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La deriva dei fatti: la mistificazione e la rimozione dei problemi seri del Paese, a cominciare da quello delle attività delle mafie e degli intrecci fra queste e pezzi della politica e delle istituzioni

La deriva dei fatti: il potere mistificatorio delle “soft news”

In Italia i fenomeni giornalistici più preoccupanti dell’ultimo decennio sono l’invasione di campo della fiction nel mondo dell’informazione, il prevalere delle opinioni sui fatti, e l’oscuramento di tematiche e di notizie di grande rilevanza sociale: lotte sindacali, campagne sociali a favore degli esclusi, la mafia e i suoi affari sporchi che si sviluppano nella zona grigia, al confine fra lecito e illecito. Temi oscurati da scelte “a monte” o da pressioni indebite e, nei casi più gravi, dall’uso della violenza nei confronti dei giornalisti, un fenomeno testimoniato dai numerosissimi casi di cronisti minacciati o sotto scorta di cui si occupa l’osservatorio Ossigeno della Fnsi e dell’Ordine dei Giornalisti.
Riceviamo dall’autore e mettiamo a disposizione della comunità di aprileonline questo intervento pubblicato sul settimanale Left il 23 dicembre 2009, n. 51-52.

Una vasta percentuale della popolazione mondiale, ha fatto notare lo scrittore spagnolo Javier Marias, acuto e non rassegnato osservatore delle recenti, profonde e non sempre progressive trasformazioni del mondo dell’informazione, “non è in grado di distinguere la verità dalla menzogna. Per essere più precisi, questi cittadini non riescono a distinguere la realtà dalla finzione”, dalla sua falsa rappresentazione fornita dalla televisione e dai giornali. A proposito dello sciame inarrestabile di reazioni, commenti e polemiche innescate dalla smentita di Penelope Cruz a una sua intervista autocritica pubblicata da El Pais, lo scrittore ha parlato del malcostume di pubblicare notizie senza garanzia di veridicità e senza le opportune e doverose verifiche di attendibilità, e ha osservato con amarezza che ciò avviene in un’era storica e in una società in cui i media hanno la capacità e i mezzi per controllare le notizie prima di diffonderle e per stabilire la veridicità dei fatti, ma l’intenzione di avvalersi di questa capacità è ogni giorno più debole, offuscata, si è quasi smarrita, travolta da un magma e, aggiungo io, dalla convenienza a confondere le due cose senza patirne significative conseguenze.

L’osservazione di Marias mi ha colpito, e ancor di più, qualche settimana dopo, mi ha colpito leggere che la nostra Corte di Cassazione ha usato quasi le sue stesse parole. Lo ha fatto per motivare la conferma di una condanna nei confronti di Bruno Vespa per una puntata di Porta a Porta sul misterioso omicidio all’Olgiata della contessa Alberica Filo della Torre. Secondo i giudici, la figura della vittima era stata ricostruita in tv senza il dovuto rispetto e senza distinguere ciò che risulta dalle carte processuali da valutazioni soggettive, e ciò in base a un format che vuole rendere la cronaca più interessante per gli spettatori e perciò “tende a offrire una realtà immaginifica o virtuale, capace di sovrapporsi a quella sostanziale, o a collocarsi in un ambito in cui i confini tra immaginario e reale diventano sempre più labili e non facilmente distinguibili”; in cui “una verità mediatica” si contrappone senza regole alla realtà “sostanziale o processuale”.

La vicenda di Porta a Porta fa capire quanto sia considerato opinabile, ai nostri giorni, il confine una volta invalicabile fra giornalismo e fiction. Fino a pochi anni fa, queste categorie indicavano due mondi distinti, quello della realtà e quello della fantasia. Due mondi diversi e non comunicanti fra loro. È stato così fino a pochi anni fa, finché la televisione, imitata dai giornali, ha cominciato a mettere sullo stesso piano realtà e fiction, fatti e opinioni, documenti e sentito dire. Da allora la verità ha contato sempre meno, la veridicità dei fatti ha perso la sua qualità inoppugnabile, per molti è diventato sempre meno rilevante sapere se una notizia o un’affermazione è basata su elementi concreti e oggettivi o è nient’altro che un’opinione. Di conseguenza è divenuto sempre più difficile, nella vita reale, come nei talk show e nel mondo dell’informazione, contrapporre la verità documentale di un fatto a chi ne propone in modo apodittico una rappresentazione soggettiva; un elemento di fatto a chi, per errore, per calcolo o per puro interesse, vuole far credere una cosa per un’altra. Lo abbiamo visto in politica e nell’informazione politica: nelle periodiche campagne sulla sicurezza pubblica, o sugli exploit di gravi reati, o sulla pericolosità sociale e sanitaria della presenza degli immigrati extracomunitari in Italia, da ultimo sulla necessità di comprimere su Facebook e altrove la libertà di espressione e di critica con il presupposto che criticare il governo significa propagare odio e fornire motivazioni a chi incita all’assassinio del premier… Questo modo di ragionare all’ingrosso in altri tempi non avrebbe avuto la stessa presa. Credo che oggi trovi più credito proprio grazie alla sempre più frequente sostituzione dei fatti con il loro surrogato virtuale.

