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La quinta mafia, di Antonio Turri

Dossier Lazio. Così nasce la “quinta mafia”
di Antonio Turri

Il mensile “Narcomafie” fondato da Luigi Ciotti, e da diciotto anni in prima fila nella denuncia e nella documentazione degli “affari” di mafia, camorra, ‘ndrangheta e criminalità organizzata, pubblica un corposo “Dossier Lazio”.

Nell’articolo che segue – e che fa parte di questo dossier – “Così nasce la “quinta mafia”, di Antonio Turri, si racconta dell’inquietante mix, complesso e variegato, di mafie tradizionali, colletti bianchi e delinquenti locali, boss in grado di reinvestire il denaro di Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta. Nel Lazio si è radicata una “quinta mafia”, pronta a trasformarsi da soggetto dell’anti-Stato a soggetto collaborante, grazie a figure deviate della politica e della pubblica amministrazione.

Nessuno sembra crederlo, ma alcuni tra gli emergenti signori delle mafie, che abbondano di denaro, reinvestendo nel ciclo del cemento, nella gestione illegale dei rifiuti o in altre redditizie attività economiche, formalmente legali, è gente de noantri. Costoro stabiliscono se impegnarsi direttamente o farsi rappresentare nelle amministrazioni comunali, provinciali, nella Regione, nel Parlamento e nei luoghi dove si decide il destino dei più.

Tutti presenti nella capitale. Puoi notare i mafiosi di “casa nostra” indaffarati e sorridenti in via Veneto a Roma, nella piazza del comune di Latina, nelle zone antistante i porti di Anzio e Nettuno, nelle vie del centro di Fondi, nelle piazze di Sabaudia, di San Felice Circeo, di Terracina, di Formia, di Ostia, di Civitavecchia o di Cassino, intenti a decidere le strategie economiche e politiche finalizzate, sempre e comunque al denaro e al potere.

I capi di questa quinta mafia sono nostri corregionali, nati a Roma o nei centri del Lazio o da moltissimi anni qui residenti, hanno appreso e messo in pratica, negli anni, le strategie e i metodi dei vecchi boss, giunti sulle terre degli antichi Latini sin dagli anni ’70, chi al soggiorno obbligato, chi per fungere da ambasciatore alle cosche, come Frank Coppola e Pippo Calò, solo per citare i due più famosi.

La quinta mafia è un mix esplosivo composto da colletti bianchi, faccendieri della politica, delinquenti comuni in carriera ed elementi di spicco delle mafie “tradizionali” che, da anni, sono presenti ed operanti a Roma e nel Lazio. I boss di casa nostra sono specialisti nel reinventare a Roma, e da qui nel resto d’Italia, i capitali sporchi delle famiglie della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta e quelli di provenienza autoctona.

Le cosche laziali, con i cospicui capitali accumulati, hanno cementificato, sin dai primi anni ’70, parte del litorale laziale facendo spuntare come funghi centinaia di centri commerciali in molte città della Regione.

Per avere un’idea di cosa sia successo, basta percorrere le strade litoranee che, subito dopo il fiume Garigliano, da Marina di Minturno, passando per Sperlonga, Fondi, il lido di Lavinio, Torvaianica, Ostia, giungono a Civitavecchia o che dal confine con la Campania risalgono nel Cassinate e in gran parte della provincia di Frosinone. Per comprendere come sia possibile realizzare grattacieli e centri commerciali che rimangono vuoti, è sufficiente fare un giro all’interno delle città che costeggiano la strada Pontina, da Latina ad Aprilia a Pomezia fino al quartiere Spinacelo, alle porte di Roma. Al momento, ad eccezione di “Libera” e di poche altre realtà associative, nessuno chiede di risalire all’origine dei capitali impiegati per costruire decine di migliaia di immobili rimasti invenduti.

Fondi è solo la punta di un iceberg. Ad oggi, nonostante la domanda sia inesistente, si continua a costruire e la magistratura locale si confronta con episodi strabilianti come quello di un pensionato a basso reddito di Casal di Principe ed una anziana signora di Aprilia (LT) che acquistano con alcuni milioni di euro, le quote societarie di un grattacielo in pieno centro a Latina. C’era da aspettarselo. Le mafie come il cancro tendono ad invadere tessuti sani, sviluppando metastasi.

