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La lezione di Livatino, il giudice che sbarrò le porte ai mafiosi

La lezione di Livatino, il giudice che sbarrò le porte ai mafiosi

20 SETTEMBRE 2020

Trent’anni fa ad Agrigento il delitto del magistrato 38enne, per il quale è in corso il processo di beatificazione. Si era al culmine di un decennio in cui sembrava che in Sicilia la vita non avesse valore. Livatino venne ucciso perché “perseguiva le cosche impedendone l’attività criminale”

DI GIUSEPPE PIGNATONE

«Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Sono parole di Rosario Livatino, il magistrato siciliano ucciso il 21 settembre di trent’anni fa a colpi di mitra e di pistola, mentre si recava al Tribunale di Agrigento dove prestava servizio dal 1979, prima come sostituto procuratore e poi come giudice.

La sua morte ricade quindi in quel periodo terribile della nostra storia recente, iniziato nell’agosto 1977 con l’omicidio del colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo e che aveva già visto cadere vittime della mafia, oltre a centinaia di cittadini, decine di esponenti delle istituzioni, tra cui quattro magistrati — Cesare Terranova, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rocco Chinnici e Antonino Saetta — oltre a Carlo Palermo, salvo per puro caso. Tutte vittime della sfida allo Stato voluta dalla Cosa nostra corleonese di Riina e Provenzano che culminerà con le stragi del 1992 e 1993 e l’omicidio di don Pino Puglisi (15 settembre 1993).

È in questo contesto che matura e si realizza l’omicidio di Rosario Livatino, al culmine di un decennio in cui sembrava che in Sicilia la vita umana non avesse più valore. Una situazione eccezionale, difficile perfino da immaginare per chi non abbia vissuto quegli anni, anche da semplice cittadino.

Al di fuori di questo contesto l’omicidio del giovane magistrato, appena 37 anni, sarebbe incomprensibile e, anzi, con ogni probabilità quel delitto non sarebbe potuto avvenire. Questa considerazione resta valida anche se non è stata accertata in sede giudiziaria la responsabilità quali istigatori dei capi della “famiglia” di Cosa nostra di Canicattì, la cittadina dove Livatino viveva con i suoi genitori.

È invece accertata la responsabilità dei killer, indicati dalla coraggiosa testimonianza di Pietro Ivano Nava, un rappresentante di commercio lombardo che assistette per caso all’omicidio, nonché dei mandanti e organizzatori del delitto, alcuni dei quali nel tempo sono diventati collaboratori di giustizia.

Tutti erano “stiddari”, cioè appartenenti a gruppi criminali, a volte staccatisi da Cosa nostra (da qui il nome: stidda è un pezzo di legno staccato dal tronco), che dalla metà degli anni ’80 avevano cercato di conquistare spazio e potere ai danni dell’organizzazione mafiosa, soprattutto nelle province di Agrigento e Caltanissetta. Le diverse “stidde” si erano poi dissolte nell’arco di pochi anni a seguito della reazione feroce di Cosa nostra e della efficace repressione dello Stato, lasciando però una lunga scia di delitti. Livatino venne ucciso, secondo la sentenza di condanna dei mandanti (1999), perché «perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia».

Gli stessi collaboratori di giustizia appartenenti alla “stidda” avevano riferito del suo rigore e della sua severità, mentre per quelli provenienti da Cosa nostra «Livatino era inavvicinabile», tanto che «aveva chiuso un ingresso di casa per evitare di incontrare» il boss di Canicattì, Giuseppe De Caro, che abitava nel suo stesso palazzo.

Come disse all’epoca il vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, la vittima dell’assassinio era stata scelta «per questo suo essere simbolo di intelligenza, di operosità, di incorruttibilità della giustizia dello Stato».

Tutti poi, anche i mafiosi, sapevano della sua fede religiosa, una fede dichiarata e vissuta, che caratterizzava la sua personalità. A essa si ricollegava — come hanno dichiarato alcuni giudici che lavorarono con lui — la sua visione dell’amministrazione della giustizia come una forma di servizio reso all’uomo, il rigore e la limpidezza con cui svolgeva la sua attività professionale che era per loro di esempio in un contesto ambientale così difficile, e anche la sua decisione di continuare, nonostante le minacce ricevute, a fare il giudice penale rifiutando di passare alla sezione civile.

Rosario Livatino (per cui è in corso il processo canonico di beatificazione) era una personalità sobria, addirittura schiva: mai rilasciato interviste, mai un intervenuto a manifestazioni pubbliche. Restano di lui i testi di due conferenze e gli appunti sulle sue agende; risalgono a oltre trent’anni fa, eppure sono di una attualità estrema.

Così egli scriveva nel 1984: «L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza». Livatino concludeva a questo punto che «l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività».

Riflessioni preziose nella fase di crisi che attraversa oggi la magistratura e che spiegano perché, secondo papa Francesco, «Livatino continua a essere un esempio, anzitutto per coloro che svolgono l’impegnativo e complicato lavoro di giudice».

L’autore è presidente del Tribunale della Città del Vaticano, ed ex procuratore di Roma

fonte:https://rep.repubblica.it/