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L’eterno latitante Messina Denaro: “Le protezioni della massoneria deviata”

Il Fatto Quotidiano, 16 Luglio 2020

L’eterno latitante Messina Denaro: “Le protezioni della massoneria deviata”

Dalle indagini emerge un profilo tutto nuovo del “fantasma” Messina Denaro: capelli neri, magro, stempiato, e non più “affetto da strabismo”. Veste pantaloni con le pences, indossa solo camicie e scarpe di marca. Ma emergono anche i rapporti con uomini legati alle logge deviate

di Giuseppe Lo Bianco

Le indagini dicono che Bernardo Provenzano andava in giro travestito da prete per i conventi del messinese, i sussurri palermitani raccontano che Totò Riina si camuffava da venditore di meloni nel centro di Palermo per incontrare i suoi interlocutori alla luce del sole, le intercettazioni tra le mogli di due collaboratori di Giuseppe Grigoli, condannato (e confiscato) re dei supermercati, rivelano che Matteo Messina Denaro (MMD) a Castelvetrano camminava “camuffato”.

Anche da donna? L’ultima provocazione l’ha lanciata tre anni fa Klaus Davi, trasformando MMD in una lady, Ray Ban a goccia, foulard rosa al collo e lunghi capelli biondi: così appariva, sotto il titolo “Matteo dove sei? Il travestimento uno stratagemma per scappare”, nei manifesti affissi per le strade delle principali città italiane che hanno allarmato le Prefetture, come ha rilevato il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, che nel suo libro Cosa Nostra spa la definì “un’azione frontale in antitesi all’atmosfera paludata e fighetta della falsa antimafia”. Travestimento, quello di un boss in cui molti hanno riconosciuto MMD, che compare anche nel film di Robertò Andò Una storia senza nome, e, più esplicitamente, nel libro del generale dei carabinieri Nicolò Gebbia (che ai colleghi ha fornito preziose indicazioni per la cattura di Messina Denaro, poi disattese), Un Caravaggio in salotto, in cui la narrazione viene spinta oltre il camuffamento, fino ad ipotizzare un vero e proprio rapporto omosessuale del boss latitante con un noto (e riconoscibile) presentatore televisivo. Nella provocazione di Davi, scrive Ardita, c’è “il tentativo di trascinare i boss sul terreno dell’onore personale per porli nell’alternativa tra la natura violenta e orgogliosa di una possibile reazione e un profittevole silenzio”. Prevalse il secondo, con la sola, singolare, coincidenza temporale della sostituzione, nel salotto di casa Messina Denaro, a Castelvetrano, di un anonimo quadro raffigurante un giovanetto con una brocca sulle spalle con l’icona pop del latitante, occhiali fiammeggianti e corona in testa.

Nelle più crude (e reali) carte giudiziarie MMD è un “fantasma” dai capelli neri, magro, stempiato, e non più “affetto da strabismo”: veste pantaloni con le pences, indossa solo camicie di marca acquistate nel negozio Dell’Oglio, a Palermo, insieme alle scarpe Alexander, reperibili anche nel punto vendita “Stefania Moda”, a Trapani. I suoi “postini” si muovono “con una bici elettrica” in un paese, Castelvetrano, dove una serie di “cunicoli sotterranei che dai bagni pubblici delle piazze conducono sotto terra ad una chiesa sconsacrata”. Quest’ultimo identikit risale ad un’informativa del Ros di un paio d’anni fa, e neanche il periodo più controllato del dopoguerra, con l’emergenza Covid della primavera scorsa, ha scalfito la latitanza del boss che dura da 26 anni: quasi diecimila albe e tramonti vissuti fuori dalle sbarre di una cella grazie a inossidabili coperture, a cominciare dalla protezione di un territorio che lo ha eletto a mito, per convinzione connivente o necessità economica: “Matteo torna, abbiamo bisogno di soldi” recitavano fino a qualche anno fa i manifesti affissi per le strade di Castelvetrano, recentemente sostituiti dal cartello appeso in centro: “Matteo, sei un pezzo di merda”. Negli ultimi dieci anni magistrati e investigatori gli hanno fatto, come si dice, “terra bruciata”, arrestandogli tutti i familiari più stretti, e poi i parenti, i nipoti, i cugini, i cognati, gli amici, ma è servito a poco: “Per lui non è una strategia adeguata, l’ho capito dopo un po’ di tempo – ha ammesso ai commissari dell’Antimafia il procuratore aggiunto Teresa Principato – pensavo che questo potesse suscitare nell’uomo una reazione, ma l’uomo non è un uomo normale, è un uomo molto freddo, molto particolare”. “Geraci (Il collaboratore, ndr) – ha detto il pm Paci nella sua requisitoria – lo vide piangere perché il padre era gravemente malato, fu l’unico momento di commozione”. Lo protegge la massoneria, “argomento molto scivoloso” – sostiene la Principato, che all’antimafia rivela di avere ricevuto “molte lettere da parte di massoni ufficiali, che mi hanno rimproverato aspramente per il fatto che mi occupassi di massoneria (tra l’altro di massoneria deviata) e dessi una connotazione negativa del fenomeno”.

