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La strage sventata dell’Addaura fu l’inizio della fine di Giovanni Falcone: la pista bresciana

L’Espresso

La strage sventata dell’Addaura fu l’inizio della fine di Giovanni Falcone: la pista bresciana

Per il fallito attentato del 1989 la mafia ha usato lo stesso esplosivo dell’autobomba contro il giudice Carlo Palermo: il Brixia prodotto a Ghedi. In quei mesi il magistrato poi ucciso a Capaci indagava su droga, armi e imprenditori del Nord che riciclavano soldi sporchi

di Paolo Biondani

18 MAGGIO 2022

Brixia. È l’antico nome romano della città di Brescia. Ma è anche una marca particolare di esplosivo. Nel 1989 almeno due killer di Cosa Nostra hanno collocato 58 candelotti di Brixia tra gli scogli dell’Addaura, davanti alla casa al mare affittata da Giovanni Falcone, per uccidere il giudice antimafia. L’attentato è fallito solo perché la borsa piena di esplosivo fu scoperta, alle 7.30 del mattino del 21 giugno 1989, da quattro poliziotti della scorta. L’ordigno era pronto a scoppiare e poteva ammazzare chiunque nel raggio di 60 metri (come hanno accertato quattro periti, sbugiardando le voci di un finto attentato, diffuse dai mafiosi e rilanciate anche da personaggi delle istituzioni) con due detonatori già in funzione, attivabili con un radiocomando. Tre anni prima della strage di Capaci, quell’attentato sventato fu l’inizio della fine di Falcone: isolato, calunniato e delegittimato da mesi, il magistrato avvertì subito la gravità dell’attacco parlando di «menti raffinatissime». Parole rimaste enigmatiche, nonostante diversi processi e le condanne definitive dei boss mafiosi capeggiati da Totò Riina.

Le sentenze confermano l’assoluta segretezza dell’attentato dell’Addaura anche all’interno di Cosa Nostra. Tra centinaia di pentiti di mafia, pochissimi ne hanno saputo qualcosa. Il primo a parlarne, solo nel luglio 1996, fu Giovambattista Ferrante, un collaboratore di giustizia di comprovata attendibilità, che aveva custodito e preparato l’esplosivo Brixia. L’attentato fu deciso non dalla commissione, la cosiddetta cupola che riuniva tutti i capi-mandamento, ma da un vertice ristretto dei boss corleonesi. Come mandante è stato condannato l’allora capo dei capi Salvatore Riina, come organizzatori il suo braccio destro Salvatore Biondino e il boss palermitano Antonino Madonia, come autori materiali due mafiosi della famiglia assegnataria del territorio dell’Addaura, Angelo e Vincenzo Galatolo. Nei primi processi erano rimasti «avvolti nell’oscurità più profonda», come si legge nelle sentenze, perfino i nomi degli esecutori.

Dopo Ferrante, un altro pentito, Francesco Onorato, ha descritto la riunione preparatoria con Madonia e Biondino, che solo «cinque o sei giorni prima» gli diede l’ordine di spiare la casa di Falcone. Quando ha confessato i suoi delitti, Giovanni Brusca ha potuto aggiungere solo un’allusione successiva di Riina: una settimana dopo la strage di Capaci, nel famigerato brindisi tra boss per festeggiare la morte del magistrato, Biondino attaccò Madonia per aver fallito l’attentato di tre anni prima, affidandolo a giovani «picciutteddi» incapaci. E Riina, senza smentirlo, gli intimò di tacere: «Ora lo abbiamo fatto, non ne parliamo più».

Le parole di Falcone sulle «menti raffinatissime» hanno spinto diverse procure a indagare su complicità esterne alla mafia, o quantomeno convergenze di interessi, e possibili coperture istituzionali. Il pentito Francesco Di Carlo ha parlato di quattro emissari dei servizi segreti, un italiano e tre stranieri, che dopo l’Addaura, nel 1990, gli chiesero di trovare un killer di mafia per eliminare Falcone. Mentre Angelo Siino ha chiamato in causa un big della massoneria. I sospetti di depistaggio sono rafforzati dalla condanna per falso documentale e falsa testimonianza dell’artificiere dei carabinieri, Vincenzo Tumino, che arrivò solo alle 11.30 all’Addaura, dove decise di distruggere con una micro-carica il congegno d’innesco, eliminando così una prova: ai processi, di fronte ai giudici e ai periti che gli rimproveravano quel «grave errore tecnico», ha cambiato versione più volte, accusando altri ufficiali (innocenti) o inventandosi di aver visto un timer, che invece non c’era.