In Italia i fenomeni giornalistici più preoccupanti dell’ultimo decennio sono questa invasione di campo della fiction nel mondo dell’informazione, il prevalere delle opinioni sui fatti, e l’oscuramento di tematiche e di notizie di grande rilevanza sociale: lotte sindacali, campagne sociali a favore degli esclusi, la mafia e i suoi affari sporchi che si sviluppano nella zona grigia, al confine fra lecito e illecito. Temi oscurati da scelte “a monte” o da pressioni indebite e, nei casi più gravi, dall’uso della violenza nei confronti dei giornalisti, un fenomeno testimoniato dai numerosissimi casi di cronisti minacciati o sotto scorta di cui si occupa l’osservatorio Ossigeno della Fnsi e dell’Ordine dei Giornalisti.

Quello che si conclude in questi giorni è stato, dunque, un decennio di rinnovamento senza qualità, caratterizzato da innegabili innovazioni nella tecnologia dei media, dalla interconnessione fra le varie piattaforme mediatiche, ma anche da un impoverimento del fattore giornalistico nel mondo della comunicazione, e dal crollo delle certificazioni fasulle sulla vendita dei quotidiani (i dati sono stati più che dimezzati) e da clamorosi abbagli che hanno bruciato cospicue risorse finanziarie che avrebbero potuto (ed io credo: avrebbero dovuto) essere impiegate per rafforzare la risorsa più importante delle aziende editoriali rappresentata dal patrimonio professionale e di esperienza dei giornalisti in carne ed ossa legati alle testate da contratti stabili di lunga durata. Fra gli abbagli, voglio ricordarne tre: la decisione di puntare molto su Internet, nella convinzione che si sarebbe compiuto il miracolo delle news gratuite; la convinzione che il mercato della pubblicità avrebbe avuto una espansione illimitata e che si trattava solo di creare i contenitori per ospitarla; la scelta di creare quotidiani full-color e supplementi patinati a basso contenuto informativo, a fini puramente pubblicitari. Su queste e altre scelte di basso profilo e di pronta redditività hanno pesato certamente diversi fattori, fra i quali l’evoluzione finanziaria delle proprietà editoriali che ha spinto alcune aziende a quotarsi in Borsa e a misurare i risultati solo sulla base dei dividendi (con l’inevitabile conseguenza di rinviare investimenti a redditività differita come quelli sulle risorse umane), e l’accentuarsi della figura dell’editore “impuro”, ovvero l’entrata nella proprietà dei giornali di imprenditori con prevalente e accentuato impegno in altri settori, con evidenti conflitti di interessi e implicite limitazioni del raggio di autonomia. Tutte queste scelte ci riportano alla valutazione precedente dell’ultimo decennio: di un rinnovamento senza qualità. Sono stati dieci anni che hanno segnato evidenti discontinuità, e una velocità di cambiamento tale che si fatica a ricordare cosa succedeva appena dieci o venti anni fa nel giornalismo italiano.

Dieci anni fa l’informazione giornalistica era meno veloce, meno colorata, meno accattivante, ma era mediamente più approfondita, più originale, più ricca di sfumature e di temi. I cronisti di nera andavano sul luogo del delitto e cercavano di arrivare prima della polizia. I quotidiani cercavano e spesso riuscivano a contendere alla televisione le dichiarazioni più importanti dei leader politici. Fra le agenzie di stampa la competizione riguardava la qualità della notizia più che la rapidità con cui si “spara” in rete un titolo. Poi tutto è cambiato. Le parole d’ordine sono diventate altre: velocità, full-color, alleggerimento dei contenuti, e si sono bruciate risorse e credibilità nella rincorsa impossibile fra quotidiani e tv, nell’illusione che le notizie potessero trovarsi senza pagare qualcuno per trovarle e che comunque non valesse la pena di investire sul lavoro giornalistico e sulle professionalità.