Nella terra delle logge segrete, in cui mafiosi e massoni vanno a braccetto, ad indagare sul ruolo di compassi e grembiuli, negli anni ’80, era stato a Trapani il commissario Rino Germanà, “che chiamava spesso Matteo MD in ufficio e lo faceva aspettare per ore – ha detto il pm Paci durante la requisitoria del processo per le stragi – per poi chiedergli notizie sugli affari del padre, sulla guerra di mafia di Partanna, e sia sulla loggia massonica che aveva rapporti inconfessabili con mafiosi della provincia e con Luigi Savona (anziano massone, Gran Maestro della loggia Ciclopi di Torino, ndr) che aveva contatti con Giovanni Bastone, braccio destro di Mariano Agate, sia sugli affari a Malta che si intrecciavano con gli affari dei Burzotta”. E quello di Savona, su cui, come ha rivelato Germanà, indagò anche l’allora capitano dei carabinieri Gebbia, è un nome che rimanda alle stagioni eversive degli anni ’70: tenente nelle SS italiane, poi coinvolto nelle indagini a Torino sul golpe bianco” di Edgardo Sogno e sulle deviazioni del Sid, di lui parlò il collaboratore Luigi Ilardo prima di finire ucciso a Catania: al colonnello dei carabinieri Michele Riccio raccontò di una riunione nel ’77 a Palermo tra protagonisti della società bene del tempo con i boss catanesi, Nitto Santapaola, Pippo Calderone, cui partecipò, disse, anche, Savona e Gianni Ghisena, quest’ultimo ”in contatto con i servizi segreti”. Per contattare Savona, ha ricordato in aula al processo per il depistaggio di via D’Amelio il 17 gennaio del 2019 il commissario Germanà, la famiglia mafiosa di Mazara guidata da Mariano Agate utilizzava un ristorante di Palermo, la Cuccagna, di proprietà di un massone in sonno, Francesco Paolo Sammarco, frequentato anche da questori e funzionari del Viminale “nonostante avesse una cucina pessima”, ha detto il vice questore Gioacchino Genchi. E la “primula rossa” MMD? Se in aula il pm Paci ha ricordato le parole dei pentiti catanesi Filippo Malvagna e Maurizio Avola, che rivelarono un “tentativo di aggiustamento del processo da parte di Matteo Messina Denaro con il ricorso alle contiguità massoniche”, nell’udienza di apertura della requisitoria ha citato il notaio Pietro Ferraro, massone di livello con solidi agganci a Castelvetrano, condannato a 5 anni, che intercettato dalle microspie di se diceva: “Mi muovo solo per Totò Riina, lo voglio bene come un padre”. Il notaio cercò di “aggiustare” il processo per l’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile presentandosi a casa del Presidente della corte di assise, Salvatore Scaduti, a nome di un politico di area manniniana, poi identificato nel senatore Enzo Inzerillo. Ma Scaduti non si lasciò intimidire e denunciò tutto. Su quella vicenda indagò a lungo Germanà, unico investigatore sopravvissuto al fuoco dei kalasnykov imbracciati dal ghota dei killer di Cosa Nostra. “Cercarono di aggiustare (il processo, ndr) fino al giorno prima della camera di consiglio – ha detto Paci – Germanà è tra i più coraggiosi, Borsellino lo vuole riportare con se e va a ficcare il naso sulla vicenda del notaio Ferraro. Inzerillo è uomo dei Graviano in Parlamento e discuteva con MMD e Graviano se continuare o meno a fare le stragi. Se non capiamo questo verminaio, (il processo, ndr) nasce in salita”. Fu Germanà a scoprire (e a confermare in aula, al processo per depistaggio di via D’Amelio) che il notaio di fiducia di Francesco Messina Denaro, padre di Matteo, era proprio Ferraro, che negli anni ’70, a Menfi, stilò la compravendita di una R4. “Quella generazione di investigatori venne rasa al suolo o perché mascariata e costretta ad emigrare in attesa di avere una riconsacrazione per le ingiuste accuse – ha detto Paci – quelle persone sono vive per miracolo, Germanà e Misiti dovevano fare la stessa fine. Altri dovevano essere fatti fuori bruciandogli la carriera. allontanati…questa era la provincia di Tp dove c’erano le logge massoniche”.

2-continua