Le indagini degli ultimi anni ipotizzano anche legami con l’omicidio del poliziotto Antonino Agostino, ucciso con la moglie a Palermo nell’agosto 1989, e con la tragica scomparsa del suo collega Emanuele Piazza. I sospetti su apparati deviati dei servizi sono talmente diffusi che il boss Madonia ha potuto strumentalizzarli per proporre una pista alternativa a Cosa Nostra, stroncata dalla Cassazione che reso definitive le condanne dei mafiosi.

Tra tante ipotesi investigative in attesa di conferme, indagini da approfondire, testimonianze parziali, depistaggi e illazioni dietrologiche, questa inchiesta giornalistica ricostruisce, semplicemente, le cose che stavano davanti agli occhi di Falcone quando fu trovata la bomba dell’Addaura. Prima di tutto, quel tipo di esplosivo, con la X di Brixia in evidenza in tutte le foto, che permisero al pentito Ferrante di riconoscerlo con certezza. Cosa Nostra lo ha usato solo per un’altra strage: l’attentato in autostrada contro un altro giudice, Carlo Palermo, ferito dall’autobomba che il 2 aprile 1985, a Pizzolungo (Trapani), distrusse una macchina in transito e uccise una madre, Barbara Rizzo, con i suoi gemellini di 6 anni, Salvatore e Giuseppe Asta. Per quella strage sono stati condannati Riina, un boss di Trapani e altri due mafiosi dell’attentato all’Addaura.

Carlo Palermo si era trasferito da Trento a Trapani per portare avanti le indagini di un magistrato, Giangiacomo Ciaccio Montalto, il primo a indagare sulla mafia di quella provincia e sui traffici di droga e armi da guerra, che fu ucciso da tre killer nella notte del 25 gennaio 1983. A Trento il giudice Palermo aveva aperto la prima istruttoria su quei traffici internazionali, fondata su un rapporto del Viminale che segnalava l’arrivo in Siria e Turchia di navi che partivano dalla Sicilia con armi da guerra, da scambiare con carichi di droga. Attaccato dal Psi di Craxi, il giudice si vide scippare e insabbiare l’inchiesta. Prima dell’attentato di Pizzolungo, si è sentito e incontrato con Falcone, che era amico anche di Ciaccio Montalto, che negli anni ’70 lo aveva salvato dall’aggressione di un detenuto.

Falcone ha difeso anche pubblicamente le indagini dei colleghi. Ha scelto di farlo a Brescia, nel febbraio 1984, a un convegno all’università dove ha lanciato l’allarme sulla «saldatura fra traffici internazionali di armi e di stupefacenti». Ha parlato di «gravi e complesse istruttorie» che hanno «accertato scambi tra eroina e forniture di armi sofisticate in Medio Oriente da parte di organizzazioni mafiose siciliane». Falcone a Brescia ha denunciato anche «l’intima connessione» di quei traffici con «le attività finanziarie di riciclaggio internazionale del denaro, effettuate da menti esperte».

Nei giorni dell’attentato dell’Addaura, Falcone stava indagando con due magistrati elvetici, Carla Del Ponte e Claudio Lehmann, proprio sul riciclaggio dei soldi accumulati dalla mafia nelle banche svizzere. A Lugano, nel febbraio 1989, avevano interrogato insieme un imprenditore di Brescia, Oliviero Tognoli, arrestato dopo cinque anni di latitanza. È l’inchiesta che ha poi portato alla condanna di Vito Roberto Palazzolo, il grande riciclatore dei tesori di Cosa Nostra, sequestrati solo in minima parte negli anni successivi. Falcone aveva accolto a Palermo i colleghi e li aveva invitati a fare il bagno all’Addaura proprio nel giorno in cui fu scoperta la bomba. Dopo la sua morte, i due magistrati svizzeri hanno testimoniato sotto giuramento che Tognoli in Svizzera aveva iniziato a parlare, confidando tra l’altro che era stato il poliziotto Bruno Contrada, nel 1984, a fare la soffiata che gli permise di scappare, ma rifiutandosi di sottoscrivere l’accusa in un verbale, per paura. In Italia Contrada è stato condannato con sentenza definitiva, che però è stata cancellata da un discusso verdetto della Corte europea, che ha dichiarato inapplicabile l’accusa di concorso esterno, senza smentire i fatti accertati. Le sentenze sull’Addaura confermano il «legame evidente» tra l’attentato e la missione a Palermo dei magistrati svizzeri, finiti con Falcone nel mirino della mafia.

