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L’idea che non muore mai

L’idea che non muore mai

L’inchiesta sui giudici: è ora di essere chiari per uscire dal guado, anche perché in certe situazioni non sono ammesse difese corporative di alcun tipo, essendo innegabile che all’interno della magistratura e dei suoi organi rappresentativi si manifestano talvolta condotte incompatibili con il codice deontologico dell’associazione o, addirittura, previste come reati dal codice penale, frutto spesso di contiguità politiche

03 GIUGNO 2019

DI ARMANDO SPATARO

Per ovvie ragioni le riflessioni che seguono non riguardano il merito del caso Palamara – di cui si occupano la Procura di Perugia, il Csm e i titolari dell’azione disciplinare – ma le sue ricadute sull’immagine della magistratura e dell’Associazione magistrati, nonché le ipotesi di riforma ordinamentale che strumentalmente sono state subito messe in campo.

Tra i magistrati circolano sconcerto e rabbia, essendo tutti consapevoli che le conversazioni e gli incontri di cui si parla in questi giorni costituiscono quanto meno le specchio di relazioni personali a dir poco improprie e di interessi di singoli, di correnti e di esponenti di partiti che si intrecciano al di fuori degli ambiti istituzionali.

Immediati e prevedibili sono stati i conseguenti attacchi alla Associazione nazionale magistrati e alle sue “correnti” descritte quali aggregazioni di potere senza ideali, che agiscono per favorire i rispettivi iscritti nelle nomine e nelle progressioni in carriera, condizionate da amicizie, localismi geografici e permeabilità a pressioni politiche. Si invoca, per porvi rimedio, la trasparenza piena delle motivazioni di ogni scelta consiliare pur se a tal fine non basta certo la pubblicità delle sedute delle Commissioni consiliari, inidonea a far emergere possibili influenze esterne

Di qui le proposte di modifica della legge elettorale per evitare – si dice – che i 16 magistrati eletti dai loro colleghi quali componenti del Csm siano semplici esecutori delle direttive dei gruppi di rispettiva appartenenza.

È giunto il momento, allora, di essere chiari per uscire dal guado, anche perché in certe situazioni non sono ammesse difese corporative di alcun tipo, essendo innegabile che all’interno della magistratura e dei suoi organi rappresentativi si manifestano talvolta condotte incompatibili con il codice deontologico dell’associazione o, addirittura, previste come reati dal codice penale, frutto spesso di contiguità politiche.

Ma se ciò è inaccettabile, non è facile comprendere come oggi sia possibile, persino per molti magistrati, dimenticare i valori e i fini che furono alla base, nel 1909, della fondazione dell’Associazione generale magistrati italiani (come allora si chiamava), capace di autosciogliersi, alla fine del 1925, per il rifiuto di trasformarsi in sindacato fascista. L’Agmi lo annunciò sulla sua rivista con un editoriale dal titolo “L’idea che non muore”. Quei valori (a partire da indipendenza assoluta, indifferenza alle aspettative della politica, professionalità, attenzione al pubblico interesse e ai diritti di tutti) vanno oggi posti nuovamente in primo piano: devono vincere sulle aspirazioni personali e sulle rivendicazioni economico-sindacali della magistratura. Persino l’uso della definizione di “sindacato delle toghe” è un modo per intaccare l’autorevolezza dell’Anm.

Ma ciò non significa affatto disconoscere il valore culturale e la funzione democratica delle correnti. I magistrati, infatti, hanno il diritto di interloquire sul funzionamento della giustizia, sulla sua organizzazione, sulla difesa della propria indipendenza: è meglio nominare un dirigente più anziano o uno più dinamico e capace (vecchio tema di discussione)? È meglio privilegiare la specializzazione o la pluralità delle esperienze professionali?

È giusto aprire la formazione professionale alle esperienze esterne alla magistratura? E – passando alle valutazioni dei disegni di legge – è accettabile che in nome della sicurezza si sacrifichino i diritti fondamentali delle persone? È logico, dunque, che al momento di eleggere i componenti del Csm il magistrato elettore voglia conoscere le opinioni dei candidati che, a loro volta, non possono che aggregarsi per omogeneità di vedute e di programmi, con o senza sigla. Sono le regole fondamentali della democrazia. Ecco perché all’interno dell’Associazione magistrati si sono formate le tanto vituperate correnti: luoghi di condivisioni ideali, delle quali va contrastata non la ragion d’essere, ma la deriva corporativa.

Certo, non si deve trascurare quanto emerso in questi giorni ma, al di là delle indagini penali e disciplinari da svolgersi nel rispetto dei diritti di tutti, la soluzione di simili problemi sta nel pretendere che i magistrati, a partire dai più giovani, esercitino il diritto di voto in modo consapevole, premiando gli sforzi di chi si adopera – nel Csm, nell’associazione e nel suo lavoro quotidiano – nell’interesse dei cittadini e della giustizia, anziché del gruppo di appartenenza.

Si deve però chiedere a politici, studiosi e a chi osserva la realtà che ci circonda di evitare ingiustificate generalizzazioni e strumentalizzazioni delle criticità nel tempo emerse. Si avrà modo di tornare sulla separazione delle carriere, nonché sui test psicologici per i magistrati, rispettivamente la più inutile e la più comica delle riforme immaginabili (di entrambe si parla pure in questi giorni), ma auspicare il sorteggio – immagino ad opera di una dea bendata che infili la mano libera nell’urna – per designare i componenti del Csm è proposta illogica, di segno qualunquistico e sicuramente anticostituzionale.

Se accolta, porterebbe ad annullare la rappresentatività della magistratura che i padri costituenti vollero per il Csm, in quanto organo di autogoverno, finendo con l’umiliare proprio l’elettore e la sua dignità. E si potrebbe anche scommettere, in tempi di “giustizia predittiva” (il nuovo “verbo” dilagante anche tra molti magistrati), che qualcuno arriverebbe ad invocare, nel Csm, i robot al posto degli eletti o sorteggiati, salvo accusarli di degenerazione correntizia alla prima occasione di malfunzionamento del software.

 

Fonte:https://rep.repubblica.it/