Football clan, come le mafie assediano il calcio
Lirio Abbate e Peter Gomez, L`Espresso
Le partite truccate. Il giro delle scommesse. I rapporti con la politica. Gli appalti degli impianti. Da Napoli a Palermo, da Crotone a Cosenza, da Reggio Calabria a Catania, le cosche mafiose cercano di co-gestire il mondo del calcio, suscitando reazioni molto diverse: dalla comunanza di sub-cultura ad embrionali ribellioni, dall`accettazione per paura ad una “furba” cogestione.
Chi viene da fuori coglie solo il folklore. Gli striscioni che inneggiano ai boss come a Cosenza e a Crotone dove i tifosi scrivono `Bentornato Franchino` o `Mario, la curva è con te` per celebrare l`uscita da sei anni di carcere duro di un capobastone, Franchino Perna, o per protestare contro l`arresto di un amico, Mario Cimino, finito in manette per le armi trovate nel suo appartamento e in un casolare.
Chi sta dentro, chi di calcio ci vive, invece vede il resto e ha paura. Perché la mafia è nel pallone. E non è più solo una questione di ultras dall`incidente facile. Di curve che, come a Catania, secondo la polizia, sono in mano alla famiglia mafiosa dei Piacenti, o di gruppi di tifosi napoletani come le Teste Matte e i Niss – Niente incontri solo scontri – infiltrati dalla camorra. Oggi le cosche guardano di nuovo in alto: vogliono controllare il mondo delle scommesse (clandestine e non); tentano di condizionare i risultati delle partite, le decisioni dei giudici sportivi e il valore dei calciatori; puntano agli appalti dei servizi allo stadio; usano il calcio per cementare legami con la politica; sognano il grande colpo sulla scia del clan dei casalesi che con la complicità, secondo l`accusa, di Giorgio Chinaglia nel 2004 voleva rilevare la Lazio per 24 milioni di euro. Mafia, camorra e `ndrangheta, insomma, pretendono di comandare perché, lo si legge in una lettera tra due mafiosi calabresi sequestrata a Castrovillari, il football ha “un ritorno di immagine incredibile e fatto a livello aziendale porta posti di lavoro e guadagni insperati”.
Tra i presidenti c`è chi dice no, come quello del Palermo, Maurizio Zamparini, che prima del blitz del 26 settembre in cui sono finiti in carcere un procuratore di giocatori e un allenatore in affari con la famiglia mafiosa dei Lo Piccolo, ha allontano tecnici e manager troppo chiacchierati. C`è chi pare indifferente come Lillo Foti, il big boss della Reggina che ha ancora al suo fianco, in qualità di vice, Gianni Remo, un imprenditore sotto inchiesta per estorsione, a cui la magistratura in maggio ha sequestrato l`azienda. Remo è cognato del latitante Michele Labate, considerato uno dei capi della cosca `padrona` proprio della zona dove sorge lo stadio. E c`è infine chi finisce in manette e viene condannato (in primo grado), come Raffaele Vrenna, ex vicepresidente della Confindustria calabrese, presidente del Crotone calcio (allora serie B ora C1), e legato a molti degli uomini della `ndrina più importante della sua città, quella dei Vrenna-Corigliano-Bonaventura.
Se tra gli imprenditori, come fa la Confindustria siciliana, si arriva a espellere chi paga il pizzo, nel mondo del calcio si procede in ordine sparso. E i casi di Zamparini e Vrenna stanno lì a dimostrarlo. Quando, a Natale 2007, il cane di Rino Foschi, il direttore sportivo del Palermo, si mette ad annusare ossessivamente uno dei regali che il dirigente aveva messo sotto l`albero e dal pacco salta fuori una testa d`agnello mozzata, Zamparini non ci pensa su due volte e porta Foschi dal procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso. Poi avvia una sorta d`indagine interna e capisce che Cosa Nostra ha messo le mani sul settore giovanile dei rosa-nero. Scopre che “cinque ragazzi erano diventati professionisti su iniziativa di Foschi senza che ne avessero le capacità”. A quel punto la manovra è chiara: far diventare professionista un calciatore, magari facendogli giocare qualche scampolo di partita in prima squadra, vuol dire aumentarne il valore. Per la gioia del loro procuratore, un avvocato che assisteva tutti i Lo Piccolo, e della famiglia mafiosa Palermo centro, che attraverso un suo uomo gestiva una scuola calcio attivissima in città.
Se il navigato Zamparini si rivolge al procuratore Grasso per tentare di arginare Cosa Nostra, in tutt`altro modo si comporta a Crotone il suo collega Vrenna. Anche lui ha buoni rapporti con la magistratura e i potenti, solo che delle cosche non è una vittima, ma un presunto complice. Così le sue relazioni le usa per chiedere favori. Da un assessore regionale si fa sponsorizzare per 100 mila euro e in cambio gli garantisce pacchetti di voti; poi si muove per ottenere la riduzione della penalizzazione di tre punti inflitta alla sua squadra nel 2005 per un petardo fatto esplodere dai tifosi durante una partita di B, con il Venezia. Il ricorso è approdato davanti alla Caf (Commissione d`appello federale), ma la segretaria di Giuseppe Chiaravalloti – ex procuratore generale di Reggio Calabria, ex presidente della Regione e in quel momento appena diventato vice-presidente dell`Authority per la privacy – lo rassicura. Chiaravalloti, sostiene la signora, si è già mosso. E per telefono, il 4 aprile, prima della riunione della Caf chiede se Vrenna vuole che “il presidente faccia un`altra chiamata” ai giudici sportivi. Il ricorso per il Crotone va però male. La penalizzazione è confermata: alle sette di sera la segretaria appare incredula. In mattinata, spiega, “il presidente aveva parlato personalmente con due giudici su tre delle commissioni e gli avevano detto (…) di stare tranquillo”.
