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IN MEMORIA di TURI

IN MEMORIA di TURI

Nella notte di fine anno 1976, quarantasei  anni fa, ad Africo, in Calabria, veniva ucciso Salvatore Barbagallo, operaio, caduto con le armi in pugno all’ennesimo assalto a casa dei Palamara da parte degli indranghetisti.

Il fatto, benché parte del primo tentativo di opporsi alla mafia in Calabria è ignorato nella vulgata dei guru della ‘ndranghitudine e Turi non figura tra le “vittime” nelle liste dell’antimafia ufficiale, quella di Don Ciotti.

L’uccisione di Turi fu il tragico epilogo di una lunga lotta contro la tracotanza mafiosa intrapresa ad Africo dal 1970 da parte di quelli che, per analogie anagrafiche, lo scrittore Gioacchino Criaco indicò come “un esercito di ragazzini” e che, in quanto anarchici, vennero abbandonati a se stessi anche dal Partito Comunista.

Ma la palma della vergogna va soprattutto alle cosiddette forze dell’ordine, perché non furono pochi i carabinieri e i magistrati che, invece di prendersela con i criminali (protetti dal prete arci-mafioso Don Stilo) si applicarono in ogni maniera contro gli anarchici, incarcerandoli dopo le aggressioni e destinando loro persino le diffide che avrebbero dovuto applicare ai mafiosi.

Di quelle vicende, a tratti quasi incredibili, e di quella tragica notte ad Africo, rimane fondamentale il resoconto circostanziato di Rocco Palamara nel quarantesimo anniversario della morte di Turi, di seguito riportato.

AFRICO 1976, COME FU UCCISO SALVATORE  BARBAGALLO.

Sono trascorsi ormai 40 anni dalla morte di mio cognato Salvatore (Turi) Barbagallo, ucciso la notte di capodanno 1977 ad Africo e ben presto dimenticato da tutti ad eccezione di amici e famigliari tra cui due figli lasciati piccolissimi.

Eppure egli non è morto per questioni sue personali ma nel contesto di una lotta contro la ’ndrangheta iniziata molti anni prima ad Africo e che, per le sue modalità non addomesticabili dai potenti, è come  se non fosse mai avvenuta, né Turi figura nelle liste ufficiali delle “vittime” della mafia.

Il sacrificio di Turi é stato nel tempo coperto da un manto di ingratitudine e di ipocrisia, ma i primi torti vennero dagli inquirenti che chiusero il “caso” senza giustizia e senza verità. I carabinieri, che tutto seppero e tutto sanno, si attennero alle loro misteriose consegne omettendo  gran parte dei fatti. Quel poco che fecero, arrestando tre picciotti, venne poi azzerato dai magistrati preposti che accordarono ai mafiosi la consueta impunità.

A noi fratelli Palamara coinvolti nel fatto convenne tacere affinché non fossimo ancora noi a pagare sotto quella squalificata magistratura di Locri. Non è dunque per reggere loro il gioco, o fare cosa gradita ai maledetti, che ho atteso tanto tempo per divulgare verità sottaciute e nascoste per ben otto lustri.

Stando alla Gazzetta del Sud del 2 gennaio 1977 (il primo di gennaio non uscirono i giornali) mio cognato, che era nato 26 anni prima a Santagata del Bianco  ed abitava a Mariano Comense in provincia di Como, era stato colpito da un colpo di pistola e ucciso all’istante mentre si affacciava alla porta di casa mia, dove era venuto per le feste natalizie.

Tra le ipotesi (scartata quella poco probabile di una pallottola vagante per gli spari della festa) venivano ventilate possibili vendette in riferimento allo “scontro tra bande rivali” in cui eravamo stati coinvolti nel 1970 (quando, in realtà, ci eravamo solamente difesi perché aggrediti a casa nostra dai mafiosi); allargando alla mia successiva evasione dal carceri di Locri e al ferimento a “una gamba”… in realtà ad entrambe, per un attentato di due anni prima.

Non venne fatto alcun accenno però allo scontro a fuoco avvenuto nell’attigua Piazza De Gasperi appena pochi minuti prima dell’uccisione di mio cognato che, nell’ulteriore tentativo di scongiurare il collegamento tra i due fatti, veniva posticipata di un ora e mezza da quando effettivamente avvenuta: dalle 21,50 circa, a “ meno di mezz’ora dell’arrivo del nuovo anno”, secondo il giornale.

