiuti e produzione di biogas in Ecuador. Materie prime, tecnica e ingegno made in Calabria. Con una buona dose di soldi pubblici per sostenere le imprese. Intraprendenza di cui andare orgogliosi, se non fosse per la regia occulta che dirige questi business. Perché purtroppo la mano nera che muove questi affari, ipotizzano gli inquirenti, è quella della famiglia Piromalli di Gioia Tauro, l’alfa e l’omega del crimine organizzato calabrese. A questo si somma un dato ancora più allarmante. Le aziende coinvolte e gli uomini considerati vicini al clan hanno ottenuto negli anni diversi milioni di euro di finanziamenti comunitari e nazionali per quanto riguarda il settore agricolo. E intercettato importanti stanziamenti per portare avanti progetti industriali in Sudamerica.

Dopo anni di quiete la cosca ritenuta tra le più potenti è finita nel mirino del Ros – il reparto dei carabinieri guidato dal generale Giuseppe Governale – e della procura antimafia di Reggio Calabria con a capo Federico Cafiero De Raho. La sequenza è stata impressionante. Due operazioni nel giro di pochissimo tempo, numerosi arresti e  buona parte del patrimonio societario finito sotto sequestro. Ma ciò che colpisce di più è la mappa aggiornata deinuovi business in cui è coinvolta la ‘ndrina Piromalli.

“Provvidenza” è il nome in codice dell’operazione, divisa in più filoni. «Con la provvidenza, chiama le cose con il nome suo», è la frase pronunciata dal giovane boss Antonio Piromalli, alludendo al fatto che l’alto tenore di vita assicurato alla famiglia non dipendeva certo dalla provvidenza, appunto, né dallo stipendio da insegnante della moglie, ma dagli investimenti oculati fatti dal padrino. Una riflessione catturata dalle cimici degli investigatori. Per capire chi è Antonio Piromalli è utile citare una seconda intercettazione ambientale: c’è chi lo paragona a Papa Francesco per la notorietà di cui gode nel milieu mafioso non solo calabrese e per l’autorità che rappresenta. In effetti i Piromalli sono «uomini di pace». Le armi le usano il meno possibile, solo se strettamente necessario.

La Calabria resta il punto fermo nella strategia dei conquistadores di Gioia Tauro. Qui c’è la testa dell’organizzazione, che non si lascia sfuggire gli affari più ghiotti. Così nel target del clan è finito ilConsorzio ortofrutticolo produttori agrumicoli meridionali, Copam. Una sigla a portata di mano per Antonio Piromalli. Si trova, infatti, al confine tra la piana di Gioia Tauro e l’Aspromonte. Precisamente a Varapodio, paese di 2 mila abitanti della provincia di Reggio Calabria. Il Copam è tecnicamente una OP, organizzazione di produttori. Uno dei più grandi e importanti della Calabria con associati anche in Sicilia. I soci risultavano 39 fino al giorno della prima retata contro i Piromalli.

II detective del Ros hanno scoperto che Antonio Piromalli aveva all’interno del consorzio una forte influenza. L’uomo fidato di don Antonio all’interno di Copam si chiama Rocco Scarpari, pure lui indagato nell’inchiesta Provvidenza. Chi è Scarpari? Innanzitutto un imprenditore, titolare del 25 per cento di Copam, oltre che di altre quote in piccole aziende agricole calabresi e siciliane.

Per i carabinieri del Ros, però, è «un imprenditore colluso» con la cosca di Gioia Tauro. Affermazione condivisa dal giudice per le indagini preliminari che ha confermato le ipotesi investigative degli inquirenti. Pm che ipotizzano peraltro «la diretta riconducibilità del Consorzio alla cosca attraverso l’operato di Scarpari, già presidente del medesimo e che tuttora utilizza la casella di posta elettronica intestata al vertice del consorzio». Scarpari non ricopre più quella carica, ma di fatto, scrivono i militari del Ros è «nelle sue mani. Peraltro, tale gestione veniva segnata da continue malversazioni ed appropriazioni indebite. In questo senso metteva la Copam a disposizione di Antonio Piromalli, consentendogli di usufruirne a suo piacimento, ponendo in essere una serie di atti di gestione nell’interesse del capo cosca ed in danno della stessa cooperativa».