I giornali del 1991-2000 erano forse più meditati, più curati. Ma non erano la perfezione. Erano il punto di arrivo di tre lustri di crisi di identità e di ruolo, di competizione a colpi di gadget, di “panna montata” e di menabò in cui i titoli venivano fatti a tavolino, prima di mandare i cronisti in cerca di notizie. Nel primo decennio del terzo millennio questa tendenza si è accentuata fino al parossismo. L’informazione si è schematizzata, ha rinunciato a fare la selezione dei temi e delle notizie in base alla loro attualità e rilevanza sociale; ha perso sfumature e pluralità di voci; è diventata sempre più esasperatamente discrezionale ed a tesi. È avvenuto parallelamente al polarizzarsi dello scontro politico e sociale secondo lo schema del bipolarismo assoluto destra-sinistra e alla trasformazione della televisione in un surrogato della realtà, che viene osservato al posto della realtà.

Un’altra involuzione, può sembrare un paradosso, è arrivata negli ultimi anni, proprio sull’onda di Internet. È vero, sono nati e si sono moltiplicati blog e giornali on-line che occupano un vuoto, esprimono una maggiore pluralità di voci, ma tranne rare eccezioni, presentano gli stessi difetti dei giornali tradizionali, perfino in modo accentuato. Questi nuovi media, ha rilevato il 30 maggio scorso la conferenza dei ministri delle comunicazioni, riunita a Reykjavik per iniziativa del Consiglio d’Europa, non sono in grado di sopperire “al ruolo fondamentale per la democrazia” finora svolto dalla carta stampata e ora messo in crisi dalla crisi a livello internazionale dei giornali tradizionali. L’attuale deludente stato dell’informazione, secondo il Consiglio d’Europa, ha pesanti ripercussioni sulla vita democratica dei vari paesi, per varie ragioni: per la frammentazione delle voci, e perché i nuovi media si rivolgono a un numero molto limitato di cittadini e, soprattutto perché, ha spiegato Karol Jakubowicz, consulente del Consiglio d’Europa, perché “internet attualmente usa come fonte proprio i media tradizionali già in crisi. Se questi media tradizionali continueranno a indebolirsi, è l’avvertimento, su Internet verranno offerte sempre più “soft news”, cioè “storie di vita e intrattenimento”, accentuando così la tendenza in questo senso che si sta affermando da tempo nei giornali e nei notiziari radiotelevisivi tradizionali, che non riescono a garantire la stessa qualità dell’informazione di una volta, perché le loro proprietà sono passate in gran parte a investitori finanziari che mirano solo al profitto e puntano sulle soft news solo perché costano meno delle hard news. Con una conseguenza inevitabile: i cittadini saranno sempre più privati di fonti di informazione complete e attendibili, non potranno seguire il dibattito pubblico, non potranno fare scelte politiche pienamente consapevoli.

Nelle redazioni dei giornali la rivoluzione informatica è un fenomeno consolidato, ma piuttosto recente. Arrivò negli anni Ottanta in redazioni in cui i veterani ancora scrivevano ostentatamente con la penna stilografica. Arrivò con i personal computer che sostituirono le macchine da scrivere, con l’offset e la videocomposizione che mandarono in pensione i caratteri a piombo e le linotypes. La novità più importante di quel periodo fu l’approvvigionamento delle notizie attraverso i videoterminali elettronici. I primi, ancora in servizio meno di dieci anni fa, avevano uno schermo a fosfori verdi, erano senza tastiera, e si manovravano con un macchinoso telecomando. Quei terminali sono già oggetti da museo. Ma con essi le redazioni cominciarono a ricevere le notizie di agenzia ad alta velocità, i giornalisti ebbero per la prima volta l’enorme vantaggio di potere consultare l’intero notiziario in modo rapido e con comodità, grazie alle fin allora impensabili ricerche elettroniche per parola e per argomenti. Fu una novità senza precedenti, un salto storico rispetto al modo di lavorare delle generazioni precedenti, che avevano letto le agenzie solo stampate su carta in rotoli. I lunghi nastri di carta uscivano dalla telescrivente – una per ogni rete di agenzia – che era una sorta di macchina da scrivere senza tastiera. Collegata a una linea telegrafica, riceveva le notizie d’agenzia al ritmo di 40 baud, ovvero 40 caratteri al minuto, che poi divennero 80.