Il cronista riportava quanto gli dettavano i carabinieri che a loro volta fingevano di non sapere nulla di quella sparatoria in luogo ben illuminato, alla presenza di almeno 50 persone e con tracce evidentissime dell’accaduto…

Si saprà poi che c’erano stati anche due feriti, ma tale “verità” sfacciatamente monca restò quella ufficiale e definitiva.

Pensate dunque a un fatto di cui al paese erano a conoscenza anche le pietre ma che nelle relazioni dei carabinieri della locale caserma e in quelle dei magistrati di Locri non c’è traccia!

31 dicembre 1974

Ma per capire meglio tutta la vicenda bisogna che io spieghi la tradizione tutta africota di salutare l’arrivo del nuovo anno sparando in aria con tutto l’armamentario a disposizione, soprattutto con pistole illegalmente detenute e tirate fuori dai nascondigli non solo dai malandrini ma anche dalle persone più pacifiche e riservate.

Nello spirito esaltante della festa nessuno approfittava delle armi per offendere ma, a cominciare dalla notte di capodanno 1975, tutto prese un’altra piega perché con le profonde divisioni arrivate a maturazione nel paese anche lo svolgimento della festa diventava politica e occasione per dimostrazioni di forza.

Capitò solo per caso, ma quella sera noi compagni combinammo di armare ballo della tarantella in Piazza de Gasperi che era il nostro punto abituale di ritrovo e la chiamavamo “Piazza Rossa”. Accendemmo anche il fuoco così che in breve si riempì di giovani, ragazzini e anche di adulti diventando di fatto il principale punto di riferimento della nottata.  Allora qualche indranghetista venne a cercare rogna e, sparando in aria, rimediò schiaffi e pugni in faccia, altri sostarono brevemente silenziosi e scansati da tutti come degli appestati. Non era la piazza né il paese che volevano.

La cosa che più li aveva disturbati fu però quel ballo in pubblico della tarantella, prerogativa ed ostaggio del potere malandrino sin dal secolo precedente, all’insediarsi ad Africo della picciotteria.

Non era dunque questione di coreografie ma del fatto che una grossa parte del paese sfuggiva al loro controllo e che un gruppo numeroso di giovani intorno agli anarchici era in grado di fronteggiarli a ogni livello.

31 dicembre 1975

Divenuta quella piazza il simbolo del contendere e la notte di capodanno il momento del confronto, ritornarono pure in quella successiva 1976, al termine del 1975, anche se allora non c’era né il ballo né il fuoco nella piazza, ma solo un presidio di compagni appartati a un angolo su una panchina addossata al muro delle case dritte in linea con casa mia in Via Giuseppe di Vittorio. La strada proseguiva in salita oltre la piazza con un secondo tratto il cui imbocco era presso la panchina. Da lì sbucarono i picciotti.

Arrivarono sgommando con una macchina e giunti al centro della spianata (la piazza allora era tutta libera) scesero con dei mitra Beretta nuovi di zecca e presero a sparare a raffica di fronte ai ragazzi. Tiravano in aria all’uso della serata, ma era anche come dire “ la piazza è ancora nostra!”. Allora, alcuni dei ragazzi, a cui non andava giù quell’affronto, tirarono a loro volta le pistole delle raffiche di risposta. Altri colpi di pistola, e quant’altro (sempre in aria), partirono dalle case attorno, in loro appoggio. L’intimidazione era così respinta ma poiché a quel punto i picciotti fecero pure i risentiti seguì un litigio sul filo del rasoio che poteva finire malissimo se non fosse per l’accorrere di molte decine di uomini che si misero in mezzo (al rischio della loro vita) e imposero la calma tra le parti.

Anche da uno dei miei balconi sparammo, e fu l’esordio di un’arma mai vista in paese: un fucile mitragliatore svizzero – tiro utile 3.800 metri – regalo di certi compagni tedeschi, al cui confronto le sparatine dei picciotti sembravano castagnole da bambini.

Erano schermaglie a cui non potevamo sottrarci affinché non fossimo sottomessi dalle dimostrazioni di forza dei mafiosi. Le armi poi erano la nostra sola risorsa da che, denunciando la prima volta, nel già lontano 1970, ricevemmo solo ingiuste condanne e  galera, mentre i mafiosi continuavano ad attaccarci impuniti e protetti dalle istituzioni. Solo nell’anno 1975 ben cinque dei nostri erano stati feriti a colpi di fucile e di pistola.

