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Lectio magistralis del Procuratore Nazionale Antimafia Dr. Grasso all’Ist. Sup. di Tecniche Investigative Arma Carabinieri

Istituto Superiore di Tecniche Investigative dell’Arma dei Carabinieri

Lectio magistralis del Procuratore Nazionale Antimafia:

Il contrasto alla criminalità mafiosa: lo stato della criminalità in Sicilia dopo l’arresto dei vertici di cosa nostra

La criminalità organizzata ed in particolare la mafia è stata spesso rappresentata come una piovra dai mille tentacoli o un cancro della società.

In verità, come affermava Falcone, la mafia non è ne una bestia misteriosa, né una malattia inguaribile. E’costituita da precise organizzazioni composte da uomini, che accumulano danaro, che pongono in essere traffici criminali, che intrecciano rapporti con l’economia, la finanza, la politica e con altre componenti sociali,.

Allora bisogna smantellare le organizzazioni, arrestare gli uomini, sequestrare e confiscare tutte le ricchezze, intervenire efficacemente sui traffici, distruggere le alleanze.

Cosa nostra è l’organizzazione mafiosa per eccellenza, nel senso che sul suo originario modello, sul suo metodo e sulle sue peculiari caratteristiche, che di seguito approfondirò, si è costruita una tipologia utilizzata per definire anche le altre organizzazioni tradizionalmente insediate in alcune regioni del nostro Paese.

La mafia siciliana, Cosa nostra, rispetto alle altre similari organizzazioni, ha delle caratteristiche peculiari, che possono riconoscersi in una struttura unitaria, verticistica, capace di imporre direttive e strategie, che esercita un esasperato controllo del territorio, non disdegnando la ricerca del consenso nell’ambito di un profondo radicamento sociale, col fine ostentato di una partecipazione al potere tramite un interessato rapporto con entità esterne, amministrazioni locali e con la politica.

Sarebbe, d’altronde, del tutto fuorviante e riduttivo tentare di spiegarne la secolare continuità limitandosi a considerarla con esclusivo, o principale, riferimento alla sua, pur violentissima, componente criminale.

La mafia in un passato non tanto lontano è stata una modalità di gestione del sistema di potere e la sua violenza è stata legittimata da una secolare storia di impunità. I nemici erano coloro che mettevano in forse l’assetto di potere e contro di loro ogni mezzo era buono, purché ottenesse lo scopo di eliminarli fisicamente o delegittimarli.

Negli anni ’80 e ’90 la violenza mafiosa era andata oltre i limiti consentiti, colpendo uomini delle istituzioni, alcuni dei quali tanto noti da essere assurti a eroi dell’immaginario collettivo. Una pluralità impressionante di stragi ed omicidi c.d. eccellenti di appartenenti alla polizia giudiziaria, sia dell’Arma dei Carabinieri che della polizia di Stato, magistrati, prefetti, politici, giornalisti, imprenditori, persino sacerdoti, hanno fatto qualificare la sua azione come terrorismo mafioso, proprio per il carattere eversivo riscontrato in un così violento e continuo attacco a rappresentanti delle istituzioni ed a vittime innocenti.

La storia di Cosa Nostra negli ultimi trent’anni è storia di misteri irrisolti. In molti casi le rivelazioni dei pentiti, le inchieste, la celebrazione dei processi hanno chiarito solo in parte l’esatto svolgimento dei fatti. Si può affermare che non c’è mai un omicidio di mafia, commesso al di fuori delle dinamiche interne dell’organizzazione, chiarito in tutte le sue componenti: mandanti interni all’organizzazione, mandanti esterni, esecutori materiali e causali, talvolta plurime, del fatto criminale. E spesso, anche per effetto di questa imprecisione giudiziaria, é prevalsa l’intuizione che Cosa Nostra, in certi casi, altro non sarebbe stata che il braccio armato di poteri occulti in grado di indicare ai mafiosi questioni d’affari o politiche da risolvere, strategie da perseguire, bersagli da colpire. Fra una giustizia dimezzata, quanto ai risultati raggiunti, e una rappresentazione mediatica dietrologica e talvolta troppo fantasiosa, esistono ancora tanti vuoti da colmare, tante verità da ricercare.