Era una lentezza esasperante, un imbuto che costringeva a produrre poche notizie, testi brevi ed essenziali. I takes erano di 24 righe. Le teletype le stampavano su rotoli di carta continua. C’era un poligrafico addetto a tagliarle e metterle in successione. Per un giornalista era faticoso e dispersivo districarsi fra quegli infiniti pezzetti di carta che tendevano ad arrotolarsi. Infine, e fu un cambiamento rivoluzionario, l’Ansa e le altre agenzie cominciarono a trasmettere all’incredibile velocità di 200 caratteri al minuto! E pochi anni dopo passarono alla astronomica velocità di 1.200 (oggi volano a 9.800). Anche la produzione di notizie fu decuplicata: per la prima volta fu possibile produrre notiziari più ricchi di titoli e di parole, un giornale telematico con un numero di pagine quasi illimitato, e comunque facilmente consultabile.

civile è fatta di personalità fragilissime dal punto di vista dell’assunzione di responsabilità individuali – di persone non individuate. In un certo senso, di non-individui. Quando i partiti di massa sono finiti, questa immaturità è venuta alla luce.

Non è per caso che ho cominciato con il Guicciardini. Il suo “particulare”, certo, si oppone all’universale. Ma riassumiamo l’attualizzazione che ne abbiamo fatto, vedendo nell’odierno interesse “particolare” una diffusa volontà di partecipazione al privilegio, al favoritismo, e una diffusa disponibilità all’impiego di pubbliche risorse in funzione di questo interesse “particulare”. “Prendere al popolo per dare a se stessi” non è solo lo slogan del nuovo Robin Hood, è il motto del medio evasore fiscale.
Visto così, l’interesse “particulare” si oppone più specificamente all’universalità costitutiva delle leggi, in particolare di quelle morali. Al favoritismo particolare infatti si obietta proprio in nome di questa universalità: “e se tutti facessero così”? In altre parole, se intendiamo per “etica” la disciplina che stabilisce ciò che è dovuto da ciascuno a tutti, il “particulare” si oppone all’universalità dell’etica.

E questo sembra abbastanza ovvio. Ma il rispetto profondo per l’universalità della legge, la legge che si costituisce come “eguale per tutti”, è precisamente l’altro polo dell’individuazione, cioè dell’essere (divenuto) soggetto individualmente responsabile del proprio giudicare e del proprio agire. E questo è molto meno ovvio! Eppure si vede subito che è vero. Riconoscersi personalmente responsabile delle proprie azioni è riconoscersi disposti a rispondere di esse di fronte a chiunque abbia titolo per chiedercene ragione: ma dove è in questione la giustezza morale dell’azione chiunque ha questo titolo. O anche: riconoscersi personalmente responsabili di un’azione è riconoscersi in dovere di darne ragione – ma le ragioni o parlano a tutti o non sono ragioni.

Ne viene anche una verità che non solo non è ovvia, ma da pochissimi è riconosciuta: il “particulare”, nel senso che abbiamo visto si oppone anche all’individualità capace di ragioni morali – che sono universali. La ricerca del “particulare” si oppone precisamente all’approfondimento della propria responsabilità individuale. L’uomo del particulare sembra destinato alla minorità personale e morale.
Alberto Spampinato, consigliere nazionale della Fnsi (Federazione Nazionale della Stampa Italiana, il sindacato unitario dei giornalisti italiani) e direttore di Ossigeno per l’informazione, osservatorio Fnsi-Ordine dei Giornalisti sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza. Giornalista dell’Ansa. Segue dal 1999 l’attività del Quirinale. Il Rapporto 2009 di Ossigeno, pubblicato dalla rivista Problemi dell’Informazione (Il Mulino) sul n.1-2 del 2009, ha stimato che siano stati 200 i giornalisti italiani vittime di violenza e varie forme di intimidazioni nel triennio 2006-2008. Il Rapporto integrale è disponibile sui siti www.fnsi.it e www.odg.it insieme ad altri materiali e segnalazioni dell’osservatorio. Nel libro “C’erano bei cani ma molto seri”, Edizione Ponte alle Grazie 2009, premiato con il Premio Giancarlo Siani, Alberto Spampinato ha raccontato la storia di suo fratello Giovanni, giornalista dell’Ora di Palermo ucciso a Ragusa a 25 anni il 27 ottobre del 1972 “per aver scritto troppo”