Se questo è il profilo disegnato da chi indaga, c’è un aspetto ancora tutto da chiarire. E riguarda la mole di denaro pubblico, soprattutto fondi Ue, incassato dal Consorzio e da società legate a Scarpari. L’Espresso ha letto i decreti di approvazione dei programmi operativi della Regione Calabria con cui sono stati autorizzati gli stanziamenti. Così è stato possibile ricostruire parte del flusso di denaro affluito nelle casse del consorzio sospettato di legami con i Piromalli.

Per l’anno 2016, ad esempio, a fronte di un «valore della produzione commercializzata» Copam ha ricevuto poco più di 834 mila di aiuto comunitario. L’anno prima su quasi 17 milioni di «produzione commercializzata» ha ottenuto all’incirca 800 mila euro. Nel 2013 su 9 milioni di produzione messa in commercio ha incassato 475 mila euro di aiuto europeo e aiuto finanziario nazionale. Infine, per il 2012, tra sostegno comunitario e nazionale ha ricevuto 580 mila euro. In cinque anni, in pratica, il totale è di oltre 2 milioni e mezzo. A questo conteggio vanno aggiunti i soldi finanziati da Agea, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, che nel 2014 ha dato a Copam 526 mila euro più qualche spicciolo. E l’anno successivo oltre un milione di euro. Sempre Agea ha distribuito finanziamenti anche ad altre società in passato legate a Rocco Scarpari, ma in confronto a quelli percepiti da Copam sono briciole.

A marzo, un mese dopo i primi arresti dell’operazione Provvidenza, la procura di Reggio Calabria ha notificato dei decreti di perquisizione per una vicenda apparentemente slegata dagli interessi dei re di Gioia Tauro. Tuttavia nell’inchiesta ancora in corso condotta dai carabinieri delle politiche agricole emerge proprio il flusso anomalo di denaro pubblico confluito nel consorzio Copam. Indagine che vede coinvolti alcuni funzionari del settore agricoltura della Regione Calabria. Insomma, una pista che riporta nel regno dei Piromalli. Lì dove tutto è cominciato, a Gioia Tauro.

Raccontare i Piromalli vuol dire riavvolgere il nastro della storia criminale italiana degli ultimi 50 anni. Sono gli artefici, infatti, della nuova stagione nella ‘ndrangheta calabrese. Con loro inizia la sistematica penetrazione nell’economia legale dei capitali sporchi delle ‘ndrine. Gli esperti definiscono questo cambio di passo il salto di qualità della ‘ndrangheta. Passaggio storico, siamo negli anni’70, che coincide con lo stanziamento di una pioggia di miliardi pubblici per la provincia di Reggio Calabria.

Un’immagine di questo potere granitico ci riporta al 25 aprile 1975. Quando l’allora ministro per la Cassa del Mezzogiorno, Giulio Andreotti, si recò a Gioia Tauro per la posa della prima pietra del V centro siderurgico, e dell’annesso porto, finanziato con i miliardi del pacchetto Colombo, istituito per compensare la provincia di Reggio Calabria dopo lo spostamento del capoluogo di regione a Catanzaro. Andreotti giunto a Gioia Tauro venne portato all’Euromotel per un caffè di benvenuto. A porgergli la tazzina fu Gioacchino Piromalli, figlio del vecchio patriarca don Mommo.