Ogni ricostruzione di mafia contiene in sé, quasi inevitabilmente, il suo punto debole. Ad esempio, i delitti Mattarella e La Torre hanno un’alta carica di interesse politico: due politici, di altissimo livello, che consideravano la Sicilia come un possibile laboratorio di nuove esperienze all’insegna della trasparenza. Con la eliminazione fisica di questi due uomini si risolsero d’un sol colpo, tanti problemi che era troppo lungo e complicato risolvere con le logiche e coi tempi della politica e del compromesso.

L’omicidio, dunque, come soluzione anche delle difficoltà della politica. Questa è la grande specificità della situazione palermitana: nessun altro paese ha visto tanti vertici istituzionali decapitati. Ma sarebbe riduttivo affermare che ciò accadeva solo perchè quegli uomini si opponevano all’organizzazione mafiosa. Si opponevano sì all’organizzazione, ma come facente parte di un sistema di potere che è qualcosa di più della semplice organizzazione criminale. Mafia ed altre entità esterne, insomma, si ritrovavano spesso ad avere una coincidenza di interessi.

Il delitto, quindi, era un modo di risolvere anche il problema di un sistema di potere messo in crisi nel suo complesso.

Possiamo arrivare alla conclusione che Cosa Nostra, pur avendo sempre avuto interessi propri, è stata contemporaneamente portatrice di interessi altrui. Entità esterne, almeno in tantissime occasioni, hanno armato la sua mano. Non bisogna infatti presupporre una diversità fra Cosa Nostra e gli altri poteri: i confini molto spesso si confondono.

La convivenza fra Cosa Nostra e il sistema di potere, è molto di più che una semplice ipotesi investigativa. Ecco perché considerare Cosa Nostra un antistato è sempre stato un errore grossolano, così come lo stereotipo del vuoto di Stato, in cui ha avuto la possibilità di infiltrarsi e prendere posizione.

Da un lato Cosa Nostra è fuori e contro lo Stato, perché non ne accetta le leggi, cercando di imporre le proprie regole, dall’altro è dentro e con lo Stato, attraverso le relazioni esterne con suoi rappresentanti della società e delle istituzioni infedeli ed interessati.

Questo è il quadro generale. Questo è il filo conduttore di tante trame.

Nella motivazione della sentenza di primo grado, da me redatta come giudice “a latere” della Corte d’Assise del maxi-processo contro la mafia, a proposito dei cosiddetti omicidi eccellenti, con riferimento alla “contiguità” di determinati ambienti imprenditoriali e politici, che ponevano in luce il vero volto della mafia, sin da allora così scrivevo:

“È lecito supporre che per tali omicidi si sia verificata una singolare coincidenza, ovvero, cosa più probabile, una deliberata convergenza di interessi, rientranti tra le finalità terroristico-intimidatrici dell’organizzazione, ed interessi connessi alla gestione della “cosa pubblica”. Tale ultima ipotesi, se esatta, presuppone un intricato intreccio di segreti collegamenti tra i detentori delle rispettive leve del potere politico e mafioso, che vanno, certamente, al di là della prospettata “contiguità”.

Prendiamo un altro esempio: Falcone era certamente il nemico numero uno di Cosa nostra, ma era anche avversato, specie negli ultimi momenti della sua vita, da tanti centri di interessi, al punto da divenire un magistrato scomodo. L’Italia degli affaristi, degli intrallazzi, della corruzione e degli eterni compromessi, non ha mai accettato la figura di un magistrato impegnato nel recupero globale della legalità. Falcone era molto di più di uno dei tanti magistrati italiani integerrimi. Stava diventando il promotore di una stabile e concreta strategia globale antimafia. Detestava la logica dell’emergenza. Riteneva che il fenomeno andava affrontato con misure che rendessero permanente la straordinarietà dell’intervento, attraverso nuove strutture altamente specializzate di coordinamento delle indagini sia nell’ambito della magistratura che della polizia giudiziaria. Falcone non si sarebbe mai accontentato di un ridimensionamento dell’ organizzazione mafiosa. Il suo obiettivo era aggredire proprio quella specificità che faceva di Cosa Nostra uno dei soggetti che partecipava al sistema di potere. Ecco perché la sua presenza era ingombrante proprio per il potere. Ecco perché non furono solo i mafiosi a sentirsi danneggiati dalla sua azione passata e presente, nonché insidiati dalla sua attività futura. Identica opinione può sostenersi per Borsellino, chiamato a raccoglierne la pesante e pericolosa eredità.

