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Le prime indagini sui grandi misteri di Palermo

Le prime indagini sui grandi misteri di Palermo

19 Maggio 2018

di Guglielmo Incalza

Il 7 gennaio 1980, il giorno successivo al brutale assassinio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella – si erano già evidenziati nel corso dell’anno precedente segnali di una forte e violenta recrudescenza mafiosa con gli omicidi del giornalista Mario Francese, del segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina, del vice questore di polizia e capo della Squadra Mobile Boris Giuliano, del Consigliere Istruttore del Tribunale Cesare Terranova e del maresciallo di pubblica sicurezza. Lenin Mancuso –, sono stato designato a capo della Sezione Investigativa ed Antimafia della Squadra Mobile palermitana.

Ebbi così modo non solo di conoscere, ma di frequentare con assiduità il compianto Giovanni Falcone al quale, nel maggio dello stesso anno, era stato assegnato dal Conigliere Istruttore del Tribunale Rocco Chinnici, il procedimento penale sulla prima grande inchiesta degli anni ’80, più nota come processo su “Mafia e Droga”, originata dal rapporto di denunzia della Squadra Mobile di Palermo contro Spatola Rosario + 54, tutti ritenuti essere responsabili di associazione per delinquere mafiosa e dedita al traffico internazionale di stupefacenti.

Su tale rapporto giudiziario molto è stato già scritto ed è ampiamente noto, in particolare sulla ferma e decisa determinazione del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, barbaramente poi ucciso dalla vile mano mafiosa nell’agosto dello stesso anno 1980, a pochissimi mesi dall’essersi assunto, in perfetta solitudine ed in evidente e plateale disaccordo dei suoi sostituti, la responsabilità di firmare “da solo” i relativi provvedimenti di cattura nei confronti di tutti i denunziati, noti esponenti di una delle più influenti “famiglie “ mafiose italo-americane, quella dei Gambino, Spatola ed Inzerillo, la maggior parte dei quali legati tra loro da stretti vincoli di parentela ed implicata, tra le altre svariate attività delittuose, principalmente in un imponente traffico di eroina che, partendo dalla Sicilia, aveva gli Stati Uniti d’America come destinazione finale.

All’incirca alla fine del maggio dell’80 dunque , fui convocato dal questore pro-tempore ed invitato, mi si disse, su specifica richiesta del dottor Chinnici, a mettermi a disposizione, con tutti i componenti della mia sezione investigativa, del dottor Falcone, che da poco tempo ricopriva l’incarico di giudice istruttore

della VI Sezione penale e cui intanto era stato assegnato il fascicolo del processo “Spatola“ dopo che la Procura della Repubblica ne aveva richiesto la formalizzazione.

E’ opportuno evidenziare che il rapporto giudiziario all’origine di tale inchiesta, costituiva la risultanza di due filoni investigativi, quello come sopra detto del traffico di droga, individuato attraverso alcune mirate intercettazioni telefoniche sui componenti della consorteria mafiosa dei succitati Spatola/Inzerillo/Gambino con le sue diramazioni americane (ma anche di appartenenti ad altre “famiglie” palermitane come ad esempio Vittorio Mangano della “famiglia di Porta Nuova”, più noto poi come lo “stalliere” di Arcore ) e quello messo in luce dalle indagini svolte dal Centro Criminalpol di Palermo sul rapimento simulato del finanziere siculo-americano Michele Sindona, gestito e condotto sin dalla sua prima fase in territorio americano, fino alla sua permanenza in clandestinità a Palermo e la sua successiva riapparizione sul suolo americano, ad opera di componenti dello stesso clan mafioso che contava negli USA sugli strettissimi collegamenti con una delle più potenti ed agguerrite tra le 5 “famiglie” americane, quella capeggiata per l’appunto dal Capo dei Capi Charles Gambino.

Imponente ed arduo apparve certamente il compito di portare avanti una istruttoria così vasta e frammentata tant’è che lo stesso Falcone, successivamente alla emissione della sua sentenza-ordinanza del 25 gennaio 1982 di rinvio a giudizio di Spatola Rosario +119 per associazione aggravata di tipo mafioso e per traffico internazionale di stupefacenti, ebbe a dichiarare ad alcuni giornalisti della carta stampata: “… La mafia, vista attraverso il processo Spatola, mi apparve un mondo enorme , smisurato , inesplorato…”.

Ed anche per questo, ritengo, che il Consigliere Chinnici, nell’assegnare a suo tempo a Falcone il relativo fascicolo processuale, avesse formulato al Questore una cortese ma ferma richiesta di fornire una collaborazione investigativa più corposa del solito, per la complessità dell’ istruttoria stessa.

Quest’ultima, dunque, portata avanti con la ferma, caparbia ed assai innovativa guida di Giovanni Falcone, non solo confermò le responsabilità dei soggetti denunziati, ma mise in luce numerose altre complicità, sia nel traffico della droga, ma anche nella partecipazione e nella conduzione del finto sequestro di Michele Sindona, oltre che a porre le basi di successive grandi operazioni di polizia sul territorio nazionale, come quella nota col nome di “ San Valentino”, condotta a Milano sul riciclaggio dei narcodollari ad opera di noti imprenditori locali (immobiliaristi, ma anche finanzieri e liberi professionisti ) e personaggi mafiosi collegati al gruppo Spatola.

