Cerca

La Dda: «I boss investono nei locali alla moda per ampliare la propria rete con sportivi e personaggi famosi»

La Dda: «I boss investono nei locali alla moda per ampliare la propria rete con sportivi e personaggi famosi»

14 febbraio 2019

di Antonio Castaldo e Cesare Giuzzi

L’impero criminale si siede a tavola e investe, sempre di più, nel modo della ristorazione. Lo provano decine di inchieste della magistratura, i sequestri disposti come misura di prevenzione e, di recente, una nuova arma antimafia: la sospensione della Scia, l’equivalente della vecchia licenza. A Milano, motore economico del Paese, lo dimostra anche l’incredibile fioritura di nuovi locali, che in città sbocciano alla velocità di due inaugurazioni ogni tre giorni. Un ritmo che secondo gli inquirenti è accelerato dai milioni della criminalità organizzata. Una volta bar e ristoranti erano soltanto lavanderie per denaro sporco. Oggi per la mafia rappresentano anche la scintilla di uno scatto evolutivo, la proiezione verso nuovi affari e nuovi contatti. «I ristoranti alla moda servono per creare quella rete relazionale che arricchisce il patrimonio di un’associazione criminale con personaggi famosi, sportivi, nomi da spendere», spiega Alessandra Dolci, capo della Dda di Milano.
Il settore in città cresce del 6 per cento ogni anno (nel 2017 7.333 bar, gelaterie e ristoranti contro i 6.911 dell’anno precedente) e addirittura del 35 per cento rispetto al 2011 (dati Camera di Commercio). Per gli inquirenti, tra i tantissimi imprenditori onesti, si celano personaggi legati a vario titolo con il crimine organizzato. Che trasformano il frutto delle attività illegali in casse di riciclaggio, ma anche in vetrine del nuovo potere di relazione, l’antistato mafioso che si è fatto impresa. Per il critico gastronomico di ViviMIlano, Valerio Visintin, «almeno un ristorante su cinque ha avuto a che fare negli ultimi anni con organizzazioni mafiose». Attività su cui investire e con cui riciclare in tutta tranquillità: «Spesso i ristoratori che aprono le porte delle proprie società a questi personaggi non sanno neppure in quali mani si stanno mettendo. E quando lo scoprono, ormai è troppo tardi», aggiunge Visintin, il cui nome (ma non il volto) è conosciuto e temuto in tutti i ristoranti di Milano e dintorni.
In città sono cinque i locali che sono stati chiusi negli ultimi mesi. Il caso più eclatante riguarda il ristorante gourmet Unico di via Achille Papa. In questo caso a pesare sono i rapporti tra uno dei proprietari, Massimiliano Ficarra e uomini della potente cosca Piromalli-Molé di Gioia Tauro (Reggio Calabria). Il locale ha riaperto i battenti dopo che il Tar ha accettato la richiesta di sospensiva avanzata dai legali. Ma si attende ancora una decisione nel merito. Dietro il provvedimento, non c’è nulla di penalmente rilevante (anche se a carico di Ficarra c’è un sequestro che deriva da un’altra indagine su questioni finanziarie), ciò che è in discussione sono i «requisiti morali» costati la revoca della «Scia» da parte del Comune di Milano dopo l’istruttoria della Dia e l’emissione dell’interdittiva Antimafia da parte del prefetto Luciana Lamorgese. Tutto si basa sulla sentenza 565 del 2017 del Consiglio di Stato che ha stabilito come gli accertamenti antimafia un tempo necessari solo in caso di appalti con la pubblica amministrazione vadano invece estesi a tutti i provvedimenti che prevedano un rapporto di qualsiasi tipo con organi dello Stato. Compresa l’emissione di una Scia che di fatto ha sostituito le vecchie licenze per i pubblici esercizi. Sono una cinquantina i provvedimenti sul tavolo del prefetto e ancora non firmati.