31 dicembre 1976

Secondo il detto “ non c’è due senza tre” anche per quel capodanno di dis-grazia 1977 c’era da aspettarsi l’arrivo dei provocatori. Ma forse anche no, per un fatto nuovo e probabilmente dissuasivo che era in corso nella provincia di Reggio. Si trattava di una operazione speciale di polizia detta dei “baschi neri”con l’impiego di ben 6000 carabinieri concentrati nella Locride che, a detta dei politicanti, serviva per risolvere la questione dei sequestri di persona e per debellare la ‘ndrangheta. In realtà non liberarono nessun sequestrato e tantomeno furono di disturbo ai grossi e veri mafiosi che già da allora erano favoriti e protetti dello Stato. In compenso resero la vita più difficile a tutti gli altri con pattugliamenti nelle montagne e nelle strade, perquisizioni domiciliari senza mandato (anche a casa mia) e l’esasperazione dei posti di blocco di cui uno permanente all’entrata di Africo. Era dunque per tanta e invasiva presenza che i mafiosi avrebbero potuto desistere, verosimilmente, dall’ormai tradizionale rottura di scatole di capodanno.

Non bastasse il fatto in sé, all’approssimarsi della festa furono proprio i malandrini a dare a intendere che per quella notte bisognava stare tutti tranquilli causa la presenza dei baschi neri. Più precisamente montarono la falsa notizia che gli stessi sarebbero venuti per un blitz in grande stile in tutto il paese con perquisizioni nei bar, strade, case e personali ovunque, come era già accaduto la notte di capodanno di una decina d’anni prima. Lo scopo dei mafiosi era quello di rendere noialtri spogli e inermi come polli quella notte. Usarono ogni perfidia per convincerci, lavorandosi i più creduloni, anche i loro parenti, per fare breccia sugli altri compagni e in modo più diretto su me ed i miei fratelli.

Si può dire che ci riuscirono (!), eccetto un piccolo particolare: pur abboccando come gli altri noi preferimmo non separarci dalle nostre pistole (che, date le circostanze, di regola portavamo addosso) e tenere a portata di mano anche i pezzi più voluminosi che ci fu possibile nascondere dentro l’impastatrice del pane: una doppietta cal. 16  a canne mozze e un vecchio mitra MAB con relative cartucciere e munizioni. Essendo troppo ingombranti, lasciammo invece nascoste in campagna le nostre armi migliori: il fucile mitragliatore svizzero e un “Franchi” cal. 12 a canne sovrapposte, quasi nuovo.

 

Calata la notte, dopo la consueta cena con la famiglia, all’ora solita degli altri giorni, tutti noi fratelli e nostro cognato Turi passammo nel locale del forno insieme al nostro compagno Mario Leo Morabito appena maggiorenne ma che era talmente inviso ai mafiosi da dover stare da noi e non a casa sua  che stava li a due passi presso la “nostra” stessa Piazza Rossa.

Man mano arrivarono altri compagni e amici, come da appuntamento, per attendere insieme l’arrivo dell’anno nuovo. Eravamo in tutto una quindicina di ragazzi, con in più mio padre che ogni tanto si affacciava andando e venendo dall’altra parte della casa dove stavano le mie sorelle con i fratelli più piccoli, i due nipotini e mia madre. Una stanzetta con due porte collegava il forno all’abitazione.

L’atmosfera era tutto sommato serena e persino allegra accompagnati come eravamo da uno bravo con la chitarra. Già si cominciava con i brindisi quando un mio cugino, che neanche attendavamo, arrivò trafelato per dirci che i picciotti erano tornati nella piazza, che erano almeno una ventina,  avevano mitra e fucili e che già stavano litigando con i nostri, minacciando tale e talaltro di morte.

Allora, senza bisogno che glielo dicessi, un mio fratello prese un grosso giravite e cominciò a svitare il pannello dell’impastatrice. Io mi rivolsi agli altri:

“Qualcuno vada a vedere!”