Del resto il terrorismo-mafioso ha trovato più volte definitiva consacrazione in sentenze, divenute irrevocabili, nelle quali è stato riconosciuto il carattere “eversivo” assunto dalla criminalità organizzata in talune occasioni: possono ricordarsi, ad esempio, quelle emesse relativamente alla strage al treno rapido 904 Napoli-Milano del 23.12.1984, in ordine alla quale emersero commistioni fra cosa nostra e camorra e la destra eversiva napoletana nonché, in tempi più recenti, le sentenze relative alle stragi avvenute in Roma, Firenze e Milano nel 1993 e 1994.

Del resto, Cosa Nostra ha una propria strategia che può, in senso generale e astratto, con le dovute precisazioni, definirsi politica. L’occupazione e il governo del territorio in concorrenza con le autorità legittime, il possesso di ingenti risorse finanziarie, la disponibilità di un esercito clandestino e ben armato, il programma di espansione illimitata, tutte queste caratteristiche ne fanno un’organizzazione che si muove secondo logiche di potere e di convenienza, senza regole che non siano quelle della propria tutela e del proprio sviluppo.

La strategia politica di Cosa Nostra non è mutuata da altri, ma imposta agli altri con la corruzione e la violenza.

Si potrebbe osservare che non sempre sono necessarie l’imposizione, la corruzione e la violenza; spesso la strategia politica mafiosa si fonda sull’interazione e sul consenso, frutto della comunanza di interessi e della condivisione di codici culturali.

I mafiosi affiliati a Cosa nostra e ad altre associazioni similari sono poche migliaia e quasi tutti con un bagaglio culturale molto scarso; sia per le attività illegali complesse, come i traffici di droghe e di armi, il riciclaggio del denaro sporco, e ancor più per le attività legali, a cominciare dagli appalti di opere pubbliche, la cooperazione di vari soggetti, appartenenti alle classi medio-alte e comunque meglio dotati sul piano delle conoscenze e delle esperienze, è assolutamente indispensabile.

Immaginate analfabeti o semianalfabeti come Totò Riina e Bernardo Provenzano cimentarsi da soli e con altri loro pari con i traffici internazionali, con il riciclaggio dei capitali, con gli investimenti, con le speculazioni in borsa.

Per quanto riguarda l’evoluzione storica, rispetto allo stereotipo mafia vecchia – mafia nuova, secondo cui a una mafia rispettosa delle regole e delle istituzioni si sarebbe in certi momenti avvicendata una mafia eversiva e stragista, è più vicino alla realtà ricostruire lo sviluppo del fenomeno mafioso, come del resto di tutti i fenomeni di durata, come un intreccio di continuità e trasformazione-innovazione, per cui convivono la persistenza di alcuni aspetti, come, da un lato, la signoria territoriale ed il rispetto delle strutture tradizionali, e dall’altro, l’elasticità e la capacità di adattarsi ai mutamenti del contesto sociale ed economico e di coglierne le opportunità.

Nelle formulazioni di uso comune i rapporti tra mafia e contesto sociale vengono letti nell’ottica separatezza-infiltrazione (si parla infatti di mafia e economia, mafia e potere, mafia e politica, mafia e istituzioni ecc.), come se si trattasse di mondi diversi, in contatto tra loro per una sorta di disfunzione patologica. Bisogna rifuggire da una duplice tentazione: la generalizzazione (per cui tutto è mafia: capitalismo, Stato ecc. = mafia) e il riduzionismo, che considera impraticabile qualsiasi tentativo di analisi complessiva.

