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L’Accademia della ‘ndrangheta nel carcere di Vibo Valentia

L’Accademia della ‘ndrangheta nel carcere di Vibo Valentia

Rituali di affiliazione. La “nuova” carica di “Cavaliere di Cristo”. Le regole non scritte per i detenuti. Il materiale ritrovato dagli agenti e le dichiarazioni dei pentiti guidano i magistrati nel mondo dei penitenziari calabresi

17 agosto 2020, 7:25

di Pablo Petrasso


VIBO VALENTIA
«Per mio compare assoluto. Caro compare, voglio che mi mettiate a conoscenza della carica che voi portate. Se fate parte della minore oppure della maggiore. Perché è giusto che io, in qualità di vostro compare e nello stesso tempo essendo un amico degli amici, è giusto che sappia la vostra carica». È soltanto una delle comunicazioni che, negli ultimi anni, la Polizia penitenziaria ha intercettato all’interno del carcere di Vibo Valentia. La Dda di Catanzaro – che dedica un ampio capitolo dell’inchiesta Rinascita Scott al racconto delle dinamiche della locale di ‘ndrangheta del penitenziario – la definisce «formula tipicamente ‘ndranghetistica di comunicazione tra associati». Non possono esserci dubbi, in effetti. Così come è chiaro, sulla scorta delle «dichiarazioni dei collaboratori di giustizia», e delle «attuali risultanze d’indagine» che la realtà carceraria sia «una vera e propria “Accademia della ‘ndrangheta”». Cioè il luogo in cui «effettuare affiliazioni, imparare la terminologia, conoscere la simbologia nonché ove esercitare il proprio carisma criminale incidendo sulla conduzione di vita degli altri detenuti all’interno dell’istituto penitenziario». Il master per i criminali reclusi si traduce in un aumento dei gradi criminali o, spesso, nell’ampliamento di contatti e legami da mettere a frutto nel mondo “esterno”.

Le parole dei pentiti

Il campionario di dichiarazioni è vasto: l’indagine ricostruisce alcuni casi specifici. Come quello del collaboratore di giustizia Luciano Piccolo, «affiliato durante la permanenza presso il Carcere di Locri in un rito che ha visto la partecipazione di 3 figure che hanno composto la sua “copiata”». Uno schema classico, quello della triade di nomi «che supportano l’affiliazione», così come classico è il «riferimento esoterico» alla figura di San Michele Arcangelo: «inizialmente viene incisa una croce sul pollice facendo uscire da questa del sangue che deve macchiare la figura cartacea del santino di San Michele Arcangelo, figura quest’ultima che deve essere bruciata, ponendo la cenere sulla ferita stessa». Poi, «durante la bruciatura del santino, si pronuncia la formula di affiliazione». Le parole di Piccolo raccontano lo schema seguito nei primi anni 90; il pentito Nicola Figliuzzi, invece, parla di fatti più recenti in un interrogatorio reso il 19 dicembre 2017. E racconta di come il suo rito di affiliazione sia avvenuto nel carcere nel periodo di Pasqua, approfittando delle celle aperte. Anche Figliuzzi, killer del clan Patamia, descrive la procedura. «Cristian Loielo – dice – mi tagliava leggermente sul polso della mano destra, con una specie di forbicetta della Chicco (…) abbiamo sovrapposto l’uno sull’altro i polsi destri e abbiamo macchiato con il nostro sangue l’effige di un santino, che subito abbiamo bruciato, pronunciando prima una formula». Poi spiega come avvenga la vita in cella, «evidenziando come sia innanzi tutto la modalità di riconoscimento tra affiliati nonché le varie forme di interrelazione tra i detenuti». Ci sarebbe una gestualità, «un modo per riconoscersi e per presentarsi ad altri ‘ndranghetisti: anche toccando il polso della persona a cui si stringe la mano con il dito indice», oppure, «la pronuncia di una formula cosiddetta “chiamare il posto” con cui un affiliato si presenta e si fa riconoscere. Il grado nella “onorata società” consente al detenuto di avere dei privilegi all’interno della cella». «In base al grado che si ha – riferisce Figliuzzi –, si può scegliere di dormire nel letto posizionato sotto o indicare chi è il capo stanza».

Il rito su una cartolina

Il 9 settembre 2014, nella struttura penitenziaria di Vibo Valentia, gli agenti intercettano un «documento che riproduce un rito ‘ndranghetistico utilizzato per battezzare le persone che fanno ingresso all’interno dell’associazione criminale». Lo trovano in una cartolina indirizzata al detenuto Antonio Campisi, affiliato al clan Mancuso di Limbadi, «ritenuto l’autore dell’omicidio di Vincenzo Barbieri (uno dei più importanti narcos delle cosche vibonesi, ndr), avvenuto a San Calogero». Per i magistrati è un documento importante, «comprensivo anche di un breve compendio sulle modalità dei riti e su come procedere nell’enunciazione della formula, in cui si dovrà stare attenti a sostituire “i nomi Tirrenico – Ionico e Piana che già si sanno”».

Il “Cavaliere di Cristo”

C’è un altro manoscritto agli atti dell’inchiesta. È stato rinvenuto il 17 ottobre 2014 al detenuto Michele Oppedisano, uno dei membri della “società di Rosarno” mentre cercava di consegnarlo ad Antonio Altamura, ritenuto il capo del locale di Ariola di Gerocarne. Per i pm di Catanzaro «in questa circostanza il carcere, nello specifico la struttura penitenziaria di Vibo Valentia, diventa teatro della scoperta di una nuova carica ‘ndranghetistica, il “Cavaliere di Cristo”». Nel solito linguaggio esoterico, l’appunto segnala: «Se prima vi riconoscevo come un fratello di mamma santissima, da oggi in poi vi riconosco come un cavaliere di Cristo appartenente al sacro regno dell’Onnipotente».

Le regole non scritte

La conferma delle regole ferree vigenti nei penitenziari arriva dalle dichiarazioni spontanee di un detenuto di origini siciliane ristretto nel 2013 proprio nel carcere di Vibo Valentia. È lui a evidenziare figure «come il “capo-sezione” e il “capo-stanza”» che compaiono anche nell’inchiesta Rinascita Scott. «Allo stesso modo emergono – appuntano i magistrati –, sempre ad opera del capo stanza, concetti di obblighi imposti ad altri detenuti relativamente a situazioni come la fruizione del pasto, l’utilizzo del telecomando per la tv o all’abbigliamento da tenere». Per l’uomo «la detenzione secondo i costumi calabresi comporterebbe il rispetto di regole non scritte che limitano ancor di più la libertà personale. Tra queste regole posso citare il divieto di permanere in camera a torso nudo. In ogni stanza vi è un detenuto del posto o perché di particolare spessore criminale che detta le regole che tutti gli occupanti la cella debbono rispettare. Il cosiddetto capostanza occupando il posto a capotavola è il primo a sedersi durante la fruizione dei pasti ed è colui che detta anche i tempi di fruizione del pasto… all’interno della sezione vi è un detenuto di riferimento tra quelli del luogo o tra quelli di elevato spessore criminale che vengono interpellati per qualsiasi evento che dovesse interessare la sezione detentiva». Regole fissate dai capi, così come i rituali che si tramandano di generazione in generazione. Un posto nell’Accademia della ‘ndrangheta non si guadagna per caso. (p.petrasso@corrierecal.it)


fonte:https://www.corrieredellacalabria.it/