Poi, attraverso la stanzetta che dava sul corridoio dell’entrata, lasciai il locale del forno e andai verso la porta di casa per affacciarmi sulla piazza dove guardando alla mia destra vidi che effettivamente era in corso un violento litigio tra i due gruppi presso la solita panchina alla fine della piazza. Le loro voci esagitate mi arrivavano distinte, e ben vedevo anche le canne dei fucili che sovrastavano le teste del gruppo dei picciotti posizionati dalla parte aperta della piazza.  Altro che l’arrivo dei baschi neri, si era alle solite nella Piazza Rossa!

I picciotti erano partiti almeno mezz’ora prima da un punto imprecisato della parte bassa del paese percorrendolo avanti e dietro, armati e sparando in libertà senza tuttavia dare tanto nell’occhio vista l’ora, l’eccezione della serata ed il fatto che all’andata percorsero vie periferiche. Per tale motivo nessuno venne ad avvertirci e gli stessi compagni della panchina furono presi alla sprovvista nella piazza. Gli stessi, che a causa della diceria sui baschi neri non avevano le pistole neanche per gli spari della festa, si videro i fucili puntati addosso e il sarcasmo dei picciotti al primo cenno di protesta. Per questo ancora litigavano.

Sapemmo ogni cosa nei giorni che seguirono.

Lo squadrone dei picciotti si era mosso molto presto, partendo verso le 9 e mezza di sera. Un orario insolito per  gli spostamenti delle comitive tipiche di quella notte, essendo ancora l’orario in cui uomini e ragazzi si attardavano nelle famiglie per la cena. Ma anche ciò non era stato scelto a caso.

A vederli camminare sembrava una comitiva di altri tempi;  precisamente come nella  Chicago degli anni ’30 ai tempi di Al Capone, del quale si sentivano gli emuli,  imitandolo persino nel vestire, una sorta di divisa: gessato doppiopetto a righe larghe con risvolta nei pantaloni e cappello a falde alla borsalino (è tutto vero!), senza trascurare le lunghe sciarpe svolazzanti e chiare che davano loro un tono di “Sfida all’Ok Corral” condita di più nostrana boria spagnolegginte.

Magari però  si fossero limitati alla caricatura dei loro idoli italo-americani! Come quegli altri invece anche i picciotti  imbracciavano mitra, fucili e pistole che esibivano in modo spudorato (cosa niente affatto lecita neanche ad Africo). Di tanto in tanto tiravano dei colpi in aria come usuale della festa, ma in alcuni punti anche su case e cose di avversari, questo li distingueva dalla gente comune per collocarli tra i  teppistelli di paese. Il fatto che tra i danneggiati strada facendo vi furono due sindacalisti (a uno bersagliarono la  macchia e all’altro la finestra) denotava già quello che erano veramente: picciotti di ‘ndrangheta nell’esercizio delle loro funzioni, con la ”missione” di riprendersi il paese!

Il gruppone tutto composto di giovani e giovanissimi picciotti delle principali famiglie di ‘ndrangheta comprendeva almeno quattro coppie di fratelli con relativa cuginanza, più altri scagnozzi di bassa lega senza arte né parte. Non era là, per essere precisi, tutta la picciotteria di Africo ma solo una parte ben delineata e circoscritta, a noi ben nota.

Nel loro incedere lenti al centro della carreggiata si credevano il non plus ultra della malandrineria e il contraltare dell’odiata “sbirraglia” non sapendo forse (ed in questo rimanevano dei poveri “idealisti”) quanto invece tutto ciò era possibile e frutto di un accordo infame tra i loro capi e gli sbirri.  E del resto non era un mistero ed essi stessi se ne vantavano che il loro santo protettore fosse il famoso Don Stilo, prete mafioso di altissimo rango eppure accreditato alla grande dalle istituzioni.

Arrivati alle ultime case nel lato a monte del paese girarono e cominciarono il percorso a ritroso in discesa, stavolta per le vie centrali e dalla centralissima piazza Casalnuovo per imboccare poi il tratto a monte di Via Giuseppe di Vittorio percorso il quale spuntarono infine nella nostra piazza, allo stesso modo e maniera delle volte precedenti.

La sparatoria

Quando tornai nel locale del forno riattraversando la stanzetta che lo collegava col corridoio dell’entrata, trovai lo stesso mio fratello che stava tirando fuori dall’impastatrice il mitra e il fucile poggiandoli sul tavolo di lavorazione del pane, e mio cognato Turi che si stava già sistemando addosso una delle  cartucciere. Trovai tutto ciò regolare e appropriato per tenersi pronti a ogni evenienza, ma a quel punto domandai: “Chi è andato a vedere?”- “Gianni!” – Rispose qualcuno.