In Sicilia, secondo recenti rilevazioni, i gruppi criminali di tipo mafioso conterebbero circa 5.500 affiliati, cioè lo 0,11% della popolazione, che ammonta a circa 5 milioni (uno su mille). Una battaglia uomo ad uomo non avrebbe storia e allora perché non si riesce a debellare questo fenomeno?

L’aspetto probabilmente più caratterizzante della criminalità organizzata siciliana è la presenza di un’area “grigia” della società costituita da elementi o gruppi che, pur non facendo parte integrante dell’organizzazione, stabiliscono con essa contatti, collaborazioni, forme di contiguità più o meno strette.

Nel rapporto tra mafia e società è dunque rinvenibile un blocco sociale mafioso che è di volta in volta complice, connivente, o caratterizzato da una neutralità indifferente. Tale blocco comprende in primis una “borghesia mafiosa” fatta di tecnici, di esponenti della burocrazia, di professionisti, imprenditori e politici che o sono strumentali o interagiscono con la mafia in una forma di scambio permanente fondato sulla difesa di sempre nuovi interessi comuni.

La cosiddetta “zona grigia” rappresenta a ben vedere la vera forza della mafia: essa è costituita da individui e/o gruppi che vivono nella legalità e forniscono un fondamentale supporto di consulenza per le questioni legali, gli investimenti, l’occultamento di fondi, la capacità di manovrare l’immenso potenziale economico dell’organizzazione criminale.

Pregresse indagini, attraverso intercettazioni ambientali, hanno colto un medico che reggeva la famiglia mafiosa di Brancaccio, dedicarsi di mattina in sala da pranzo alla cura degli affari che riguardavano le attività criminali del mandamento: attività estorsiva, gestione della c.d. cassa, sostegno ai detenuti e rispettive famiglie, reclutamento dei nuovi affiliati, neutralizzazione di un associato che aveva iniziato a collaborare, rapporti e contatti con gli altri capi, etc. Il pomeriggio, invece, spostatosi nel salotto “buono” si dedicava al sostegno di candidati alle consultazioni elettorali regionali, al controllo illecito dei flussi di spesa pubblica, ad influenzare le procedure amministrative di nomina di medici e primari nel settore della sanità regionale, ad orientare ai proprio interessi le procedure comunali in materia di modifiche al piano regolatore, infine, anche a ricercare rapporti con giornalisti e vertici nazionali di uno schieramento politico al fine di trovare soluzioni a livello mass-mediatico e politico favorevoli a Cosa Nostra (abolizione ergastolo, 41 bis O.P., legge sui pentiti, etc.).

Nel corso delle conversazioni si evidenziavano anche precisi riferimenti alla necessità di inserire tra i funzionari della Regione Siciliana operanti a Bruxelles un tecnico “amico”, che potesse fornire in anticipo precise informazioni sugli orientamenti dei flussi di finanziamento verso determinate materie e iniziative, in modo da poter “mettere il cappello” sulle opere pubbliche più appetibili.

Quando ero Procuratore a Palermo sono state svolte indagini veramente emblematiche sotto questo profilo. Alludo a quelle, in cui un assessore regionale, addirittura, dava suggerimenti ad un capomafia dell’agrigentino per creare una crisi nella giunta comunale e poter poi attuare, esautorati gli assessori contrari, i propri disegni politici. In questo caso si è arrivati al punto di ribaltare i rapporti: non più di intermediazione, ma addirittura di suggerimento sulle soluzioni politiche da creare al Comune per potere soddisfare le richieste mafiose.

Ovvero, come nel caso della successiva indagine «Gotha», l’instaurazione di rapporti in cui si cercava di utilizzare per la candidatura alle elezioni amministrative persone molto vicine, addirittura legate da vincoli di parentela con soggetti appartenenti all’organizzazione mafiosa.

Per citare un altro esempio, ricordo che tale ribaltamento di prospettiva era stato – fra la fine del 1993 e l’inizio del 1994 – addirittura teorizzato dall’allora reggente capo di Cosa nostra, Bagarella: ad un suo collaboratore diceva che dovevano smetterla di farsi prendere in giro dai politici come lo zio Totò (cioè Salvatore Riina), e che dovevano ormai entrare a piè pari nella politica, perché così nessuno poteva più scherzare, e se si sbagliava e non si faceva ciò che loro richiedevano, sapevano bene quale era la sanzione.

