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La trattativa infinita sulla dissociazione dei boss

L’Espresso

La trattativa infinita sulla dissociazione dei boss

Ventotto anni di negoziato tra offerte, disegni di legge e proclami per una via d’uscita morbida dalle organizzazioni criminali. Così i padrini inseguono la fine del 41 bis

di Enrico Bellavia

23 FEBBRAIO 2021

Dici dissociazione e pensi trattativa. Per questo conviene andare indietro almeno a 28 anni fa. 1993. Per capire cosa accade intorno al ciclico ritorno del tema, bisogna tornare a quell’anno. L’anno delle stragi al Nord, l’anno che precede l’arresto di Giuseppe e Filippo Graviano, l’ultimo boss in ordine di tempo ad avere annunciato la presa di distanza dall’organizzazione senza però “farsi pentito”.

In mezzo c’è la revoca unilaterale del 41 bis che ferma gli eccidi e scongiura l’attentato all’Olimpico. Le manette ai due fratelli stragisti, a gennaio 1994, interrompono il negoziato ma non mandano in soffitta il progetto di una via morbida all’uscita da Cosa nostra: assunzione di responsabilità ma senza accuse ai sodali.

L’idea, mutuata dalla legislazione sul terrorismo, non trova applicazione nelle norme antimafia, ma tenta più di un magistrato di sorveglianza, indotto a vedere nella scelta di dissociarsi quel venir meno dell’attualità del pericolo che intanto fa cadere il regime di carcere duro. Poi, forse, consente l’applicazione dei benefici premiali per chi ha buona condotta da esibire e lunga espiazione. Cade così il tabù dell’ergastolo ostativo. Picconate su picconate, con bollo di Cassazione e Corte Costituzionale, in nome delle garanzie, con più di un sospetto che si tratti di un espediente svuota carceri.

In realtà il negoziato, scolpiranno i giudici di Firenze in sentenza, è già un pezzo avanti. Il perimetro è quello delle carceri. Lì si gioca la partita. Allora come adesso.

Perché il dissociato è solo un ex, non un collaboratore di giustizia il cui profilo era stato disegnato da Giovanni Falcone, ma un “mafioso in sonno”. Se le carceri sono il perimetro, la Chiesa spesso è stata la leva. L’intenzione è buona ma di buone intenzioni, si sa, è lastricata la strada per l’inferno. 

Febbraio 1994, il vescovo dei terremotati, un insospettabile come monsignor Antonio Riboldi, lancia l’idea della resa per centinaia di camorristi. Vogliono accedere al rito abbreviato, che garantisce lo scontro di un terzo della pena. In soldoni significa: niente ergastoli e massimo 30 anni. E a cascata i benefici: lavoro esterno, semilibertà, permessi premio. A settembre di quello stesso anno il pentito Domenico Cuomo gela gli entusiasmi e rivela che quel progetto è la risposta meditata dei vertici della camorra al pentimento di Pasquale Galasso e all’arresto di Carmine Alfieri. A raccontarla più o meno negli stessi termini è anche il casalese Dario De Simone.

Carceri, Chiesa e, naturalmente, Parlamento. Il 29 marzo del 1995 il vice presidente della Camera Luciano Violante tende la mano: «Uscite, venite fuori dalla organizzazione, consegnatevi, e lo Stato saprà valutare con equilibrio questo vostro comportamento. Noi non vi chiediamo necessariamente il pentimento, cioè la collaborazione».

L’autorevolezza del personaggio consente uno sfondamento a sinistra. Don Luigi Ciotti ha il prestigio per metterci il proprio doppio bollo d’assenso. Ma Giancarlo Caselli, procuratore capo a Palermo, nel luglio del 1996 è costretto a raffreddarlo: «La «dissociazione è pericolosa, potrebbe rallentare l’insostituibile contributo di collaborazione e sarebbe un lusso che noi non possiamo consentirci».

Proprio in quei giorni è deflagrata la notizia che a dissociarsi è stato Salvatore Cucuzza, il killer del segretario regionale del Pci Pio La Torre, ucciso nel 1981. Cucuzza, in realtà, prova a rimanere nel limbo ma quando i pm di Palermo gli dicono che deve collaborare, non senza qualche tentennamento, finisce per saltare il fosso.

Ma il Parlamento ha ricevuto: il 13 dicembre del 1996 il senatore Bruno Napoli, del Centro cristiano democratico insieme con i colleghi Davide Nava e Melchiorre Cirami (quello del legittimo sospetto) presentano i 15 articoli del disegno di legge ‘‘Misure a favore di chi si dissocia dalla mafia’’ che nelle intenzioni dovrebbe offrire la «la via istituzionale più genuina e trasparente», quella legislativa.