Gianni, mio fratello, gemello di Bruno, era l’ultima persona che avrei pensato di mandare in quella situazione. Non l’avevo visto uscire perché era passato dalla porta del forno e credendolo in pericolo mi “precipitai” nuovamente verso la porta principale per raggiungerlo. Per la troppa fretta non pensai di prendere con me una pistola.

Per la gravità delle ferite nell’attentato di due anni prima (centrato a entrambe le ginocchia e a una caviglia a fucilate quando ero già a terra), ero stato sottoposto da poco all’ennesimo intervento chirurgico e ingessato nuovamente a una gamba  e, camminando con estrema difficoltà, ci misi un’eternità per scendere i tre scalini di casa: calandoli uno per volta, lentamente, e dopo aver poggiato su ognuno entrambi i piedi.

Toccato finalmente il marciapiede presi a salire in su verso la piazza portandomi nel contempo al centro della strada da dove la vista sulla panchina non era impedita dai pali della luce posti al centro del marciapiede che da lì saliva per dritto.  Con quella visione più ampia della scena vidi molto distintamente le due masse di ragazzi fronteggiarsi e litigare ancora molto animatamene.

Non scorgendo ancora mio fratello, continuai con i miei miseri passetti ad avanzare scrutando in fondo cercandolo con lo sguardo, quando vidi un gran sommovimento e la folla disperdersi,  con i picciotti staccarsi e portarsi verso il centro della piazza nel mentre si accompagnavano con folto fuoco di fucileria a beffardo saluto e ultima minaccia.

I picciotti presero a camminare verso il centro della piazza e trasversalmente diritti per via Giuseppe Verdi, parallela a casa mia. Evitavano perciò di passarci davanti, ma nel farlo presero a tirare fucilate verso la casa di MarioLeo che era dirimpetto alla panchina e dall’altra parte della piazza.  Alcuni sparando continuavano nella discesa, altri si spostarono apposta da quel lato continuando a bersagliare porta e finestre senza riguardo alcuno per l’incolumità delle persone che potevano essere presenti nella casa.

I più si soffermarono ricaricando i fucili e replicando con i colpi fino a quando qualcuno dal lato opposto della piazza decise che dovevano darci un taglio e prese a tirare su di loro.

Per quanto mi ero affrettato, in quel preciso momento avevo percorso solo una trentina dei circa quaranta metri per raggiungere la piazza ma ormai prossimo all’imbocco vidi i picciotti in fondo a sinistra che, come investiti da un gran vento, piegandosi e scappando in avanti, giravano nel contempo le armi e sparavano  diritto davanti a me sul lato destro della piazza. Solo allora notai distintamente mio fratello che correva  in giù rasentando le case fino a raggiungere un palo della luce dietro al quale si riparò.

Era esattamente su di lui che stavano sparando.

In quel momento era a una ventina di metri alla mia destra e, avendo finito i colpi, era inerme sotto la fucileria dei picciotti che facevano fuoco.

Fortunatamente il palo era di cemento ma non abbastanza grosso per coprirlo del tutto e io temevo di vederlo cadere in qualunque momento senza poter fare nulla per difenderlo.

Sconvolto continuai ad avanzare con le mani avanti, come per voler fermare con quelle le pallottole, quando insperatamente da dietro alla mia destra vidi arrivare e superarmi GE2JX23, lanciato di corsa verso l’altro lato della piazza imprecando e sparando a braccio teso con una pistola automatica.

Attaccati da questa altra angolazione i picciotti  smisero di sparare su Gianni e spostando il tiro su GE2JX23 che mi passava davanti completamente esposto ma badando più che altro (e per fortuna) a scappare accelerando per portarsi fuori dall’area scoperta.

Subito dopo giunse LUJJEJ18 col mitra che, dopo avermi superato di un paio di passi, si fermò spianandolo verso i nemici, senza però fare fuoco. Gli gridai: “spara, SPARA!” – “Si è inceppato!”  Mi rispose furioso, cercando di sbloccare l’otturatore.