La frequentazione di tutti costoro ( tra i quali anche un noto latitante mafioso palermitano come poi verrà accertato) in un ufficio milanese di via Larga 13, cui facevano capo numerose società ombra riconducibili ai predetti personaggi, era stata evidenziata dal traffico telefonico delle intercettazioni condotte dal mio ufficio ( in specie alcune conversazioni del Mangano Vittorio con uno tra gli Spatola inquisiti ), e lasciato chiaramente sottintendere alla consumazione di losche attività. A seguito dell’emissione di un decreto di perquisizione di Falcone e dell’esito della relativa operazione di polizia giudiziaria effettuata da personale della mia sezione investigativa, vennero quindi acquisiti importanti indizi di un imponente riciclaggio dei proventi criminali del traffico di narcotici che, confermati da una breve ma intensa rogatoria dello stesso Falcone a Milano, divennero la base per la prosecuzione delle indagini meneghine poi culminate per l’appunto col blitz di San Valentino del 14 febbraio 1983.

Relativamente al cosiddetto “metodo Falcone”, cui spesso si fa riferimento, per il modo di condurre le sue attività istruttorie sulle organizzazioni mafiose, ritengo che quel metodo si sostanzi semplicisticamente nel suo essere perseverante e dotato di una grande ed infaticabile capacità lavorativa oltre che di un eccezionale intuito.

Tali sue doti lo portavano a considerare che solo assumendo la effettiva direzione delle indagini, cosa inconsueta al tempo della vigenza del vecchio codice di procedura penale, ed a confrontarsi direttamente con i responsabili degli uffici e comandi operativi delle tre principali forze di polizia (delegando di volta in volta le attività di indagine in un rapporto di effettiva e costruttiva sinergia), si potessero raggiungere risultati apprezzabili.

Il giudice Falcone era, ancora, convinto, proprio tenuto conto degli scarsi risultati giudiziari sin allora

raggiunti nell’individuazione degli autori dei singoli delitti di mafia, soprattutto a causa del senso diffuso di una persistente omertà, che bisognasse capovolgere il metodo d’indagine sin allora seguito, cercando prima di mettere in luce e far emergere il vincolo associativo con le sue varie sinapsi, per poi ricollegarvi i singoli e specifici delitti che sarebbero altrimenti apparsi scollegati.

La percezione, poi, dell’esistenza in Sicilia di laboratori per la raffinazione della morfina base in eroina (peraltro poi avvalorata dall’individuazione di uno di essi nell’agosto dello stesso anno in una villa di Villagrazia di Carini ), lo portò ad una grande intuizione e, cioè , che all’enorme flusso della droga verso gli Stati Uniti dovesse necessariamente corrispondere un altrettanto enorme flusso di valuta americana a compensazione. In pratica …la scoperta dell’uovo di Colombo, solo che nessuno ci aveva pensato prima.

La sua precedente esperienza di giudice fallimentare gli venne certamente d’aiuto e pertanto dispose una serie di accertamenti bancari mediante ordinanze di esibizioni di distinte di versamento per cambio di valuta USA, libretti di risparmio, documentazione di conti correnti e di assegni con la individuazione del nominativo dei firmatari e beneficiari degli stessi.

Alle iniziali reticenze nella esecuzione dei provvedimenti da parte di alcuni istituti bancari, come nel caso di una Cassa Rurale ed Artigiana dell’hinterland palermitano, fu necessario procedere direttamente, facendovi irruzione, Falcone stesso in testa, allo scopo di costringere alla collaborazione ed alla esibizione immediata della documentazione richiesta.

Come dimenticare la sua incessante e meticolosa ricostruzione dei collegamenti che riusciva ad individuare attraverso la visione della gran mole delle distinte di cambio di dollari e degli assegni che , numerosi , inondavano la sua scrivania ? Armato di santa pazienza, registrava a penna all’epoca i computer erano oggetti pressocchè sconosciuti ) singole schede dei personaggi coinvolti, su cui annotava sia gli estremi dell’ operazione effettuata che il nominativo dei soggetti comunque implicati nel rapporto bancario, per poter poi procedere alle verbalizzazioni delle dichiarazioni ed alle contestazioni di quanto riscontrato.

Ricordo al riguardo un episodio altamente significativo della pericolosità di tale consorteria criminale. Una mattina, regormente convocato in Tribunale, si presentò nell’ufficio di Falcone il noto Michele Greco detto il “ Papa” per rendere conto, me presente, della natura dei suoi rapporti con il capo mafia Stefano Bontate, il “principe” del quartiere palermitano d Villagrazia, rapporti rilevati dallo scambio tra di loro di alcuni assegni per rilevanti importi.