Tuttavia lo stabilimento siderurgico non venne mai realizzato, nonostante fossero già stati spesi moltissimi denari. Ciò che rimase di quel progetto fu il porto, che negli anni a seguire avrebbe conquistato fette importanti di mercato. Fino a diventare uno dei importanti di Transhipment del Mediterraneo. Hub che doveva rappresentare un volano di sviluppo per tutta l’area ma che è sempre stato ostaggio delle cosche locali, Piromalli in primis. E diventato, poi, principale scalo di arrivo della cocaina trafficata dalla ‘ndrangheta

Centinai di faldoni ingialliti raccontano l’epopea dei gerarchi della famiglia Piromalli. Esperti di massoneria e potere, raffinati impresari del crimine, abili ricattatori, con un senso per la politica fuori dal comune. In passato sono stati registrati persino contatti, incontri veri e propri, con l’ex senatore Marcello Dell’Utri. C’era il marchio dei faccendieri dei Piromalli, per esempio, nel tentativo di truccare le schede degli elettori italiani del Venezuela durante le elezioni del 2008. Un’inchiesta esplosiva, questa, scomparsa dai riflettori e ormai destinata all’archiviazione. Insomma, più che un clan un vero impero del Male, che ha ridefinito i confini del regno. Gioia, Roma, Milano, New York, Quito, Caracas. Coordinate geografiche di una multinazionale del crimine.

L’amico del New Jersey 

L’undici febbraio ’79 a Gioia Tauro una marea umana sfila per il paese. È il funerale di don Mommo Piromalli, il capo supremo della Piana. Una corona di fiori si distingue tra le altre: «Gli amici del New Jersey». Oggi Gioia e l’America non sono state mai così vicine. C’è un filo diretto con il porto calabrese, certo. Ma non si tratta solo di grandi navi cargo che dai porti statunitensi attraversano lo Stretto di Messina e raggiungono lo scalo di Gioia Tauro. C’è molto di più.

La colla che tiene insieme terre così distanti è il denaro, il business. I magistrati di Reggio Calabria seguendo Antonio Piromalli, i suoi affari dentro Copam e all’interno dell’ortomercato di Milano, si sono trovati davanti a un personaggio italo-americano di nome Rosario Vizzari. Un imprenditore, Vizzari, che vive e lavora tra il New Jersey e New York. A lui fanno capo numerose società made in Usa, la più importante è la Global freight services Inc., accreditata, peraltro, presso la “Food and Drug amministration” per il settore del trasporto. In pratica fa import export e la sua attività è “omologata” dal governo Usa che impone uno standard preciso nel packaging della merce da spedire.

È titolare, inoltre, della Avant Garde Sales & Marketing inc, società di un certo peso. Tanto da interloquire con la Regione Basilicata. Dopo la retata contro i Piromalli, infatti, i giornali locali hanno raccontato di quel viaggio effettuato nel dicembre 2015 da una delegazione della Regione con in testa il presidente Marcello Pittella. Tra le tappe i locali della Avant garde (8 mila metri quadri di capannoni a Ramsey New Jersey). C’è persino una foto che ritrae il politico e l’imprenditore accusato di essere il prestanome dei Piromalli. «Poi comunque gli ho fatto vedere come lavoriamo», Vizzari ha informato subito il capo bastone Antonio Piromalli della visita,«insomma il lavoro che facciamo… Lui che andava guardando capannoni, non capannoni… “Ma qua”, disse. “Ma qua è tuo?” Gli dissi: “Si… qua tutto mio è!”».

Un vero insospettabile, Vizzari. Che il Ros dei carabinieri lo descrive così: «Dotato dai vertici della cosca di grande autonomia oltreoceano, attesa la sua ventennale residenza in America e la salda rete di contatti in suo possesso, tra Boston, Chicago, Miami, e naturalmente New York, ricevute le indicazioni del caso curava l’introduzione delle ingenti quantità di prodotti nel circuito della grande distribuzione degli Stati Uniti».

Piromalli, Vizzari e consorzio Copam, avevano in ballo un grosso affare per le mani. L’importazione negli Stati Uniti di partite di olio d’oliva. «Ha detto che prende altre 52 mila bottiglie», spiegava Vizzari al telefono con il boss Piromalli, aggiungendo che tutta la merce in magazzino è stata venduta, suscitando l’entusiasmo del padrino di Gioia: «Ma davvero?». Chi indaga e ascolta, però, è convinto che dietro tale commercio ci sia qualcosa di illegale, una truffa sulla qualità dell’olio.