In quel momento i picciotti erano in rotta completa. Avesse funzionato il mitra sarebbe stato come falciarli nello scoperto della piazza, prima che si imbucassero nella parallela. Ebbero però una fortuna sfacciata!

Ma, come se rigenerati da una fonte prodigiosa e le nostre risorse illimitate appresso ancora, dal marciapiede alla mia sinistra, giunse anche Turi; una cartucciera a tracolla e tra le mani il fucile, correva spedito con ampie falcate sul fronte del fuoco.

Rasentando le case da quel lato non era visibile ai nemici finché non sboccò sulla piazza dove fece in tempo a sparare un colpo prima che l’ultimo dei  picciotti mi sparisse dalla vista.  Seguitando in quella manovra tatticamente perfetta, costeggiando le abitazioni disposte ad arco di quel lato della piazza, li tallonò ancora fino quasi ad affacciarsi sulla parallela e quindi alle spalle dei picciotti in fuga precipitosa e non più nelle condizioni di controbattere. Prima che completasse il giro però gli gridai di fermarsi e di ritornare indietro, anche perché  vidi finalmente Gianni, ormai fuori tiro, lasciare il palo e correre sano e salvo verso di me e LUJJEJ18. Subito dopo anche  GE2JX23 dal suo punto avanzato (e scoperto) nella spianata arretrò verso di noi e, con Turi che frattanto ci raggiunse, ci ritrovammo alla fine  tutti e cinque all’imbocco della piazza dove chiesi se per caso qualcuno era stato colpito. Mi risposero tutti di no. Dissi ancora: “Rientriamo subito a casa!”

Non mi pareva vero che da quel diluvio di pallottole uscivamo tutti senza neanche un graffio, ma ero sollevato anche dal fatto che, in tutta evidenza, non avevamo ucciso nessuno: che nel caso sarebbe stata comunque una disgrazia.

Per come era  configurato, l’isolato che ci separava dai nemici iscriveva una piramide tronca la cui cima tondeggiante costeggiava la piazza, ed ai lati la nostra Via G. Di Vittorio e Via Giuseppe Verdi collegate a loro volta da Via Fratelli Cervi che costituiva la base della “piramide” e dal nostro lato sboccava poco sotto casa nostra, dall’altro lato della strada.

Seguitando nella loro fuga, da via Giuseppe Verdi i nemici svoltarono d’infilata in Via Fratelli Cervi, per ripararsi, se avessero proseguito nella corsa potevano aggirarci da sotto tagliandoci la strada e colpirci anche con estrema facilità da dietro l’angolo sotto casa nostra.  Incitai perciò di affrettarci a rientrare a casa. Nell’avvicinarci, infatti, dalla traversa arrivava già un gran trambusto di grida e imprecazioni dei picciotti dei quali ne avevamo colpiti due e non c’e ne eravamo neanche accorti.

Turi, eseguendo nuovamente una manovra militarmente perfetta, ripercorrendo all’incontrario il marciapiede dell’andata, raggiunto il livello di casa nostra seguitò a correre rasento i muri per andare a piazzarsi in quell’angolo strategico all’imbocco della traversa. Ma ancora una volta gli gridai di fermarsi – e di correre indietro da quest’altra parte per rientrare tutti insieme a casa nostra.

Nuovamente dunque mi incaricai dell’incolumità dei picciotti (che in quella strada stretta e senza ripari si erano cacciati come in una trappola), ma soprattutto non volevo che Turi – o chiunque altro dei miei – corresse ancora dei rischi allo scoperto quando la nostra casa era un rifugio già raggiunto e sicuro, quasi una fortezza.

Casa nostra, che per quattro quinti ci eravamo fabbricato con le nostre mani, improvvisandoci architetti, operai e muratori, era allora la più grande del paese e sovrastava tutte quelle intorno di ben due piani.

Morte di Turi

Rientrati a casa ci preparammo a ogni evenienza ordinando per prima cosa alle donne di salire al primo piano, più al sicuro. Dissi a GE2JX23 di andare ad appostarsi sulla terrazza da dove si poteva controllare ogni cosa. Tutti gli altri restammo ancora al pianterreno dove ormai, come prigionieri nel forno, rimanevano gli altri compagni e amici. LUJJEJ18  si mise subito a smontare il mitra per aggiustarlo e poco dopo disse che era tutto a posto, che funzionava. Lo prese Gianni e si diresse anche lui su per le scale ai piani di sopra.

