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Le mani di Massimo Carminati anche sulle tangenti del Mose

L’Espresso, 9 Luglio 2020

Le mani di Massimo Carminati anche sulle tangenti del Mose

Le mazzette intorno alla costruzione del sistema di dighe mobili di Venezia sono finite in tasca a costruttori romani legati all’estrema destra. Protetti dal Cecato e dal suo potere criminale

DI PAOLO BIONDANI

Re di Roma. Ma anche principe nero di Venezia. Innominabile. Con un carisma criminale in grado di terrorizzare persino i ricchi e potenti padroni del Mose.

Le sentenze giudiziarie su Massimo Carminati lo identificano come un professionista dei reati che dal 1980 in poi è al centro delle più torbide trame romane: prima terrorista nero dei Nar, poi complice e armiere della Banda della Magliana, quindi organizzatore di rapine e furti clamorosi, come l’assalto del 1999 al caveau del palazzo di giustizia della capitale. L’ultimo verdetto della Cassazione, che nove mesi fa ha cancellato l’accusa di mafia spianando la strada alla sua recente scarcerazione, riconferma che l’ex neofascista a partire dal 2010 è diventato il capo di un’organizzazione criminale tutta sua, oltre che di una banda parallela di grandi corruttori, che ha dominato la capitale fino agli arresti del dicembre 2014. Un re della mala romana ( come rivelò un’inchiesta dell’Espresso ), insomma, ma senza quello speciale potere di intimidazione violenta che caratterizza le cosche mafiose, secondo quanto ha stabilito la Corte Suprema dopo le sentenze contrastanti di primo e secondo grado. Nei processi della capitale, per altro, non è mai emersa un’altra storia nera, che collega Carminati, attraverso un imprenditore della destra romana, allo scandalo del Mose di Venezia.

Il Mose è il sistema di dighe mobili, in cantiere da mezzo secolo, che è già costato più di cinque miliardi. Una marea di soldi pubblici versati direttamente a un consorzio di aziende private, senza alcuna gara d’appalto. In cambio, le imprese privilegiate hanno distribuito tangenti per decine di milioni a politici e funzionari di ogni livello, arrestati e condannati a partire dal 2013. Le indagini della procura di Venezia, dopo aver scoperchiato il più grave scandalo di corruzione dai tempi di Tangentopoli, hanno svelato il bis: la bonifica di Porto Marghera. Gestita con lo stesso sistema criminogeno: i risarcimenti versati nel 2001 dalla Montedison allo Stato, per disinquinare l’area avvelenata dal polo petrolchimico, sono stati assegnati, senza gara, alle stesse imprese del Mose. In cambio di altre mazzette milionarie. Confessate da tutti i big del consorzio: dall’ex presidente Giovanni Mazzacurati al manager Piergiorgio Baita della capofila Mantovani spa.

Ad applicare a Marghera lo stesso sistema del Mose fu Altero Matteoli, storico big della destra romana, morto nel 2017, più volte ministro nei governi di Berlusconi. Le sentenze del tribunale e della corte d’appello ricostruiscono tutto il patto corruttivo sottostante. Che passa da un’azienda nera. In cambio dei soldi pubblici, infatti, il ministro impone alle imprese venete di inserire nel maxi-affare un suo camerata imprenditore: Erasmo Cinque, titolare della Socostramo. Un costruttore che ha sempre fatto politica con Matteoli, dal Movimento sociale ad Alleanza nazionale (il partito-madre di Fratelli d’Italia), al punto da definire l’allora ministro «un mio uomo». Con i soldi di Venezia, dal 2004 al 2012, l’imprenditore nero gestisce la fondazione del politico e diventa il suo tesoriere occulto. Da faccetta nera a mazzetta nera. «La Socostramo è entrata nella bonifica di Marghera per imposizione politica», concludono i giudici di Venezia, ma «non avendo mezzi, strutture e personale, non faceva niente»: «incassava i soldi e basta», mentre «tutti i lavori li eseguiva la Mantovani spa».

In quegli anni di grande abbuffata, Baita e gli altri manager del consorzio sono esasperati per «l’avidità» di Cinque, che pretende di non partecipare neppure alle spese del consorzio. E protestano con il grande capo del Mose, l’ingegner Mazzacurati. Che ordina di pagare e tacere, con parole inquietanti: Erasmo Cinque è un intoccabile, perché dietro di lui c’è un potere criminale.