Roma e il Lazio, in particolare il sud della regione, non dovevano avere come fronte la penetrazione dei “clan” il solo confine rappresentato dal fiume Garigliano: parte consistente di questi territori restano presidiate da poche decine di carabinieri e poliziotti e sono amministrati da “pezzi” della politica che negano tuttora l’emergenza mafie. In queste aree, esponenti della politica e dell’imprenditoria locale sono collusi con le cosche o ne sono parte costituente e hanno fatto della corruzione e del voto di scambio una sorta di modus operandi perpetuo e impunito. I casi eclatanti che hanno riguardato le note vicende di Nettuno e Fondi sono solo la punta dell’iceberg.

L’ascesa dei boss senza lupara. Le mafie autoctone laziali e quelle d’importazione, forti della capacità corruttrice dovuta alle ingenti quantità di ricchezze accumulate mediante il traffico degli stupefacenti, la tratta degli esseri umani, lo sviluppo della pratica dell’usura, della gestione del gioco d’azzardo e del riciclaggio del denaro sporco,hanno ben compreso come qualunque strategia di consolidamento criminale non poteva non passare per il centro politico ed economico del paese: Rom. I boss senza coppola e lupara hanno sviluppato le loro innumerevoli attività criminali e di riciclaggio del denaro sporco nel nord d’Italia e in importanti paesi europei ed extra-europei, favorendo anche in altre realtà territoriali la nascita e lo sviluppo di mafie autoctone, capaci di collaborare con le mafie “storiche” e con le mafie straniere, in particolare con quella cinese e quella emergente russa. E’ stato il caso, ad esempio, del supporto e della collaborazione, mai negata da alcuno dei clan mafiosi del sud d’Italia alla banda della Magliana e al loro “cassiere” Enrico Nicoletti.

La mafia sottovalutata. Solo per citare un esempio recentissimo, tra i molti, si pensi al caso rivelatore del rapporto tra ‘ndrangheta, triade cinese e quinta mafia che ha riguardato, negli ultimi mesi, il traffico di merce contraffatta che, sbarcando nel porto di Gioia Tauro, invade i mercati italiani.

Il 21 dicembre scorso, i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato 27 presunti esponenti della criminalità organizzata che controllavano importanti attività commerciali nel porto di Gioia Tauro. Gli indagati sono accusati di associazione mafiosa, ma anche di importazione di ingenti quantità di prodotti cinesi con la complicità di società di import-export. Sono stati nel corso dell’operazione di polizia rinvenuti e sequestrati numerosi container di merce contraffatta, il cui valore ammonta a decine di milioni di euro. La Dda di Reggio Calabria ha appurato che i proventi del traffico venivano riciclati in strutture immobiliari e attività alberghiere da società con sede a Sesto Fiorentino (FI) e da altre il cui patrimonio consiste, tra l’altro, in quote sociali della struttura alberghiera “Villa Vecchia” di Monte Porzio Catone, in provincia di Roma, intestata alla “Ita Srl” (Investimenti Turistici Alberghieri), che ha sede a Colleferro, sempre in provincia di Roma. Altri beni sequestrati sono riconducibili alle società “Virgilio Project srl”, entrambe con sede legale a Monte Porzio Catone. Il valore degli immobili sequestrati è stato valutato in circa 50 milioni di euro. Tra le persone arrestate dai ROS di Reggio Calabria figurano “personaggi” calabresi riconducibili alle cosche Molé e Piromalli, due cinesi, due romani e un cittadino di Segni (Roma). Nella vicenda è rimasto coinvolto un personaggio iscritto alla loggia massonica P2, come dire altro genere di coppole.

Il tutto a dimostrazione di come il crimine organizzato non ha barriere di tipo campanilistico e che rende di più alle mafie, comprese le autoctone, investire i proventi dei traffici illeciti in alberghi a Roma e nel Lazio o in Toscana, in Emilia Romagna e Lombardia, piuttosto che a Polistena o Rosario, e che i vecchi concetti di cosche di tipo familiare sono in via di superamento.

Questa è la quinta mafia, negata e sottovalutata, anche sui territori della capitale, ma capace e spietata, come ha dimostrato l’esito del recente processo “Anni Novanta” al ramo laziale dei casalesi e della mafia pontina conclusosi di recente, innanzi la Corte d’Assiste del tribunale di Latina, e che è costato l’ergastolo a boss locali e alla primula rossa della camorra casertana Michele Zagaria.

L’ala militare della quinta mafia dai primi anni ’80 si è resa responsabile di decine e decine di omicidi consumati tra Minturno e Roma, di centinaia di attentati incendiari e dinamitardi commessi per controllare il territorio, per facilitare i propri traffici criminali, per ridurre all’impotenza o convincere alla collaborazione la delinquenza comune locale.

Fine prima parte.

(Tratto da Notizie Radicali)