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La mafia c’é, ma non c’é

Rifiuti e corruzione, ecomafie e usura, infiltrazioni nell’economia e negli appalti e riciclaggio, racket e droga, prostituzione e mafie straniere. Campanelli d’allarme a ripetizione nel corso di un 15ennio. Con tanto di visite ministeriali, istituzioni di corpi investigativi speciali, riflettori puntati da parte del Parlamento, della Dna, della Dia e della commissione antimafia. Eppure quel pendolo della consapevolezza oscilla, ciclicamente.

La parabola sale. Da pochi mesi al Viminale, Bobo Maroni arriva in Abruzzo per incontrare il gotha delle istituzioni regionali e locali. La questione mafiosa è aperta. Dal solito procuratore De Nicola riceve un rapporto dettagliato, con un avvertimento: dopo la criminalità economica arriva quella armata. E una richiesta: gli organici delle procure, soprattutto a Pescara, sono ridotti. Maroni incassa e promette attenzione. La politica e le autorità giudiziarie mantengono la guardia, almeno a parole. Non durerà a lungo. Nel ’96, alla vigilia del varo del governo Prodi, dall’associazione Libera arriva la chiamata generale alle armi: citando i dati della Dia, si ravvisa come le estorsioni aumentino soprattutto nelle regioni “non convenzionali”, e cioè Lazio e Toscana, Marche e Abruzzo. Le mafie sono in tutt’Italia, vigilare.

La parabola scende. Prodi è presidente del consiglio e a guidare la commissione parlamentare antimafia va un abruzzese, famoso, Ottaviano Del Turco, leader dello Sdi, i socialisti sopravvissuti all’ecatombe di Mani pulite. Condizioni ideali, almeno sulla carta. Ma la lotta alle mafie in Abruzzo non si fa neanche a parole. Semplicemente perché la mafia torna a non esistere. O nella migliore delle ipotesi è un malanno in un corpo sano, da debellare con l’aspirina, ma facendo attenzione a non alimentare l’allarmismo (sacrosanto) perché altrimenti i turisti scappano (un po’ meno sacrosanto).

Il bomber del riduzionismo. Del Turco mette a segno una splendida tripletta tra il ’97 e il ’99, perle di negazionismo, ancora più gravi considerato il ruolo istituzionale ricoperto e lo spessore del politico. Uno. Nel ’97 la Legambiente lancia l’allarme ecomafie: troppe cave, troppi terreni disabitati e non controllati, le ecomafie sversano quello che vogliono. Traffici confermati dalla Dda di Roma. Per Del Turco esagerano. Perché “per parlare di mafia bisognerebbe rilevare un controllo militare della malavita sul territorio, un’omertà insopportabile e l’inquinamento della politica e della pubblica amministrazione, condizioni che francamente mi sembra ridicolo individuare in Abruzzo”. I fatti lo smentiranno clamorosamente. Due. Il vecchio socialista tira fuori la retorica dell’alibi, parlando a Oppido Mamertina in tempo di faide calabresi. E cioè a chi chiede lavoro per sconfiggere la ‘ndrangheta, il capo dell’Antimafia dice  che “nel mio paese, in Abruzzo, la disoccupazione è uguale a quella di Oppido, ma l’ultimo crimine commesso risale a decenni fa”. Tre. Siamo nel ’99 e nelle supercarceri dell’Italia Centrale qualcosa non funziona, perché dal 41 bis arrivano papelli e proclami. Ci sono delle connivenze. E allora Del Turco si preoccupa di impedire che “l’Abruzzo e le altre regioni che non l’hanno ancora sperimentato come altre zone del Meridione conoscano il flagello della mafia”.

L’assist. Una sola realizzazione, ma davvero di notevole fattura quella di Edo Ronchi. Siamo ancora nel ’98 e si parla di ecomafie nelle lande della Marsica e sulla costa adriatica. Il ministro dell’Ambiente del centrosinistra è lapidario: “L’Abruzzo non fa registrare infiltrazioni di criminalità organizzata quali mafia, ‘ndrangheta e camorra”. Quando non spara, la mafia non esiste. Eppure la Dia decide pochi mesi dopo, nel ’99, di istituire un gruppo di lavoro sperimentale che si occuperà delle aree criminali non tradizionali, il Nat. Il compito è quello di studiare l’evoluzione degli assetti criminali reali, cioè “non visibili perché non ancora compiutamente individuati”.

L’emergenza rapine. Puntuali ogni anno arrivano analisi dai risultati costanti: la presenza mafiosa si stabilizza, si radica. Nuovi allarmi e nuove frontiere. Ma tanti silenzi. Addirittura nel 2005 prefetti e forze dell’ordine si siedono attorno a un tavolo per dire che in Abruzzo la mafia non esiste, ma ci sono troppe rapine, tanto che bisogna creare una task force intercorpi nelle quattro province. La mafia non si vede, quindi non c’è.