Contrada ha sempre smentito ogni accusa. E il suo lunghissimo processo non è bastato a chiarire perché avesse tradito il pool antimafia per favorire proprio quell’imprenditore di Brescia. L’Espresso ora ha scoperto che, nei mesi che precedono l’attentato all’Addaura, Falcone stava lavorando a un’indagine più ampia sulla finanza bresciana. E ha rintracciato uno dei testimoni, un nobile che vive in uno splendido castello vicino a Parma: il principe Diofebo Meli Lupi di Soragna. In salotto, accanto al suo cane da caccia, il nobile aggrotta le ciglia mentre si sforza di ricordare tutti i dettagli dell’interrogatorio con Falcone: «Mi aveva convocato a Palermo come consigliere d’amministratore della Fintbrescia, la società di leasing del gruppo Finbrescia. Ho preso l’aereo e ho dormito in albergo. Falcone mi ha sentito nel suo ufficio, seduto alla sua scrivania. Voleva sapere perché una società di Brescia aveva finanziato una ditta siciliana, mi pare di trasporti, poi fallita, e chi aveva deciso quell’operazione. Ricordo la sua cordialità e gentilezza: era un vero signore, serio e correttissimo. Era molto interessato alle mie risposte e mi ha salutato calorosamente. Quando sono tornato a Brescia, mi è arrivata in ufficio una sua lettera personale di ringraziamento».

Più di trent’anni dopo, il principe non sa precisare il nome della società siciliana su cui indagava Falcone. La Fintbrescia è fallita nel 1990, proprio per aver prestato troppi soldi a imprese disastrate. A comandare nell’intero gruppo Finbrescia, ricorda il nobile, erano quattro grandi azionisti, tutti bresciani, che negli anni d’oro erano ricchissimi e controllavano decine di aziende con soci eccellenti, dalla Valtur al Banco Ambrosiano. Al nome di Tognoli, il principe risponde che ne aveva sentito parlare perché frequentava uno degli azionisti, ma non ricorda altro. Dopo l’Addaura, quando Falcone è stato esautorato, di questa indagine si è perso anche la memoria.

Scavando nel passato, oggi emerge un’impressionante catena di coincidenze che legano Brescia e Palermo. I candelotti dell’Addaura sono stati prodotti dalla Sei (Società esplosivi industriali) nella fabbrica di Ghedi, che ha chiuso nel 1985. La mafia di Trapani ne aveva a quintali. Il pentito Ferrante ricorda di averne portati «diversi sacchi a Palermo, circa 200 chili» prima dell’attentato al giudice Carlo Palermo. A consegnare il carico fu un colletto bianco della mafia di Trapani, Bruno Calcedonio: «un architetto, molto distinto, alto, con barba e capelli brizzolati, ben curati». Cinque anni dopo la strage di Pizzolungo, per colpire Falcone e i magistrati svizzeri all’Addaura, i boss Riina e Madonia decisero di usare proprio l’esplosivo bresciano, rimasto fino ad allora imboscato vicino a Palermo: una richiesta che sorprese i custodi mafiosi. Ebbene: il gruppo Finbrescia, tra le sue partecipazioni, aveva il 18 per cento della Misar, una fabbrica bresciana di mine fondata nel 1977 da ex tecnici della Valsella, che aveva come fornitore la Sei di Ghedi. Le mine della Misar, in pratica, venivano riempite con esplosivo prodotto dalla stessa fabbrica del Brixia.

Altro tragico collegamento. Riccardo Pisa, uno dei grandi azionisti del gruppo Finbrescia, è nato a Palermo, dove si era trasferito e aveva fatto fortuna il padre, Piero, che nel capoluogo siciliano ha fondato grosse società di costruzioni, come Cpc e Abc (Anonima bresciana costruzioni), che hanno edificato tra l’altro l’aeroporto di Punta Raisi. Piero Pisa è stato ucciso dalla mafia a Palermo il 4 gennaio 1982. Si è detto che si era rifiutato di pagare il pizzo. Ma l’omicidio è rimasto impunito: un caso irrisolto.

Ultima suggestiva coincidenza, tra le tante che si potrebbero citare. Antonio Spada, socio fondatore e grande azionista della Finbrescia, è stato sentito nel processo sulle stragi mafiose del 1993, come testimone, perché era il tesoriere dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio. Un ente cavalleresco con 1500 affiliati, da principi borbonici a vertici militari e leader politici, che riuniva la sua giunta esecutiva all’interno di uno dei monumenti che furono scelti come bersagli di Cosa Nostra (non si è mai saputo da chi e perché): la chiesa di San Giorgio al Velabro. Nelle sentenze sull’Addaura si legge che sulla borsa sportiva che custodiva l’esplosivo della mafia c’era un marchio vistoso: «Veleria San Giorgio».