In una trionfalistica conferenza stampa il ministro dell’interno Maroni ha parlato di “svolta storica” e di un “nuovo metodo di affrontare l’immigrazione clandestina”. Il suo trionfalismo è non soltanto risibile, è anche agghiacciante se si pensa che è riferito non ad un carico di mercanzie avariate, ma ad esseri umani disperati che chiedono aiuto
I leghisti ci avevano già provato qualche anno fa con una proposta altrettanto storica: quella di sparare sui barconi e affondarli con tutto il loro carico umano. Costretto a rinunciare allora a quella brillante soluzione dell’immigrazione clandestina (per la verità avanzata dal suo capo Umberto Bossi), ora che è ritornato al governo della Repubblica e alla guida del ministero dell’interno, Roberto Maroni ha concluso un accordo, anche questo storico, con la Libia perché si riprenda i profughi che partono dalle sue coste e rischiano la vita sulle carrette del mare per arrivare nel nostro paese.
Le organizzazioni umanitarie, italiane e internazionali, prima tra tutte l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, hanno immediatamente protestato. Notizie di stampa e ampie testimonianze ci dicono che coloro che partono dalla Libia, dopo un viaggio che dura mesi di stenti dai loro paesi di origine, nell’attesa di imbarcarsi vengono sottoposti a vessazioni di ogni tipo da parte delle autorità libiche: estorsioni, violenze fisiche, stupri. Riportati dalla nostra marina militare in quello stesso paese, vi è ogni ragione di ritenere che verranno trattati nello stesso o peggiore modo, per finire in qualche lager nel deserto libico e scomparire così agli occhi del benevolo Occidente.
Disumano, sì, ma anche e soprattutto illegale. Maroni non ha bisogno di consultare il suo collega agli esteri per sapere che l’Italia è tra i firmatari della convenzione di Ginevra del 1951 (con il protocollo aggiuntivo del 1967), così come della convenzione contro la tortura del 1984. Non c’è bisogno di essere esperti di diritto internazionale per sapere che quelle convenzioni obbligano gli stati firmatari a rispettarne il testo, che è vincolante allo stesso modo di qualunque legge interna. Ora, la convenzione del 1951 impone alle autorità di uno stato l’obbligo di accogliere i rifugiati e i richiedenti asilo, definiti come persone “che hanno una fondata paura di essere perseguitati nel loro paese di origine a causa della religione, razza, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale o di opinione politica” (art.1, c. A). La convenzione distingue tra migranti per ragioni economiche, verso i quali non c’è obbligo di accoglienza, e rifugiati o richiedenti asilo, che si è obbligati ad accogliere.
E allora come si fa a sapere di chi si tratta? A prima vista non è possibile, ovviamente: si tratta in ogni caso di povera gente bisognosa di aiuto. Ma poiché la legge è legge, il governo italiano (come quelli di tutti i paesi civili del mondo) ha istituito una procedura per verificare se il richiedente asilo abbia davvero il diritto (non una benevola concessione, ma un diritto) di rimanere nello stato in cui arriva in base all’articolo 1 della convenzione. Le commissioni per il diritto di asilo operano a pieno ritmo già da diversi anni per fare questa cernita; con il risultato che a circa la metà dei richiedenti asilo è stata riconosciuto il diritto di rimanere nel territorio dello stato o è stata accordata una qualche protezione temporanea (art. 32 della convenzione).
Ma, si dirà, i profughi sono stati intercettati in alto mare, non sul territorio italiano, quindi la convenzione non si applica. Il mare è terra di nessuno, quindi lì io faccio come mi pare. Brillante furbizia! (all’italiana?), eccetto che la nave che li ha raccolti era una nave militare, appartenente allo stato italiano, a tutti gli effetti parte del suo territorio, e su di essa vigono le leggi italiane e le convenzioni stipulate dall’Italia.
In ogni caso la convenzione all’art. 33 vieta espressamente l’espulsione o il respingimento verso un paese dove la vita o la libertà del rifugiato possano essere messe in pericolo, prima che ne sia stato verificato – non dal governo, ma dall’autorità giudiziaria (art. 16) — il buon diritto a rimanere sul territorio dello stato di arrivo. Aggiunge anche una serie di clausole di favore per la concessione di un alloggio, per lo svolgimento di un’attività lavorativa, per l’ottenimento della cittadinanza, per il ricongiungimento familiare – tutte cose da libro dei sogni, ampiamente disattese dall’attuale come da precedenti governi.
Non basta. A queste norme si aggiungono quelle della convenzione contro la tortura del 1984 (firmata dall’Italia) che all’art. 3 proibisce il “refoulement”, cioè il respingimento “di una persona verso uno stato dove vi siano fondate ragioni di ritenere che possa essere sottoposto a tortura” e precisa che la norma si applica non solo allo stato di arrivo, ma a qualunque altro stato dove “la persona possa essere respinta, espulsa o estradata”.
Questo è precisamente ciò che è successo e può succedere in Libia, dove esistono motivi più che fondati che i profughi possano essere torturati o minacciati nella loro vita o libertà. Non solo perché il regime libico è quello che è, ma anche e soprattutto perché la Libia è uno dei pochi paesi del pianeta a non avere firmato né la convenzione sui rifugiati del 1951, né quella sulla tortura del 1984, e quindi non è obbligata, neppure formalmente, a rispettarle.
Ma l’Italia sì. Pensavamo che con la fine dell’amministrazione Bush fosse stato posto un freno all’illegalità internazionale. Dobbiamo mestamente prendere atto che in Italia il suo epigono Berlusconi ne ha raccolto il testimone.
Randolph Ash
(Tratto da www.aprileonline.info)