Il primo a parlarne, confessando le proprie colpe ai magistrati veneziani, è Pio Savioli, dirigente delle cooperative rosse: «Marghera è la storia più opaca che abbiamo vissuto a Venezia. Nel consorzio eravamo tutti preoccupati per questo personaggio della Socostramo. Mazzacurati ci disse di non parlarne, altrimenti si finiva al cimitero». Savioli mette a verbale di avere paura e non dice di più. Il manager Baita conferma l’allarme anche di altri imprenditori del Mose come Mazzi e Boscolo: «State attenti, perché Cinque è pericoloso, ha contatti con ambienti romani poco raccomandabili». Baita è il primo che ha il coraggio di nominare chi protegge il costruttore romano: «Savioli mi disse che Mazzacurati gli aveva fatto il nome di Carminati».

Il 23 febbraio 2017 Erasmo Cinque viene interrogato in tribunale dal pm Stefano Ancilotto, che come ultima domanda gli chiede: «Conosce Massimo Carminati?». Il costruttore ha uno scatto d’ira: «Non capisco cosa interessa a lei». Il pm insiste: «Lo chiedo perché alcune persone in questo processo hanno dichiarato di avere paura di lei». Cinque sa che l’indagine di Roma ha già documentato i suoi rapporti con l’ex terrorista nero. E risponde così: «Carminati è una persona molto nota a Roma, non occorreva il processo capitale per dirlo. Io l’ho conosciuto nel 1994, quando ero presidente dei costruttori romani. Al ristorante, mi si avvicina questo signore con una benda sull’occhio, mi chiede se sono il presidente e mi dice: guardi, c’è una onlus che si occupa di bambini con problemi psicologici, avrei piacere se lei desse una voce agli altri imprenditori se danno un contributo».

Detto fatto: il costruttore regala «250 milioni di lire» all’associazione raccomandata da Carminati, giurando di averne versati altrettanti «al capo della polizia per gli orfani delle vittime del terrorismo». L’incontro fortuito al ristorante non convince il pm: 250 milioni di lire del 1994 equivalgono a oltre 200 mila euro di oggi. Incalzato dalle domande, il costruttore romano conferma di aver frequentato Carminati per anni, anche nella sede della Socostramo, dove nel 2013 ha ospitato un incontro con l’imprenditore Alfio Marchini, allora candidato a Roma, e «un consigliere del Pdl», che Cinque evita di nominare: è Luca Gramazio, poi condannato per corruzione nella capitale.

Per l’imprenditore nero, il disastro ambientale di Marghera si rivela un affare d’oro. Nel decennio della bonifica-scandalo, riassumono le sentenze di Venezia, la Socostramo incassa oltre 49 milioni di profitti netti, contribuendo ai costi del consorzio per soli 500 mila euro. Tra il 2011 e il 2012, con la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, Cinque vende alla Mantovani le sue quote nel consorzio: le aveva comprate al valore nominale di 181 mila euro, ma incassa oltre 19 milioni. Spiegando ai manager del Mose che altri politici del partito di Matteoli, mai identificati, «sono stanchi di aspettare e vogliono la loro parte dei soldi».

L’ex ministro e il suo costruttore, a Venezia, sono stati condannati a quattro anni per corruzione continuata: morto Matteoli, ora Cinque attende il verdetto finale della Cassazione. Da Venezia, le carte sono state trasmesse anche a Roma. Ma nel processo a Carminati non si è mai parlato delle mazzette nere di Erasmo Cinque. Si è discusso solo dell’incontro con Gramazio. E delle donazioni chieste da Carminati ad altri bei nomi dell’imprenditoria romana, a partire dal 2010, per una struttura per minori fondata da Lorenzo Alibrandi, fratello di Alessandro, il terrorista dei Nar ucciso nel 1981 in un assalto armato contro la polizia. I giudici di Roma invece ignorano totalmente le corruzioni di Venezia e la paura che il solo nome di Carminati incuteva ai padroni del Mose. Spaventati non dalla mafia, evidentemente, ma dalla perdurante eredità criminale del terrorismo nero.