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Latina a mano armata, dopo oltre dieci anni si inizia a fare luce sull’omicidio del boss Moro

Il Fatto Quotidiano

Latina a mano armata, dopo oltre dieci anni si inizia a fare luce sull’omicidio del boss Moro

Massimiliano Moro, ucciso nel suo appartamento nella città pontina nel gennaio 2010 con due colpi di pistola. È la vittima della “guerra criminale” tra le famiglie rom “Ciarelli-Di Silvio” e quelle “non rom”

di Saul Caia | 25 FEBBRAIO 2021

Un omicidio rimasto irrisolto per dieci anni, che era stato inizialmente archiviato senza colpevoli, trova finalmente risposte. Nella newsletter Giustizia di Fatto, vi raccontiamo un episodio di mafia a Latina, dove a governare non sono le regole di Cosa Nostra, ‘ndrangheta o camorra, ma quelle di una criminalità autoctona, il clan sinti dei Di Silvio. Gli “zingari”, arrivati nel territorio pontino negli anni ‘50, hanno dato vita alla famiglia mafiosa che controlla i principali affari illeciti.

Le risposte all’omicidio irrisolto arrivano dall’indagine della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, che ha fatto luce sulla morte di Massimiliano Moro, ucciso nel suo appartamento di Latina nel gennaio 2010 con due colpi di pistola. È la vittima della “guerra criminale pontina”, sfociata proprio a Latina, tra le famiglie rom “Ciarelli-Di Silvio” e quelle “non rom” composta da Mario Nardone e appunto Moro. In arresto, con l’accusa di omicidio aggravato dal metodo mafioso, sono finiti Andrea Pradissitto, Simone Grenga, Fernandino Ciarelli, detto “Furt”, e Ferdinando Ciarelli detto “Macù”.

L’Antefatto. La mattina del 25 gennaio 2010, nel quartiere Pantanaccio di Latina, Carmine Ciarelli, detto Porchettone o Titti, considerato esponente di spicco dell’omonima famiglia, sta facendo colazione al bar Sicuranza. Quando esce, “un uomo a bordo di uno scooter” gli scarica contro 7 colpi di pistola per poi darsi alla fuga. Ciarelli però si salva, trasportato d’urgenza in ospedale in gravissime condizioni. “Attentare alla vita di Ciarelli – scrivono gli investigatori – ha un significato molto importante, tenuto contro della sua elevatissima caratura criminale”. Il Porchettone infatti, oltre ad essere storico “usuraio”, si “è imposto nella malavita pontina” diventando “capo e promotore della nuova alleanza tra le famiglie Ciarelli e Di Silvio”.

Come nei peggiori film di mafia, l’attentato al boss provoca una reazione, che sfocia nella vendetta. La stessa sera, Moro viene trovato morto nel suo appartamento. Due colpi di pistola, uno alla testa e l’altro al collo. Il giorno successivo, a farne le spese è Fabio Buonamano, detto “Bistecca”, legato a Moro, con “colpi d’arma da fuoco e poi investito con l’auto”. Per l’omicidio di Buonamano sono giù stati condannanti in via definitiva i fratelli Di Silvio, Giuseppe detto Romolo, e Costantino detto Patatone, figli di Ferdinandoil Bello”, che perse la vita il 9 luglio 2003 a seguito di un attentato esplosivo, una bomba collocata nella sua auto. Mentre per quello di Moro, il gip del tribunale di Latina archivia per insufficienza di prove.

Moro e la malavita pontina. A far luce sull’omicidio di Mori, ci sono volute le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Renato Pugliese e Agostino Riccardo, che hanno permesso di avere un quadro sugli equilibri criminali e sulla nascita della faida.

Moro era rientrato a Latina nel 2005, dopo essere stato diversi anni latitante all’estero. Su di lui pendeva l’accusa per l’omicidio di Raffaele Micillo (poi assolto), avvenuto nel luglio 1994. Dopo una prima fuga in Romania, era stato arrestato ed estradato in Italia, per poi essere scarcerato. Quindi si era reso ancora irreperibile, andando in Venezuela e celandosi sotto falso nome. Era considerato una persona “molto prudente”, non abituata a ricevere in casa chi non conoscesse. Nel citofono del suo appartamento non risultava il suo cognome, e chi lo andava a trovare sapeva che avrebbe dovuto “sonare tre volte” per farsi aprire, come segnale di riconoscimento.

Per la sua storica presenza, Moro godeva del “rispetto dalla malavita” locale e soprattutto di quella degli “zingari”, con la quale vantava un “amicizia d’infanzia con Romolo”, e per la quale aveva partecipato a gambizzazioni e attentati, proprio per fedeltà al clan.

La notte dell’agguato, scrivono gli investigatori, Moro riceve una telefonata fatta da “una cabina telefonica”, pagamento con monete, ma che non è stato possibile rintracciare.

Il movente dell’omicidio. “Era intendimento del Moro – spiegano gli inquirenti – acquisire il pieno controllo delle attività criminali sulla piazza di Latina”, e rientrato in città si era subito adoperato per creare un suo gruppo, formato da “soggetti capaci dal punto di vista criminale” e “giovani da formare” per scalzare i Ciarelli-Di Silvio.

Inoltre Moro aveva un “debito con Ciarelli” di “180 mila euro” che poi era lievitato con gli interessi a “280 mila euro”, e che “non aveva alcuna intenzione di saldare”.

Dal racconto del collaboratore di giustizia Pugliese, emerge il tentativo di Moro di “organizzare una trappola a Carmine Ciarelli”, con la scusa di incontrarlo per pagargli il debito e poi ucciderlo.

L’attentato che però fallisce, e “nonostante Moro si fosse recato lo stesso pomeriggio”, scrivono gli investigatori, in ospedale a far visita a Ciarelli, e riceve dal padre dell’aggredito l’incarico di “trovare il responsabile dell’agguato e di vendicarlo”, le famiglie rom intuirono la “tragedia” messa in atto da Moro. La sua sorte è ormai segnata.

Quella notte, secondo la ricostruzione fatta da Pugliese, sono “andati in sei” all’agguato, tra cui Andrea Pradissitto, un tempo legato a Moro e poi passato con i Ciarelli, avendone sposato la figlia. Sarebbe stato proprio la figura di Pradissitto, che conosceva bene Moro, a fungere da cavallo di troia del commando.

Ad organizzare la vendetta sarebbe stato Fernando Furt, fratello di Carmine, che voleva partecipasse alla spedizione punitiva anche uno dei nipoti, per rafforzare la presenza della famiglia. Per questo è stato scelto Ferdinando detto Macù che accompagnò Grenga all’interno dell’appartamento di Moro. Sarà proprio quest’ultimo, sposato con la figlia di Luigi Ciarelli (altro fratello di Carmine), ad esplose i colpi mortali.