Dopo «Unico» è scattata la chiusura per altri tre locali, tutti in qualche modo legati agli stessi «soci sospetti», ossia Francesco Palamara nipote dello storico boss di Africo in provincia di Reggio Calabria «Peppe ‘u tiradrittu», Aurelio Modaffari considerato vicino alla cosca Morabito-Palamara-Bruzzaniti e Davide Lombardo, coinvolto in una inchiesta sul narcotraffico e con un passato di frequentazioni con uomini della cosca Barbaro-Papalia. Si tratta del bar Gio & Cate café di viale Molino della Armi, della rosticceria notturna Ballarò di piazza 25 Aprile e del locale Dom di corso Como. Tutte vetrine nel centro di Milano e nel cuore della movida. È invece un strettissimo legame familiare ad aver portato ai primi di luglio alla chiusura del bar Pancaffé di via Lodovico il Moro, 159, lungo il Naviglio Grande. Il locale è infatti intestato alla moglie e alla figlia del boss della ‘ndrangheta Rocco Papalia, scarcerato un anno fa dopo 26 anni di carcere e oggi rinchiuso in una casa lavoro a Vasto (Chieti).
L’ultima chiusura in ordine di tempo riguarda la pizzeria Frijenno Magnanno di via Benedetto Marcello, un locale molto noto in città, a causa dei presunti rapporti tra il marito della titolare e il clan Guida di Napoli. Circostanza che l’avvocato della famiglia smentisce decisamente, ma che tuttavia al momento ha indotto il Comune a procedere con la revoca della scia. Spostandoci da Milano, nella comunque vicinissima Buccinasco, lo scorso 30 gennaio è stato chiuso l’Angolo del caffè, che negli anni passati ospitò anche riunioni della famiglia Barbaro-Papalia. Il titolare, Giuseppe Violi, aveva cambiato l’insegna e il nome del locale, dichiarando di «non avere nulla a che fare con la ‘ndrangheta». Ma non è bastato, perché stando alle ricostruzioni dei carabinieri e dell’Antimafia, il bar ha continuato ad essere il ritrovo degli uomini della cosca.
Il sistema dei controlli prende le mosse dalle inchieste penali, ma va a colpire anche le semplici «frequentazioni» o «contiguità» dei soci con ambienti mafiosi. Quindi senza la necessità che i titolari siano stati condannati o inquisiti per 416 bis, ossia il reato di associazione mafiosa. I locali garantiscono liquidità, visibilità e anche una sorta di controllo (o presenza) sul territorio. Senza pistole o violenza, in linea quindi con la strategia dell’inabissamento predicata dalla mafia al Nord.
Nella stragrande maggioranza dei casi gli investimenti della mafia vengono regolati come normali transazioni d’affari. Ma a volte il volto violento della criminalità emerge in tutta la sua pericolosità. I casi sono numerosi, ma pochi hanno il coraggio di raccontare. F. O. è un quarantenne milanese che oggi vive quasi da recluso, nel suo piccolo appartamento nella periferia nord di Milano. Aveva un bar, gli aveva dato il nome di un personaggio dei fumetti. Ma con i primi clienti ha dovuto fare i conti con gli emissari di un clan catanese. Cominciarono col pizzo, ma volevano il suo locale. «Mi chiesero 50mila euro, una cifra insostenibile». F. cominciò a nascondersi: «Fino a quando aggredirono mia moglie, la fermarono mentre passeggiava con i bambini, afferrandola per il collo. A quel punto decisi di denunciare tutto alla polizia». La violenza mafiosa si moltiplicò. Alle minacce si sommarono aggressioni e pestaggi. «Mi hanno sparato alle gambe, una volta mi hanno investito con l’auto, mi insultavano e minacciavano in continuazione, persino in tribunale». Lui però è andato per la sua strada, ha contribuito alla condanna dei suoi tre estorsori. «Ormai è passato qualche anno, eppure continuano a farsi sentire», dice mostrando i segni minacciosi comparsi su citofono e porta di casa. Ora è disoccupato, è difficile per una vittima di mafia trovare lavoro. Ma almeno spera che la persecuzione sia finalmente finita.

Fonte:www.corriere.it