Un’altra indagine molto indicativa sotto questo aspetto è quella sul comune di Villabate, nel corso della quale si è accertato che un politico locale, con ottimi rapporti con i referenti nazionali e con gli uffici pubblici romani, era, al contempo, presidente del consiglio comunale, dirigente di una filiale di banca e favoreggiatore di Provenzano al quale procurava il documento con cui espatriare a Marsiglia, per sottoporsi all’operazione per un tumore alla prostata, che ne stava mettendo in crisi la latitanza. Tutto ciò, per dare degli esempi del condizionamento, dell’infiltrazione della criminalità organizzata negli enti locali e in quelle situazioni ambientali che ancora oggi non appaiono assolutamente fuori da questo contesto e che, purtroppo sono presenti in altre realtà del Sud.

Indagare sulla mafia è un compito difficile ma insieme entusiasmante, presuppone la conoscenza e la comprensione di un fenomeno, non solo criminale, che, in una sostanziale continuità, si trasforma e si adatta al variare dell’intensità della repressione, delle condizioni sociali, economiche e politiche.

La mafia del latifondo, la mafia urbana, la mafia dei mercati, la mafia edilizia, la mafia della droga, la mafia degli affari e così via, non sono che i vari modi di chiamare la stessa organizzazione in relazione all’attività prevalente del momento, in genere quella che dà i maggiori profitti illeciti col minimo rischio di responsabilità penali.

Oggi, nonostante gli esaltanti successi raggiunti sia sotto il profilo repressivo che preventivo dal punto di vista patrimoniale (a Palermo sono stati sequestrati in 10 anni beni per un valore di 12 mila miliardi di vecchia lire), non può essere sottovalutato il pericolo concreto rappresentato dalla criminalità mafiosa. L’esperienza vissuta ci insegna che se si allenta la pressione investigativa, l’attenzione delle istituzioni e della politica, l’organizzazione piano piano, nonostante i colpi ricevuti, si ristruttura, si riorganizza, si rafforza economicamente, riprende le relazioni esterne, temporaneamente interrotte per il timore delle indagini.

Certo, abbiamo raggiunto dei grossi successi come la cattura di Provenzano, ma è stata frutto di un progetto investigativo, perseguito negli anni e che via via ha portato a far terra bruciata di tutto il regime di affari, di appalti che gli stava intorno. Poi si è passati ad arrestare i prestanome, poi coloro che ne gestivano la latitanza direttamente sotto il profilo logistico, alimentando il sistema di comunicazione attraverso i”pizzini”. Successivamente si è arrivati a scoprire anche alcune «talpe» nelle istituzioni, che certamente facevano uscire «spifferi» – sulle indagini – che arrivavano alla mafia. Provenzano alla fine è stato costretto a rivolgersi all’ambito strettamente familiare ed amicale. La conclusione positiva è stata frutto di questo progetto investigativo, perseguito da quando sono arrivato a Palermo come Procuratore della Repubblica con il contributo decisivo (per eccezionale livello professionale, dedizione e spirito di sacrificio, qualità e quantità delle risorse umane e tecnologiche impiegate), non solo delle strutture investigative della Polizia di Stato (Servizio Centrale Operativo e Squadra Mobile di Palermo) ma anche dell’Arma dei Carabinieri (Raggruppamento Operativo Speciale, Reparti Territoriali di Palermo e Monreale), cui va il mio personale plauso e penso quello dell’intero Paese.

Infine, la più importante operazione nel contrasto all’organizzazione Cosa Nostra degli ultimi anni è costituita da quella denominata “Gotha”, che ha permesso la ricostruzione anche storica delle vicende di mafia degli ultimi 25 anni.

Le conversazioni intercettate hanno riguardato gli argomenti più disparati, dalla censura di Papa Giovanni Paolo II per la dura condanna della mafia ad Agrigento alla ricerca di una raccomandazione per un esame universitario, alla valutazione sull’opportunità di procedere all’eliminazione di un “Capofamiglia” la cui nomina veniva ritenuta “illegittima”.

