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L'”ANTIMAFIA DI FACCIATA ” – OVVERO UN’ANTIMAFIA DEL POTERE

 L'”ANTIMAFIA DI FACCIATA ” – OVVERO UN’ANTIMAFIA DEL POTERE- COSTITUITA DA MENTI RAFFINATISSIME CHE TENDONO AD ACCREDITARE LA VERSIONE SECONDO LA QUALE LA MAFIA E’ RAPPRESENTATA SOLO DAL LIVELLO MILITARE E NON,AL CONTRARIO,DA QUELLA DEL PRIMO LIVELLO CHE SPESSO E’ UN’UNICUM,UN’ESPRESSIONE DIRETTA,CON LO STESSO POTERE.QUANDO NOI DELL’ASSOCIAZIONE CAPONNETTO SOSTENIAMO CHE UNA VERA ANTIMAFIA DEVE MANTENERSI DISTANTE E DISTINTA DAL POTERE IN QUANTO QUESTO E’ CONNATURALE CON LA MAFIA !!!!!!!!!!!!!!!!

 

Ardita: “L’antimafia di facciata? Depistaggio sul concorso esterno”

Il consigliere del Csm Sebastiano Ardita analizza gli effetti della sentenza Cedu. Poi una riflessione sul sistema di ‘pupi e pupari’ evocato nel processo Montante.

di Laura Distefano

CATANIA – Catania è una città grigia. In questo cono d’ombra trova spazio la mano della mafia che si infiltra grazie a complicità, compiacenze e collusioni. E in questo melmoso mondo si annidano i geni di Cosa nostra catanese, capace – storicamente – di far operare insieme imprenditori, mafiosi e politici. Sebastiano Ardita nel suo libro ‘Catania bene’ ha analizzato, grazie alla sua profonda esperienza di pm della procura etnea, il modo di agire della mafia catanese. Un tipo di criminalità che secondo il magistrato catanese, oggi consigliere del Csm, dovrebbe” farci comprendere la difficoltà di contrastare questo fenomeno rinunciando a strumenti penetranti”. Intanto il sistema giustizia (e il sistema sano dell’antimafia) sta metabolizzando la bacchettata ricevuta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ardita analizza gli effetti della sentenza della Cedu. Ma anche le motivazioni della sentenza di condanna dell’ex presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, non possono essere messe in un cassetto senza le dovute riflessioni. E la risposta del consigliere del Csm innesta nuovi, e purtroppo inquietanti, punti di osservazione.

Dottor Ardita, intanto chiariamo cosa ha sancito la sentenza Cedu. Perché purtroppo c’è molta disinformazione.

La CEDU, su ricorso di un detenuto italiano, ha ritenuto che – ai fini della concessione dei benefici penitenziari – sia “inumano” non poter tenere conto dei cambiamenti di personalità dei detenuti e dell’eventuale percorso di risocializzazione. La decisione riguarda dunque direttamente i detenuti di mafia (e da qualche mese anche quelli di corruzione) per i quali nel nostro ordinamento l’unica possibilità di concessione dei benefici è legata alla collaborazione con la giustizia.

Secondo lei abbiamo fatto un passo indietro rispetto ai tre decenni di lotte e vittorie dello Stato seguendo le tracce (e il sacrificio) del giudice Falcone?

Non abbiamo fatto alcun passo, perché la Corte europea decide sulla base di principi teorici e generali, l’unico nostro problema è che non siamo stati mai in grado di spiegare all’Europa la specificità della prevenzione antimafia e quale siano il senso e le possibilità applicative di tali norme. Se poi chi approva le leggi combina pasticci tutto precipita. Spesso anche il legislatore rigoroso finisce per confondere la dimensione punitiva con quella di prevenzione. Ad esempio l’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario che poteva essere la norma di prevenzione per eccellenza se riservata alla criminalità organizzata ha finito per ospitare una quantità di ipotesi di reato, per alcune delle quali lo scopo della preclusione dei benefici è esclusivamente quello di penalizzare gli autori di alcuni reati e non quello di disarticolare le organizzazioni. In un sistema in cui le norme di prevenzione risultano inquinate da finalità punitive è più difficile difenderne la funzione.

Lei ha lavorato per molti anni al Dap. L’Italia ha davvero un sistema penitenziario che non è riuscito a mettere la rieducazione al centro della detenzione carceraria? Quali sono i passi da fare?

Quando dirigevo l’ufficio detenuti del DAP abbiamo scritto ed emanato le circolari per organizzare e pianificare le attività rieducative. Credo che gli operatori penitenziari puntino a garantire che nelle carceri ci siano sicurezza e trattamento, ma non possiamo lasciarli soli.

Il regime del 41bis è davvero a rischio?

Ciò che è a rischio è la tenuta dell’idea – di cui sono convinto – che i fenomeni criminali organizzati siano fenomeni endemici e non occasionali. Tutto il resto, e cioè il mantenimento di strumenti adatti a contrastarli, è solo la conseguenza di questa impostazione. .

Molte inchieste, anche recenti, dimostrano come il carcere non riesca molte volte a fermare i contatti tra i capimafia e l’esterno.

Occorre tenere presente che qualunque sistema penitenziario in una democrazia non potrà mai consistere in una segregazione assoluta dei ristretti. Dunque occorre considerare allarmanti solo quei contatti nei quali sia stato eluso il regime speciale del 41bis o si sia comunque consentito di stimolare o dirigere dal carcere attività criminose.

Ci dobbiamo aspettare molte scarcerazioni?

Sinceramente a breve non credo proprio, però potrebbe aprirsi un varco importante ove si sottovalutasse la caratura di personaggi di grande spessore per il solo fatto che abbiano mantenuto una buona condotta penitenziaria.

Le vittime di mafia si stanno ribellando. Hanno ragione?

Le vittime vanno sempre ascoltate, ma qui più che la rabbia per una scarcerazione, conta la sottovalutazione della dimensione organizzativa stabile delle attività criminose. Se cosa nostra venisse veramente sconfitta, tutto sarebbe più semplice. Non credo che un giurista possa essere lieto di una detenzione che dura irreversibilmente per tutta una vita.

Da attento osservatore, secondo lei come si sta evolvendo la criminalità catanese? La mafia militare è duramente colpita da retate e processi, ma c’è quella zona grigia che pare non morire mai.

È proprio la criminalità mafiosa catanese a farci comprendere la difficoltà di contrastare questo fenomeno rinunciando a strumenti penetranti. Però qui si innesta una questione importante. Il contrasto esclusivamente militare porta con se il rischio che la lotta antimafia si trasformi in una giustizia di ceto. Occorre contrastare quei fenomeni di corruzione e collusione che creano disagio sociale e generano le vocazioni al delitto.

Antimafia di facciata. Pupi e pupari. Le parole usate dal gip nella sentenza Montante sono durissime. Lei si è fatto un’idea precisa di questo fenomeno chiamato ‘Antimafia’?

Mi sto convincendo che l’antimafia di facciata – tenendo insieme uomini delle istituzioni e personaggi grigi – sia servita proprio a concentrare il contrasto sui fenomeni militari ed a tenere bassa l’attenzione sul concorso esterno. Se così fosse tutto sarebbe molto più inquietante e complicato. Insomma roba per menti raffinatissime.

Fonte:https://catania.livesicilia.it