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Le carte dell’inchiesta: “Abbiamo fatto Bingo”. Così la mafia faceva affari tra Expo e Fiera Milano

Le carte dell’inchiesta: “Abbiamo fatto Bingo”. Così la mafia faceva affari tra Expo e Fiera Milano

La Stampa, Giovedì 7 Luglio 2016

Le carte dell’inchiesta: “Abbiamo fatto Bingo”. Così la mafia faceva affari tra Expo e Fiera Milano

Il pressing sui dirigenti per gli appalti, le telefonate e il fiume di contanti verso la Siciliadi Matteo Indice

L’imprenditore Giuseppe Nastasi il piglio da boss ce l’ha nel dna, e al telefono non si trattiene: «Alla Fiera sto addosso come un pitbull… io la vedo come una specie di Alitalia, che tutti i piaceri della parte politica…». In precedenza aveva minacciato i colleghi indisciplinati con frasi da manuale – «Ti sciolgo nell’acido» – e i dirigenti pagati con soldi pubblici a un certo punto sembrano camerieri: «Faccio un sopralluogo di straforo – gli dice Enrico Mantica, direttore tecnico di Nolostand che da Fiera Milano è controllata al 100% -, ci danno le chiavi, possiamo entrare quando vogliamo». Davanti a tanto strapotere c’è pure chi decide di spedire una lettera anonima, in cui si denuncia che sempre Nastasi, patron di fatto del consorzio Dominus ovvero uno dei principali appaltatori della Fiera stessa, è «un mafioso», legato alla cosca di Pietraperzia, che tresca con gli Accardo e lambisce il superlatitante Matteo Messina Denaro. Il problema è che invece di girare l’incartamento alla Procura, di nuovo il manager s’industria per patinare di legalità una situazione fuori controllo: «Lei mette a posto i documenti, il legale rappresentante come si deve e poi se ci chiedono, mandiamo le carte…». I giudici commentano sconfortati: «Per nulla scalfiti, i rapporti diventano sempre più fitti al fine di rinnovare gli incarichi dal 2016 al 2018».  

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LE GARE IN DEROGA  

Com’è stato possibile che i lavori assegnati da uno dei poli espostivi più importanti del Paese (11 maxi-commesse riguardano direttamente allestimenti per Expo) siano finiti quasi dritti nelle mani di Cosa nostra? Lo spiega il tribunale delle misure di prevenzione, che dispone l’amministrazione giudiziaria di Nolostand per esplorarla fino in fondo: «Alcuni indagati per reati di associazione mafiosa hanno avuto, e hanno, contatti continuativi con dirigenti e organi apicali» della Fiera. Non si facevano gare giustificando la «deroga» con i tempi stretti e a capo del consorzio Dominus c’erano prestanome, per dribblare «sia i controlli istituzionali svolti dalla prefettura, sia le procedure d’internal audit; verifiche che, seppur formalmente attivate, non hanno evidenziato anomalie in virtù della mimetizzazione degli inquisiti». I codici etici erano insomma carta straccia, poiché nessuno si preoccupava del fatto che il solito Nastasi e Liborio Pace, suo spicciafaccende dagli altrettanto inquietanti collegamenti con le famiglie siciliane, non ricoprissero alcun ruolo direttivo nell’azienda che rappresentavano pur essendo incontenibili. Insieme, dal luglio 2013 al marzo 2016, timbrano 1132 contatti telefonici con il technical director di Nolostand, Mantica; 500 «con persone inserite nel management di Nolostand fra cui l’ex amministratore delegato Flamino Oggioni» e «130, fra 2014 e 2015, con il management di Fiera Milano». Quando nella primavera 2015 della Fiera è avvicendato l’ad – da Enrico Piazzali a Corrado Pieraboni – Nastasi riesce a incontrarlo e a rinnovare il pressing per rinfrescare gli appalti: «Abbiamo fatto Bingo», racconta alla segretaria dopo il colloquio.

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SOLO INGENUITA’?  

Davvero sono stati solo ingenui, dentro Fiera–Nolostand? Ci sono due episodi che spingono in direzione opposta, in attesa che le rogatorie spieghino a chi erano destinati i soldi afferrati dalla Finanza mentre si muovono verso Slovacchia, Romania e Liechtenstein. Mantica l’anno scorso ribadisce al duo Nastasi-Pace che Raffaele Cantone, allora commissario straordinario Expo, è perplesso: «Cantone dice Fiera no buono… e li ha messi tutti in fila (l’indagine non tocca gare controllate dall’Autorità anticorruzione, ndr)». Più avanti Nastasi si raccomanda d’inserire il padre nel ruolo di presidente Dominus «perché lui sta muto, delle regalie non parla…». Intanto prosegue il riciclaggio d’un fiume di soldi neri – cambiati con le false fatture chiamate in codice «cani» – verso la Sicilia e per un viaggio finisce in cella un avvocato di Caltanissetta, Danilo Tipo. Li nascondono dentro camion, canotti o «sottovuoto con le spezie sopra», mentre in un’occasione si dribblano i controlli all’aeroporto di Linate «grazie a un amico della polizia».