I dialoghi, captati con estrema difficoltà dentro un gabbiotto in lamiera ove i mafiosi si riunivano, hanno avuto per oggetto l’attuale organizzazione dell’associazione mafiosa; i rapporti tra le sue diverse articolazioni e i loro esponenti di vertice, in un gioco assai complesso ed estremamente fluido di alleanze e di contrapposizioni; il ruolo di vertice di PROVENZANO Bernardo; i rapporti degli associati con imprenditori e uomini politici; le attività criminali volte al controllo del territorio ed all’acquisizione di risorse economiche (progetti omicidiari, estorsioni, danneggiamenti, istruzioni per il perfetto killer, etc….), le dinamiche interne dell’associazione negli anni della “guerra di mafia” e alcuni dei delitti più gravi allora commessi.

Il profitto, il danaro è la ragione d’essere del crimine organizzato, portarglielo via è la soluzione, trovarlo il problema.

E’ noto che le principali attività criminose nelle quali si realizza l’accumulazione di ricchezza illecita da parte di Cosa nostra (fase dell’accumulazione primaria) sono costituite dalle estorsioni, dalla gestione illecita degli appalti pubblici e dal traffico di sostanze stupefacenti, cui di recente si sono aggiunte anche altre lucrose attività (la gestione delle lotterie e delle scommesse clandestine, l’illecito smaltimento dei rifiuti ecc.).

Cosa nostra ha sempre cercato di rendere invisibile il suo patrimonio, tentando di nascondere o quanto meno di mimetizzare le sue ricchezze.

Al di là di alcuni dati che incidono sulla vita generale dell’organizzazione (la fine delle stragi e di altri delitti eclatanti, il ricorso all’omicidio come estrema ratio ecc.), due cambiamenti nell’azione di Cosa nostra hanno avuto immediata ripercussione anche sotto l’aspetto economico: la diversa strategia nel settore delle estorsioni (riscossione a tappeto per somme limitate, che molto difficilmente inducono la vittima a denunciare il reato), ed il mutato ruolo dell’organizzazione nel traffico internazionale degli stupefacenti (niente più raffinerie di eroina, ma sempre più stretti legami con la ‘ndrangheta calabrese per l’importazione della cocaina), hanno reso più difficile il compito di ricostruire i percorsi del denaro investito ed – ancor più – di quello ricavato.

Della eccezionale gravità del fenomeno mafioso e, insieme, della importanza della sua repressione ai fini della più ampia azione di contrasto alla criminalità organizzata si è presa da tempo coscienza anche in sede internazionale.

Del resto Cosa Nostra, ben consapevole degli enormi guadagni che può garantire il traffico degli stupefacenti ha stretto alleanze con altre associazioni criminali, italiane e straniere, come dimostrano accertati collegamenti tra esponenti di “cosa nostra” ed esponenti della ‘ndrangheta, della camorra e della Sacra Corona Unita, da un lato; e, dall’altro, con associazioni criminali del resto d’Europa e, principalmente, dell’Albania, dei Paesi dell’Est europeo, della Turchia e dell’America Latina (Colombia e Argentina).

La recente cattura di Lo Piccolo Salvatore, colui che avrebbe voluto prendere in mano le redini dell’organizzazione, l’ultimo dei componenti della Commissione provinciale di Palermo, ha definitivamente decapitato l’organizzazione.

Ancora oggi, nonostante i gravi colpi ricevuti, con la quasi totalità dei componenti del suo organismo di vertice a scontare l’ergastolo nelle patrie galere, attraverso il sistema delle estorsioni, delle intimidazioni diffuse, degli attentati incendiari, dell’inserimento nel mondo dei pubblici appalti, continua comunque ad esercitare un pesante, violento ed esteso controllo sulle attività economiche, sociali e politiche nel territorio.

Proprio le indagini dirette alla cattura dei più importanti latitanti di Cosa Nostra palermitana continuano a svelare progressivamente l’esistenza di una vasta rete di fiancheggiatori nei più svariati settori della società e dell’economia, evidenziando la perdurante ed estrema pericolosità dell’organizzazione mafiosa, nonché la sua straordinaria capacità di infiltrare il tessuto economico e sociale e il mondo della politica e dell’amministrazione.

