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Le «porcherie» in Prefettura e le indagini sull’asse Padova-Catanzaro

Le «porcherie» in Prefettura e le indagini sull’asse Padova-Catanzaro

di Paolo Pollichieni

31 agosto 2018

È il 14 aprile 2017 e al telefonino di servizio, intestato al ministero dell’Interno, del prefetto di Padova, Patrizia Impresa, arriva una telefonata del suo vicario, il viceprefetto Pasquale Aversa. È una telefonata delicata e imbarazzante, riguarda la gestione, diciamo un po’ disinvolta, dei progetti di assistenza agli immigrati che attendono lo status di rifugiati politici, materia delegata dalla prefetto al suo vicario Aversa.

Quel telefono è intercettato dai carabinieri su mandato del pubblico ministero Federica Baccaglini, c’è il sospetto di illeciti nell’affidamento della gestione degli immigrati ad alcune società locali. Nella telefonata sono la stessa signora prefetto e il suo vicario a definire «porcherie» quelle che andavano avallando: rivolta al viceprefetto Aversa, Patrizia Impresa, tra l’altro, dice: «È vero che ne abbiamo fatte di porcherie ma quando le potevamo fare». Asciutta quanto eloquente la replica di Aversa: «Esatto».

Da tre mesi Patrizia Impresa non è più prefetto di Padova, è stata promossa e richiamata a Roma per ricoprire l’incarico di vicecapo di gabinetto del nuovo ministro dell’Interno Matteo Salvini. La sua nomina è stata fortemente voluta dal capo di gabinetto Matteo Piantedosi. Anche il viceprefetto Aversa ha lasciato Padova: il nove agosto scorso, su segnalazione del gabinetto del ministro Salvini, è stato nominato commissario prefettizio al Comune di Gioia Tauro, ente commissariato per infiltrazioni mafiose. Gioia Tauro ha competenza sul porto omonimo ma anche sulla famigerata tendopoli di San Ferdinando di Rosarno. A Padova però Aversa è indagato per abuso di potere, rivelazione di atti d’ufficio, turbativa d’asta ed altri gravi reati.

Mattarella, ignaro, ha firmato la sua nomina a commissario prefettizio ma adesso chiede conto a Salvini di questa provocata gaffe istituzionale. A Catanzaro finisce, invece, copia dell’informativa redatta dal Nucleo operativo dei carabinieri di Padova, 437 pagine che ricostruiscono un sistema di manipolazione dei dati capaci di far lievitare la spesa garantendo guadagni esorbitanti per gli enti gestori coccolati dalle connivenze ministeriali. Nel rapporto i carabinieri lumeggiano il percorso fatto dalla Cooperativa Edeco che decuplica il fatturato in tre anni. Risultano assistiti oltre novecento migranti ma i dati sono gonfiati, le spese non rendicontate e, al telefono, funzionari della Prefettura e amministratori della Edeco concordano i falsi numeri da trasmettere al ministero, un ruolo che, secondo gli inquirenti, era assegnato ad una funzionaria, Tiziana Quintinario, poi trasferita in tutta fretta e, altra “coincidenza”, mandata in prefettura a Bologna, alle dipendenze del prefetto Matteo Piantedosi, oggi capo di gabinetto del ministro Matteo Salvini e indagato dalla Procura di Agrigento per la gestione dell’emergenza sulla nave “Diciotti”.

A Catanzaro il fascicolo padovano ci arriva per i singolari punti di contatto che l’indagine padovana presenta con quella condotta dal procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e coordinata dal procuratore distrettuale Nicola Gratteri sulla gestione del Cara di Isola Capo Rizzuto da parte della Prefettura di Crotone. E qui la cronaca si arricchisce del nuovo filone investigativo rappresentato da alcune disinvolte interdittive, almeno così giudicate da vari Tribunali amministrativi (da ultimo quelli di Firenze e di Catanzaro) che le hanno bloccate in via cautelare segnalandone alla magistratura ordinaria le singolarità.

Tra queste, la mancanza di alcuni importanti atti a compendio e il rifiuto di garantire un totale accesso agli stessi atti, per come, invece, formalmente richiesto da alcune aziende interessate. Il che fa il paio con quanto dichiara il presidente del Tar Calabria, Salomone: «Particolare rilievo sociale è quello dei provvedimenti interdittivi per presunte o possibili contiguità con la criminalità organizzata. Lo strumento – scrive Salamone – costituisce per chi ne viene colpito una forma di espulsione definitiva dall’attività economica. Pertanto, il ricorso al provvedimento non può prescindere da determinate e decisive informazioni». Poi va nel concreto: «Il compito dell’autorità prefettizia è valutare il rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto e attuale, sulla base di elementi sintomatici da ricondurre al principio probatorio del “più probabile che non”».

Una regola che in Calabria non pare molto rispettata visto che il Tar calabrese vanta due record poco invidiabili: quello del numero dei ricorsi avversi a provvedimenti interdittivi e quello di accoglimento (oltre la metà) di detti ricorsi. Il che fa balenare il sospetto di un uso “politico” di tale importante strumento di prevenzione, e farebbe anche comprendere le ragioni che spingono al rifiuto da parte delle Prefetture di rilasciare copia degli atti, quasi a nascondere l’inadeguatezza o la incompletezza degli stessi o, peggio, la loro “non attualità”, per come sottolineato dalla giurisprudenza richiamata dal presidente Salamone.

 

direttore@corrierecal.it

 

fonte:https://www.corrieredellacalabria.it/