Ritorno all’isola felice. Ci sono voluti dieci anni, ma alla fine ci si è riusciti: l’Abruzzo è di nuovo un’isola felice. Anzi, non ha mai smesso di esserlo. Il negazionismo lascia ormai il campo alla rimozione. E se proprio c’è qualcosa che turba l’ordine e la pace, deve essere qualcosa di estraneo, di esterno come le mafie straniere (Anno giudiziario 2001, avvocato generale presso la Corte di Appello dell’Aquila, Brizio Montanaro). A cambiare è la prospettiva: le mafie non preoccupano più, perché non sono

Le mafie di passaggio. Ecco che nel ritornello incappa anche il ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu. Nel 2005 a Chieti si lascia andare all’ottimismo sfrenato: l’Abruzzo è la regione più sicura d’Italia. Perché? Il futuro presidente della commissione antimafia la mette sull’antropologico: sarà “l’indole pacifica degli abruzzesi”. Che non stuprano, non rubano, e non si ubriacano più di tanto. Peccato che troppi immigrati contribuiscono “ad innalzare il livello di delittuosità nella regione. E spesso si tratta di immigrati irregolari, di clandestini”. Quindi di delinquenti gioco-forza. Nel discorso di Pisanu trovano posto anche le mafie, ma solo “di passaggio”, o meglio l’Abruzzo è una “terra di passaggio” per il crimine organizzato. Che vorrebbe insediarsi ma non ci riesce. Anche se lo stesso Pisanu ammette che nel solo 2004 sono state sgominate 25 associazioni criminali, e catturati tre capi mafia latitanti. Che passavano di là. Il tono si fa minaccioso quando il ministro tira fuori una sfilza di gentilizi: “Avvertiamo i pericoli – dice ai chietini – nel muoversi di mafie interne e internazionali, non ci sfuggirà la presenza di cittadini albanesi, senegalesi, rumeni, cinesi, maghrebini, con forti inclinazioni a delinquere, né quella di organizzazioni eversive, come è successo con i mujaheddin del popolo iraniano o con appartenenti al movimento hezbollah libanese”. La promessa è stata mantenuta: la lotta armata medio-orientale non ha preso piede in

Lo stile Grasso. Diplomatico sin dall’avvio del mandato, il procuratore nazionale antimafia a domanda risponde: “Abruzzo isola felice? Se lo siete cercate di restarlo”. Ammette di non saperne troppo, però si rifiuta “di credere che la mafia sia a Pescara come a Palermo”.

La rimozione. L’invito dalle procure è alla cautela nelle analisi, per evitare allarmismi, e soprattutto alla massima vigilanza, perché il rischio infiltrazioni è innegabile. Quello che sfugge alle analisi dei commentatori è la memoria del passato, del biennio ’92-’93, della relazione Smuraglia, delle presenze accertate, di un certo grado di inquinamento mafioso, nella politica e nell’economia, dati senza alcuna rilevanza penale, ma comprovati. Ecco che la relazione d’inaugurazione dell’anno giudiziario 2007 racconta di un “Abruzzo ancora isola felice”. Anche se è in corso un’inchiesta su infiltrazioni della ‘ndrangheta, si tratta di fatti dal “carattere sporadico”. Di stabili ci sono straccioni albanesi e sudamericani, che trattano in prostitute e in droga. Eppure, gli stessi magistrati dicono che usura, estorsioni, reati finanziari e fallimenti sono in vertiginoso aumento.

In controtendenza. Il presidente della commissione antimafia Francesco Forgione alza un po’ la media. Parlando nel marzo del 2007 ricorda la presenza degli agguerriti clan albanesi sulla costa, parla di usura e riciclaggio, di speculazioni edilizie e discariche abusive, alludendo poi a “certi investimenti”, che ben presto porteranno gli inquirenti al tesoro di Ciancimino (operazione Alba d’oro). Per Forgione “non c’è solo un terreno fertile, ma ci sono anche affari fertili”. Prima dello scioglimento delle Camere, in commissione antimafia era arrivata la proposta di una visita in Abruzzo, ma il tempo ha remato

Prestare attenzione. Nel 2008, Grasso aggiusta il tiro, anche perché le analisi della Dna parlano chiaro. Bisogna “prestare massima attenzione”,i capitali mafiosi girano e “sono invisibili perché non danno possibilità di manifestazioni esteriori”. In realtà, in quel ’93 non troppo lontano la commissione antimafia distribuì con la relazione Smuraglia anche un breve vademecum ad uso di tutti. Per testare la possibile presenza mafiosa in “aree non tradizionali” basta prestare attenzione ad alcuni indici regolatori: “L’eccessivo turn-over di licenze commerciali, la frequente acquisizione di immobili e licenze con pagamento in contanti, l’acquisizione di immobili cui non segue alcuna concreta utilizzazione, il diffondersi di società finanziarie al di là del normale sviluppo della zona, lo squilibrio in società registrate tra oggetto sociale e capitale dichiarato, la diffusione dell’usura; l’accentuato interessamento verso società in stato di crisi, tutti i fenomeni ricollegabili a fatti estorsivi e gli improvvisi arricchimenti”.

La quasimafia. Ci ha riflettutto qualche anno Brizio Montanaro. E nel gennaio del 2009, aprendo l’anno giudiziario a L’Aquila, arriva alla conclusione che “stanno aumentando

possibilità che soggetti di rango mafioso vengano ad operare nel territorio e sfruttino tendenze, filoni criminali favorevoli, onde radicarsi definitivamente”. Intanto “la mafia in senso tecnico in Abruzzo non c’è”, però ci sono le estorsioni “in aumento costante”. Ecco la capriola linguistica: “È  questo un sistema di tipo paramafioso che può preparare il campo all’insediamento di gruppi mafiosi”.
Alessio Magro

(Tratto da www.articolo21.info)