Alle domande sempre più incalzanti del giudice, il Greco (indicato poi dal noto collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta come il capo della “Cupola” mafiosa siciliana, anche se sottomesso ai diktat del sanguinario boss corleonese Totò Riina) ebbe improvvisamente ad inalberarsi e, con fare oltremodo stizzito ebbe a fare un vero e proprio sermone, quasi pontificando con fare ieratico e lanciando velate minacce. Alla fine dell’interrogatorio, licenziato il teste, con Falcone ci guardammo sgomenti negli occhi, concordando sul fatto che l’atteggiamento e le parole del Greco sottintendevano un vero e proprio classico avvertimento mafioso. Il giudice, tuttavia, alla mia osservazione sul perchè mai non avesse provveduto a richiedere nell’immediatezza l’intervento del Pubblico Ministero per la contestazione di reato, mi fece rilevare l’inutilità di tale iniziativa, giacchè non si sarebbe mai potuto riscontrare in giudizio alcun chiaro elemento di colpevolezza, essendo state le minacce mai palesemente esplicitate.

Gli feci comunque presente che di quanto accaduto avrei immediatamente riferito al Questore con relazione scritta per le opportune valutazioni della vicenda e, provveduto in tal senso, fui incaricato di assicurare temporaneamente la sua sicurezza, in attesa della costituzione di un ufficio scorte, all’epoca inesistente, con gli stessi uomini della mia Sezione investigativa, che già si occupavano a tempo pieno dell’attività di supporto alla indagine istruttoria.

E come non porre in risalto la sua capacita’ di dialogare con i suoi colleghi di altre sedi giudiziarie , interessate anch’esse da attività delittuose di tipo mafioso, nel tentativo di convincerli a riconoscere la unicità di tale fenomeno criminale e la centralità di Palermo come sede dei vertici mafiosi, al fine di concentrare nel capoluogo siciliano anche le indagini che avevano riferimento alle sue propaggini al di fuori della Sicilia?

Non sempre fu ascoltato ed anzi, fu anche da taluni aspramente criticato. Molti di loro, però, credo che nel tempo si siano ravveduti.

La sua passione ed il suo impegno personale, non disgiunto dalla sua ferrea determinazione a portare avanti la sua attività di qualificato contrasto al crimine organizzato, lo portò anche a richiedere ( ed ottenere ) non solo la collaborazione degli organismi centrali operativi delle tre principale forze di Polizia, ma anche quella preziosissima della Drug Enforcement Administration e del Federal Bureau of Investigation, rispettivamente l’agenzia federale antidroga e la polizia federale investigativa, entrambe americane. L’aver mantenuto con i suoi rappresentanti di vertice un’attiva e duratura collaborazione in costanza di rapporti di vera stima e considerazione, gli valsero, post mortem, un tributo di riconoscenza e di onore al suo valore senza eguali, costituito dal collocamento di una statua col suo busto nel cortile principale del quartier generale della F.B.I. a Washington.

Concludo questo ricordo di Giovanni Falcone, della sua figura di grande magistrato e dell’uomo da me conosciuto e frequentato nel corso del mio affiancamento alla sua attività istruttoria nel primo grande processo contro Cosa Nostra, affermando di aver tanto imparato da lui e non solo dal punto di vista professionale. Abbiamo via via , approfondito la nostra conoscenza, particolarmente in occasione delle poche ore lasciate libere dagli impegni delle varie rogatorie effettuate insieme, anche al di fuori della Sicilia , quando talvolta, prima o poco dopo cena, ci si lasciava andare a liberi pensieri ed egli appariva nello splendore del suo gran sorriso, a volte anche canzonatorio e di gradevole sarcasmo con le sue battute al fulmicotone.

La continua frequentazione tra di noi, soprattutto in ambito lavorativo, mi valse persino l’epiteto di “Falconetto” con cui all’epoca mi indicava a mo’ di sfottò l’amico e collega Ninni Cassarà, che era a capo della sezione Omicidi della squadra mobile e poi succedutomi all’Investigativa a seguito del mio trasferimento da Palermo.

Non potrò mai dimenticare di una sera dell’inverno 1980/81 . Insieme ad un mio collega della Criminalpol e ad alcuni Ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza – lo avevamo accompagnato a Milano per procedere ad una importante rogatoria con l’assunzione a verbale delle dichiarazioni testimoniali di alcuni noti personaggi, tra i quali il noto banchiere Enrico Cuccia, ognuno di essi legato per alcuni versi alla vicenda del rapimento simulato del faccendiere Sindona.

A sera, eravamo in un albergo di Milano e, mentre dopo cena e prima di ritirarci nelle rispettive camere eravamo sprofondati in alcune poltrone della hall , Falcone, sorseggiando un whisky , a conclusione di alcune valutazioni sull’andamento della istruttoria del processo, ebbe a dire chiaramente di essere cosciente del fatto che la mafia lo avrebbe ucciso, ma che bisognava comunque andare avanti continuando a fare il proprio dovere.

Che dire di più? Dico solo che sento ancora i brividi al ricordo di queste sue parole che manifestavano chiaramente la sua consapevolezza del grande rischio cui andava incontro.

E’ inutile dire che il pomeriggio del 23 maggio 1992 la drammatica notizia, appresa a Roma telefonicamente , mi provocò una intensa emozione e non riuscii a frenare le mie lacrime e la mia disperazione.

Fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it