La vendita dell’olio, di scarsa qualità come ammettono gli stessi indagati intercettati, avveniva con un meccanismo ben preciso. Il fornitore della materia prima avrebbe venduto a Copam che a sua volta lo avrebbe girato a Vizzari l’Americano. A mediare questi passaggi, sostengono gli investigatori sarebbe stata la P&P, società di Piromalli. Vizzari, in pratica, varrebbe continuato a comprare l’olio a 2,63 euro, mentre il boss conservava inalterati i suoi guadagni per le vendite in America. E inoltre avrebbe trattenuto dal fornitore mezzo euro per ogni litro venduto a Vizzari.

L’olio importato con le società di Vizzari finiva così nei supermercati degli Stati Uniti. Nelle carte dell’inchiesta ci sono i nomi dei colossi della grande distribuzione americana. Da Wallmart a Costco. La prima, per esempio, è la multinazionale statunitense, fondata da Sam Walton nel 1962. «È il più grande rivenditore al dettaglio nel mondo. Considerata la terza catena commerciale americana, la nona nel mondo» annotano i militari del Ros. Vizzari assicurava a Piromalli di essere in grado di rifornirli non solo di olio “Bel frantoio”, questo il marchio, ma anche di arance, mandarini e limoni prodotti dal consorzio calabrese in mano al clan. L’imprenditore calabro-americano è in contatto con vari intermediari in grado di piazzare i prodotti delle ‘ndrine sugli scaffali dei colossi statunitensi. Uno di loro è stato invitato persino in Calabria per valutare di persona la qualità della filiera produttiva. Contattato da L’Espresso subito dopo la notizia dell’indagine a suo carico, Vizzari ha preferito non commentare.

Che affare l’Ecuador

Dal profumo delle olive e della zagara ai miasmi dei rifiuti in Ecuador. Cambia il settore, mutano Paese e protagonista, ma ciò che resta e fa da sfondo sono i legami con la famiglia di Gioia Tauro. Questa volta è un avvocato a conquistarsi la scena. Si chiama Giuseppe Luppino. Negli anni ’90 è stato, per un brevissimo periodo, nella società di gestione dell’Aeroporto dello Stretto. Poi per sette anni, fino al 2008, ha ricoperto il ruolo di presidente del consiglio d’amministrazione nella Piana Ambiente, società partecipata dai comuni dell’area che si occupava di raccolta dei rifiuti.

Luppino è secondo due collaboratori di giustizia un professionista nell’orbita delle cosche e persino un massone. I pentiti lo accusano di essere legato a entrambe le cosche che hanno dominato insieme la Piana per cento lunghi anni: i Piromalli e i Molè, uniti da un’alleanza secolare, poi interrotta bruscamente. I Molé sono stati  a lungo considerati il braccio militare dei primi. L’avvocato non è né indagato né è stato coinvolto nell’inchiesta Provvidenza. La sua figura è, però, presente negli atti dell’indagine. Il nome Luppino, infatti, compare nei verbali dei pentiti che indicano il Venezuela e l’ Ecuador come basi degli interessi dell’avvocato.

E in effetti da alcuni documenti consultati da L’Espresso emerge il grande business legale di Luppino: rifiuti e impianti biogas con una società dell’Ecuador controllata fino a due anni fa una seconda azienda con sede a Padova, la Gasgreen Group, del gruppo Rossato, leader nel settore dei rifiuti. Della Gasgreen italiana Luppino è stato consigliere dal 2011 al 2015. Nello stesso periodo tra i consiglieri compariva anche Sandro Rossato, indagato per mafia, poi assolto nel 2008, e sei più tardi finito di nuovo in una nuova inchiesta antimafia della procura di Reggio Calabria sul sistema dei rifiuti nella città dello Stretto.