L’alt dei magistrati è fermo e la questione viene accantonata fino al febbraio del ‘99 quando a riproporla è l’autista di Totò Riina, Salvatore Biondino. Chiede un incontro al procuratore nazionale Pierluigi Vigna e ai procuratori di Palermo e Caltanissetta, Piero Grasso e Giovanni Tinebra. Grasso dice no, Tinebra sì, Vigna vuole spingersi oltre e continua i colloqui investigativi fino ai primi mesi del 2000 oltre che con Biondino con Pietro Aglieri, Giuseppe Madonia e Michele Greco. Tempo dopo, in Antimafia, raccontò che a colpirlo furono le parole di uno dei mammasantissima: «Cosa nostra un tempo era onorata, in un altro tempo faceva paura, ora fa schifo».

I boss proposero di riunirsi per redigere un testo comune che servisse a formalizzare la loro scelta. A parole non chiedevano neppure la revoca del 41 bis, ma solo un invito alle nuove generazioni a non seguire il loro esempio. Vigna disse che dal governo non arrivò il via libera e la questione si arenò ancora.  

Il 6 giugno del 2000 è l’avvocato Carlo Taormina dice al Giornale: «Credo che lo Stato sia divenuto abbastanza forte in confronto della mafia. Mi chiedo se non sia il caso di intraprendere quella strada (la dissociazione) anche per i mafiosi al fine di riconsiderare razionalmente la questione carceraria di questi detenuti».

Due giorni dopo parla il procuratore nisseno Tinebra e apre alla dissociazione, ma poi l’anno dopo, frattanto diventato capo delle carceri, dirà al Corriere della Sera di aver cambiato idea.

Ma nel giugno del 2000 vuole dire la sua anche l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino che al Messaggero offre anche la data di morte della mafia, 1958: «Dopo è solo delinquenza». Tira in ballo i tentativi di Vigna e lancia un segnale diretto alla politica. «Lo Stato non è Vigna e per trattare bisogna essere in due». Il 6 febbraio del 2001 Repubblica rivela ciò che è accaduto. Racconta di Biondino e degli incontri con Vigna, della linea concordata dai boss e della posizione diversa assunta da Pietro Aglieri, dissociato sì ma disinteressato a qualunque contropartita, in linea con un proprio percorso spirituale. Sarà per questo che il suo avvocato ribadisce: «Dissociazione? Per me è una malattia mentale».

A settembre del 2001 un pezzo da novanta come Pippo Calò, il plenipotenziario a Roma della cupola mafiosa si dissocia pubblicamente ammettendo di aver fatto parte della commissione mafiosa ma negando la propria responsabilità nelle stragi: «Decideva tutto uno solo e il nome non posso farlo».

Sul finire di quell’anno il procuratore aggiunto di Palermo, Guido Lo Forte denuncia: «Temiamo patti con le istituzioni». Proprio in quei giorni il collega Alfonso Sabella magistrato di Palermo in forza al Dap è stato messo alla porta dal ministro della giustizia, il leghista Roberto Castelli. La cacciata ha una ragione precisa: si è opposto alle manovre sulla dissociazione all’interno delle carceri. Anzi, di Rebibbia in particolare, dove convivono Biondino, libero di spostarsi di cella in cella come scopino, Salvatore Imerti, big della ‘ndrangheta calabrese, Pietro Aglieri, Giuseppe ‘Piddu’ Madonia, Salvatore Buscemi, e Giuseppe Farinella, ovvero tutti i boss siciliani della linea morbida.

Il 12 luglio 2002 il cognato di Riina, Leoluca Bagarella parla da L’Aquila e legge un proclama in cui allude a «promesse che non sono state mantenute» e dice che i detenuti al 41 bis si sentono «presi in giro». Poi dà la scossa: «Siamo stanchi di essere strumentalizzati dalle forze politiche».

A seguire ci tengono a far sapere che sono d’accordo Salvatore Madonia, Cristoforo Cannella e Giuseppe Giuliano che il 16 luglio 2002 scrivono a Daniele Capezzone, allora segretario dei Radicali per dare una strigliata ai legali che ora siedono in Parlamento: «Erano i primi, quando svolgevano la professione forense, a deprecare più degli altri l’applicazione del 41 bis. Allora svolgevano la professione solo per far cassa».

Come dire: siete arrichiti con i processi, siete ora in condizione di fare leggi e scardinare il 41 bis e ve ne state fermi?

Nel 2003 e 2004 dalle carceri partono altri segnali, uno arriva all’ex ministro Roberto Castelli che lo rivelò nel 2011, dicendo che respinse l’offerta dopo essersi consultato con dei magistrati.

Nel 2013 in Parlamento arriva il ddl del senatore di Gal Lucio Barani, che «ipotizza un indulto fino a 8 anni che comprende reati di mafia alla sola condizione della completa divulgazione di reati commessi durante la militanza in organizzazioni di tipo mafioso». Ed è l’allora procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi ad alzare lo scudo: è «l’ennesimo tentativo surrettizio di introdurre una blanda dissociazione per concedere a pericolosissimi criminali un salvacondotto per gravissimi crimini di mafia».

La malattia “mentale” della dissociazione si è fatta contagio.