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L’ergastolo ostativo

L’ergastolo ostativo

DI PAOLA SEVERINO

La richiesta di revisione dell’ergastolo ostativo formulata dall’Avvocatura dello Stato alla Corte Costituzionale può essere meglio compresa e valutata solo se si chiariscono almeno 4 punti: quali sono i presupposti dell’ergastolo ostativo; quale è il quesito sottoposto al Giudice delle leggi; quali sono le ragioni portate da chi sostiene il permanere del regime cui si ispira questa misura antimafia; quali sono le ragioni addotte da chi ne propone la modifica.

Quanto al primo punto, l’ergastolo ostativo deriva la sua denominazione dal fatto che la mancata collaborazione del condannato con la giustizia è considerata come un ostacolo all’accesso ai benefici penitenziari, tra cui appunto la liberazione condizionale. L’istituto, che trovò la sua configurazione più completa nel 1992, subito dopo la strage di Capaci, ha subìto alcune modifiche, dovute ad interventi della Corte Costituzionale, ma è rimasto identico quanto al regime della liberazione condizionale. La sentenza modificativa più importante è stata quella del 2019 (n.253), con cui si è prevista l’ammissione dei condannati per i più gravi reati di mafia al godimento di permessi premio, anche in assenza di collaborazione, a condizione però che siano acquisiti “elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali”.

Sul secondo punto, l’Avvocatura dello Stato, pur non chiedendo alla Corte di dichiarare incostituzionale la norma che preclude ai condannati all’ergastolo ostativo la liberazione condizionale se non collaborano, ha prospettato alla Consulta una possibile chiave interpretativa della norma, suggerendo l’eliminazione dell’attuale automatismo nel considerare la collaborazione l’unica forma di ravvedimento utile ad ottenere la liberazione condizionale, affidandone invece la valutazione caso per caso al Giudice di Sorveglianza.

Non è difficile a questo punto immaginare quali saranno le obiezioni di chi è contrario alla modifica di questo regime. In primo luogo, potranno essere addotte motivazioni di politica criminale, come è già stato fatto da quella parte della magistratura antimafia che paventa l’indebolimento del sistema di contrasto alle organizzazioni criminali ideato e voluto da Giovanni Falcone. Poi verranno riprese le argomentazioni tradizionalmente addotte da chi ritiene che la collaborazione con la giustizia rappresenta il solo modo per recidere i collegamenti con l’associazione criminale e da chi sostiene che nella attuale regolamentazione non esiste alcun automatismo, poiché l’esito finale è rimesso ad una decisione del condannato (se collaborare o meno).

Né è difficile ipotizzare i motivi che verranno addotti a sostegno della modifica dell’attuale regime. In primo luogo, si riprenderà il tema, già presente in una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sul significato non univoco della collaborazione, in quanto non sintomatica di per sé dell’avvio di un percorso rieducativo, ma magari legata a mere valutazioni opportunistiche. Inoltre, si argomenterà che affidare ad un comportamento di collaborazione il compito esclusivo di testimoniare il taglio dei legami con l’organizzazione criminale di riferimento potrebbe impedire al Tribunale di Sorveglianza di valutare attraverso altri indici il percorso di riabilitazione del detenuto.

La serietà degli argomenti che si possono invocare a fondamento dell’una o dell’altra soluzione mostra quanto sia difficile il compito affidato alla Corte. La sua decisione dovrà trovare un difficile equilibrio tra esigenze di difesa sociale e limiti costituzionali al regime carcerario. Essa inoltre dovrà stabilire se rientri nei propri poteri una interpretazione della norma che ne potrebbe amputare una parte, ovvero se questo sia compito del legislatore, previa dichiarazione di illegittimità costituzionale. Una decisione, anche questa, difficile da prendere perché lascerebbe un temporaneo vuoto normativo.

Si tratta dunque di un compito davvero fondamentale per l’immagine pubblica e per il futuro assetto normativo del Paese, in una materia, quella della lotta alle mafie, in cui l’Italia è diventata un modello di ispirazione per la legislazione mondiale. È auspicabile, quindi, che la Corte possa svolgerlo nella serenità necessaria e fuori da qualunque contesto di strumentalizzazione che nuocerebbe soltanto al già tormentato panorama della Giustizia.

Paola Severino, Vice Presidente Luiss Guido Carli

Fonte:https://rep.repubblica.it/