In sintesi, si può convenire che è in atto una fase di transizione i cui esiti non sono prevedibili con certezza, sia per quanto riguarda il futuro definitivo assetto di vertice, sia l’indirizzo politico-criminale dell’organizzazione.

In particolare, per quanto riguarda i prossimi scenari, non è possibile prevedere con ragionevole certezza quali saranno – dopo l’arresto di Bernardo PROVENZANO e di Salvatore LO PICCOLO – le strategie di Cosa Nostra; in particolare, non è possibile prevedere se continuerà la strategia (finora perseguita) di “sommersione” ovvero se prevarranno i fattori di instabilità e di crisi, collegati alla situazione dei capi condannati in via definitiva all’ergastolo, che potrebbero provocare un improvviso deterioramento dei precari equilibri interni, sia a causa di iniziative concertate con talune fazioni dell’organizzazione mafiosa, sia per iniziativa di gruppi o soggetti emergenti, decisi a sottrarsi alle direttive generali e a ridisegnare nuove geografie interne del potere.

Ora non v’è dubbio che il mafioso che sarà in grado di accumulare nuovamente enormi profitti, di controllare parti rilevanti del territorio, di influenzare a suo favore i flussi della spesa pubblica, non potrà non difendere il suo potere tentando di piegare le istituzioni ai suoi interessi, tentando di procurarsi una stampa connivente e ammiccando alla politica.

Un sistema di relazioni informali, basato sul principio dell’amicizia strumentale, sostituisce spesso l’esercizio dei diritti di cittadinanza e lascia spazio a forme di appartenenza ed intermediazione alternative e spesso illegali.

In una situazione in cui il proprio ruolo sociale, la propria credibilità professionale, la propria possibilità di scambio, contatto, inserimento, dipendono strettamente dalle proprie conoscenze l’atteggiamento prevalente non è il rifiuto degli equilibri consolidati qualora essi vedano il prevalere di elementi mafiosi, ma piuttosto il compromesso.

Il politico influente, l’imprenditore stimato, l’uomo d’onore fanno parte di una rete di amicizie strumentali alla quale si cerca di connettersi, in mancanza di altre reti di rapporti basate su valori diversi (onestà, capacità professionale, affidabilità, ecc.). Per cui, al di là delle grandi dichiarazioni di principi, degli schieramenti politici, degli spazi istituzionali di dibattito e di azione, si strumentalizzano i rapporti interpersonali, “amicali”, per prendere le decisioni, per fare affari, per veicolare capitali, conoscenze, persino identità, e questo in particolar modo negli ambienti affaristici.

La legalità è la forza dei deboli, delle vittime dei soprusi e delle violenze dei ricatti del potere. Perché la mafia attenta a tutti questi valori, perché è violenza, sopraffazione, intimidazione, prevaricazione, collusione, corruzione, compromesso, contiguità complicità. La mafia è eclissi di legalità. Forte e diffuso è il rischio di un assordante silenzio, della disattenzione, dello sconforto, della rassegnazione, della rimozione, del rifugio nel mito di martiri ed eroi in una oleografia staccata dalla realtà di oggi.

Finché la mafia esiste bisogna ricordarlo, parlarne, discuterne, reagire. Il silenzio è l’ossigeno grazie al quale i sistemi criminali, la pericolosissima simbiosi di mafia economia e potere, si rafforzano, si riorganizzano.

I silenzi di oggi saremo destinati a pagarli più duramente domani, con una mafia sempre più forte, con cittadini sempre meno liberi.

Come Procuratore Nazionale Antimafia non posso che pensare alla repressione, con tutte le mie forze, con tutto il mio impegno, di tutti i traffici illeciti, di tutte le mafie nazionali e straniere, dovunque si trovino, ma oggi ho bisogno anche della collaborazione della società tutta e dei giovani in particolare.