L’italiana Gasgreen ha avuto per molti anni il controllo, 67 per cento di quote, della società dell’Ecuador Gasgreen S.A. Il restante 33 per cento, risulta da documenti ufficiali governativi dell’Ecuador, è stato a lungo in mano proprio a Luppino. Poi nel 2014 inizia la dismissione delle quote che facevano capo all’azienda padovana. Titolare del 98 per cento diventa la Ingepa Panama SA del gruppo spagnolo Ingeconser, mentre l’avvocato di Gioia possiede il 2 per cento e ricopre la carica di presidente. La società ha un capitale sociale di oltre 2 milioni di dollari. E continua a lavorare per il pubblico. Numerosi, infatti, i contratti stipulati con l’Empresa publica de gestion integral de residuos solidos, in pratica l’ente pubblico di Quito che si occupa di rifiuti. A partire dal 2010 Gasgreen Sa si è occupata del trattamento del biogas prodotto nella discarica di El Inga, 53 ettari di buche a 39 chilometri dalla capitale ecuadoregna, dove arrivano 2 mila tonnellate al giorno di spazzatura varia.

Inoltre il 22 agosto 2016 ha tagliato un altro ambizioso traguardo: una centrale di produzione elettrica a biogas di 5 MW. Un progetto approvato dal «Consejo sectorial de la producion», una sorta di commissione interna al ministero della «Produccion, Empleo y Competitividad». Valore dell’investimento di poco superiore ai 6 milioni di dollari, ripartito tra Gasgreen, 55 per cento, e il restante 45 per cento tra non meglio precisati «finanziamenti locali e stranieri».

I documenti ufficiali dell’accordo indicano un preciso cronoprogramma degli investimenti: nel 2015 i primi 2 milioni di dollari, l’anno successivo un’altra quota e nel 2017 lo stanziamento finale di 1 milione e 227 mila dollari. Nell’atto di approvazione viene sottolineato anche che la centrale permetterà di assumera fino a 20 persone e che per questo motivo alla società saranno concessi forti sgravi fiscali, anche sulle importazioni.

Gli affari sudamericani dell’avvocato che i pentiti accostano al clan Piromalli vanno avanti da moltissimo tempo. I boss pentiti sostengono che lì può contare su amicizie importanti. Dichiarazioni tutte da verificare. Di certo, invece, c’è che Luppino è attivo nel settore rifiuti in Ecuador almeno dal 2010. Da quando, cioè, anche la Gasgreen padovana dei Rossato ha iniziato a operare in una delle discariche più grandi del Paese sudamericano. «Greengas, buenos dias», risponde una ragazza molto gentile alla sede centrale della società a Quito. Chiediamo se l’avvocato Luppino è lì, «no è all’estero, torna tra un mese». Chiediamo allora il cellulare, «certo…». Purtroppo, però, neppure tramite cellulare siamo riusciti a parlarci. Volevamo chiedere all’avvocato Luppino come è nata l’idea dell’investimento a Quito e capire come mai proprio quello Stato. E, infine, come risponde alle accuse dei pentiti.

Ma nel distretto della capitale ecuadoregna ci sono tracce di personaggi legati alla ‘ndrangheta fin dal 2005. Anche loro emigrati col pallino dei rifiuti. In un’informativa del Ros – in cui viene citato di nuovo Sandro Rossato al tempo in affari con gli uomini della cosca Alampi (accusa dalla quale poi è stato assolto) – il principale esponente di questo clan si vantava al telefono degli ottimi rapporti con l’amministrazione ecuadoregna dell’epoca(la telefonata è di 12 anni fa) e aggiornava il suo interlocutore sulla riunione avuta il giorno prima con il ministro dell’Ambiente. Sette anni dopo quell’intercettazione un uomo della stessa famiglia, Valentino Alampi, verrà arrestato proprio in Ecuador, dove era latitante e dove gestiva delle attività economiche legate al settore ambientale. Insomma, che affare l’Ecuador.