Ma c`è poco da stare tranquilli. Perché le infiltrazioni criminali, a lungo andare, corrono il rischio di far saltare tutto il sistema.
Ne sanno qualcosa a Cosenza, dove ormai da cinque anni si va avanti tra minacce ai vari proprietari (al terzultimo, quattro uomini armati hanno intimato di vendere la squadra), retrocessioni causa fallimento e tante auto bruciate. Finché i rossoblù giocavano in B, alla loro testa c`era un grossista d`arredamento per bar, Paolo Fabiano Pagliuso, buon amico del direttore generale della Juventus `Lucky` Luciano Moggi. Nel periodo della sua gestione guardiania e servizio ristoro erano in mano alle cosche. Per l`accusa, che lo ha fatto arrestare nel 2003, Pagliuso era un loro complice e utilizzava la malavita per minacciare soci e giornalisti sportivi. Per il tribunale invece era solo una vittima “passiva e omertosa” e per questo, nonostante le ore e ore d`intercettazioni ambientali che lo riguardavano, lui e tutti gli altri imputati sono stati assolti. In attesa dell`appello resta il fatto che attorno alla sua ex squadra continua ad accadere di tutto. E lo striscione che nel maggio scorso celebrava il ritorno tra i detenuti comuni, dopo sei anni di regime speciale del 41 bis, del boss Franchino Perna (zio di Pierino Perna, il gestore dei servizi allo stadio all`epoca di Pagliuso), testimonia come la partita per il controllo del team sia in pieno svolgimento.
Ma sentite che cosa ha raccontato al pm Eugenio Facciolla, il 23 aprile 2005, un cugino del presidente Pagliuso, il pentito calabrese, Maurizio Giordano: “Nel 2003 ero in carcere a Vibo Valentia assieme ad Alberigo Granata (un pregiudicato, arrestato sia per traffico di cocaina che per l`indagine su Pagliuso) mentre mio cugino stava nella cella di fronte. Tra i due scoppiò una discussione su alcuni assegni. Granata voleva sapere dove Pagliuso li avesse depositati. Fu così che Granata mi spiegò di essere stato solito pagare giocatori e arbitri per scommettere sulle partite. Mi disse che non si aggiustavano solo gli incontri del Cosenza, lo si faceva anche con altre squadre di C1,C2, B, promozione, e qualcuna di A, non di primo piano. I contatti con i giocatori, in genere ex calciatori di grido che scesi di categoria avevano subito una riduzione di stipendio, li teneva lui. Era Granata che aveva il compito di avvicinarli, di organizzare dei festini, anche a base di cocaina, nel corso dei quali li si convinceva a partecipare alla truffa”.
Nello stesso interrogatorio il pentito svela inoltre a Facciolla che, per fermare le indagini, era stata posta sulla testa del magistrato una taglia da 100 mila euro. C`è poco da stupirsi. Secondo Sos Impresa, il mercato delle puntate clandestine vale in Italia 2 miliardi e mezzo di euro l`anno. E che sia in mano alla criminalità organizzata è cosa nota. Proprio Sandro Lo Piccolo, il boss palermitano che con i suoi famigliari stava infiltrando il Palermo, al momento dell`arresto aveva con sé una valigetta in cui era contenuta la contabilità del toto nero gestito dalla sua famiglia: fino a 200 mila euro alla settimana solo in città. A Villabate gli uomini della cosca, che per anni ha curato la latitanza di Bernardo Provenzano, gestivano poi una serie di punti Snai. Nelle loro sale, però, accanto alle scommesse legali si raccoglievano pure le puntate fuori legge. È quasi fisiologico, dunque, che i clan tentino la combine. Il terreno del resto è fertile.
“Da noi molti presidenti di squadre sono mafiosi o mettono i loro uomini di fiducia a dirigerle”, denuncia, parlando del calcio minore, don Pino De Masi, parroco di Polistena e responsabile dell`associazione Libera nella Piana di Gioia Tauro. Don Pino si chiede se i futuri campioni, spesso più che a scuola di calcio, non vadano a scuola di `ndrangheta. Per chi viene dal Nord può sembrare una provocazione. Per chi vive qui e ha visto l`11 dell`Isola Capo Rizzuto (promozione) osservare un minuto di silenzio prepartita, dopo l`omicidio a colpi di bazooka del boss Carmelino Arena, è solo un`ovvia constatazione.
hanno collaborato Arcangelo Badolati, Giuseppe Giustolisi e Paolo Orofino
(tratto da www.terrelibere.org)