Io sto dalla parte dell’antimafia concreta, dell’antimafia della repressione e dell’antimafia che chiede consenso e aiuto a tutte le altre componenti della società, dell’antimafia della speranza.

Oggi abbiamo la piena conoscenza della realtà sociale in cui viviamo e del suo condizionamento da parte di tanti fattori come la mafia e nessuno può più accampare alibi. Oggi si può, si deve, scegliere da che parte stare.

Per fortuna ci sono tante iniziative, tanti cambiamenti che lasciano ben sperare. Imprenditori che denunciano il racket, i giovani di Addio Pizzo, Confindustria siciliana pronta ad espellere chi sottosta all’estorsione, una madre spinta alla collaborazione con la giustizia dalle figlie educate dalle insegnanti alla legalità e così via. Purtroppo si tratta di iniziative ancora isolate che devono coordinarsi coi tanti movimenti antimafia, come Libera, la fondazione Falcone, la fondazione Caponnetto, Riferimenti in Calabria, ed altre iniziative del genere promosse nel Paese. Come i giovani di Locri che sotto lo sguardo perplesso, se non pavido, degli adulti, hanno osato scendere in piazza per ridare speranza e dignità ad una regione abbandonata come un vuoto a perdere e hanno urlato, rompendo il secolare silenzio: “ora ammazzateci tutti!!!” Un grido disperato per non fare cancellare del tutto la Calabria dai progetti dell’economia, della cultura, della politica, che è diventato, così l’ho inteso io, un inno alla resistenza: “siamo disposti a morire per non far morire la Calabria tutta”. Questi giovani, che sono riusciti, insieme a quelli di Addio Pizzo, a quelli contro il racket e la Camorra, a creare una rete telematica, virtuale e virtuosa, tra i giovani di tutta Italia, sono la nostra Speranza. La speranza di riconquistare spazi per una forte azione antimafia nell’unità dei movimenti della società civile.

Allora cerchiamo questi spiragli di speranza di farli diventare brecce, dei varchi attraverso cui gli eserciti dell’antimafia riconquistino le posizioni perdute.

La magistratura, ben consapevole che non appena si allenta la presa, la morsa della repressione, il nemico riconquista le posizioni perdute, non ha mai mollato. Pur con alterne vicende, fortune, errori, successi, insuccessi, si è sempre distinta come testimonianza di un impegno, di un esempio, che possa far guardare ad essa come preciso e visibile punto di riferimento nel contrasto alla mafia.

Al Presidente della Corte di Assise che lo interrogava nel corso del processo per la strage di Capaci, Buscetta riferì che Falcone, a lui che prevedeva che sarebbe stato preso per pazzo e che non sarebbero sopravvissuti a quell’avventura, ripeteva sempre: “non importa dopo di me ci saranno altri magistrati che continueranno”.

Dopo la strage di Capaci, Borsellino, sebbene fisicamente e moralmente distrutto per la perdita del suo compagno ed amico Falcone, si assunse la sua pesante eredità con la precisa consapevolezza che presto avrebbe seguito il suo destino; aveva deciso di continuare e si era buttato senza un attimo di tregua nelle indagini, imponendosi ritmi massacranti con l’ansia di una vera lotta contro il tempo.

Questo il suo grande insegnamento: “Andare avanti pur sapendo quale destino ti attende”.

Noi magistrati, con al nostro fianco le forze di polizia, ci siamo stati, ci siamo e ci saremo sempre nel contrasto alla mafia e a qualsiasi tipo di criminalità e di illegalità, nell’estenuante ricerca della verità e della giustizia.

Siamo tra quelli, ingenui o idealisti che ancora credono che in Italia si possa riuscire a processare, oltre ai mafiosi ed agli autori delle stragi, anche la mafia dei colletti bianchi, gli infiltrati nelle istituzioni, i corruttori di giudici, di pubblici funzionari e di politici, coloro che creano all’estero società fittizie per riciclare denaro sporco e tutte le illegalità anche le più piccole. Si sappia che noi magistrati andremo avanti a tutta forza.

Ci impegneremo ancora di più nel nostro lavoro, con la massima professionalità, cercheremo di accelerare anche di un sol giorno il lento procedere della giustizia.