Con gli ospiti rimasti nel forno, noi di famiglia prendemmo a muoverci di qua e di la attraverso il corridoio dell’entrata rimanendo in comunicazione tra di noi e in ogni punto della casa: il forno, le stanze di dietro, e la scala che dal corridoio portava ai piani superiori. E fu in quel girovagare che a un tratto, nel riaffacciarmi nel corridoio vidi Turi di spalle armeggiare con la porta ed, appena aperto un spiraglio, un improvviso strepitio di spari dall’esterno. Quasi all’istante lo vidi cadere all’indietro come se respinto da una forza irresistibile e nel mentre un rivolo di sangue copioso gli calava dalla fronte.

Come colonna d’un pezzo continuò a sostenersi sulle gambe e a stringere al petto il fucile, e in quel modo composto cadde quasi addosso a mio padre che gli stava più d’appresso e che lo sostenne fino ad adagiarlo supino sul pavimento – per poi affrettarsi a chiudere la porta. Sopraggiungendo, nell’ultimo tratto aiutai anch’io ad adagiarlo da un lato del corridoio.

Turi non diede più segni di vita. I nostri inutili richiami invocanti il suo nome annunciarono alle donne che qualcosa di molto grave era accaduto, e dal piano di sopra ci tornarono come un eco altre grida disperate. Dissi a ‘Ntoni accorso dal forno di salire là per non farle scendere ed egli prima si sfogò tirando un calcio a una porta, bestemmiando la Madonna. Mi imposi allora di mantenere la calma andando per prima cosa a dire agli amici nel forno di non muoversi assolutamente per il pericolo che uscendo fossero presi a bersaglio.

Subito dopo udimmo passi concitati e un tonfo come di una persona arrivata a sbattere contro la porta, e poi un bussare e un vociare concitato. Dalla voce lo riconoscemmo per uno dei nostri, e facemmo perciò entrare senza alcun indugio. Arrivando di corsa era scivolato sul sangue di Turi dilagato anche fuori nel pianerottolo.

Turi a terra appariva grande e solenne nella sua figura composta nell’immobilità come un cavaliere medievale già preparato alla sepoltura, con quel suo fucile tra le mani, a posto della spada, il giaccone azzurro impellicciato all’interno che gli faceva da mantello e le cartucciere da maschia cintura. Il largo bavero di finto vello bianco gli incorniciava il viso che non accusava dolore né ombra di paura, e nemmeno mi appariva minuto e giovanile come ero abituato a vederlo da quando a solo 16 anni si era fidanzato con mia sorella Maria. Lo vidi adulto finalmente e un vero uomo. Gli occhi aperti che guardavano ormai sul nulla. L’apparente vigore del suo viso contrastava con la docilità del suo corpo che si muoveva al nostro contatto e non reagiva ai nostri richiami disperati. Gli tolsi il fucile che stringeva ancora forte tra le mani e gli levai sfilandole le cartucciere che aveva entrambe sistemate alla cintura. Ne indossai una e presi io il fucile .

Allora Gianni, che intanto era sceso e mi stava accanto a posto di mio padre, impugnando il mitra, in piedi dietro la porta, mi propose di uscire velocemente per sorprendere i nemici, di certo nei dintorni. Io frenai per l’ennesima volta ma non più per “pacifismo”: nel mio stato ci avrei messo almeno due minuti solo per scendere i tre scalini dell’uscio; Gianni mi avrebbe preceduto attirando su di sé tutti i pericoli… e non potevo permetterlo.

Pensando ormai all’arrivo imminente dei carabinieri rovistammo nei vestiti di Turi per accertarci che non ci fossero altre cose compromettenti. Sapevamo che di lì a poco il suo corpo sarebbe passato nelle mani estranee e ostili della Legge.

Scese da sopra anche GE2JX23 e disse di averlo visto lo sparatore puntare e tirare proprio da dietro quell’angolo maledetto. Un solo colpo! Era stato poi intercettato e bersagliato con tre pistolettate, senza però essere colpito in quanto troppo coperto e dileguato poi velocemente. Gli dissi di risalire e continuare la guardia per tema di altri assalti. Rimanemmo ancora soli io e Gianni accanto al corpo di Turi.

Con i pianti delle donne si annunciò fuori la morte di qualcuno di noi. Dopo un poco vedemmo dalla porta socchiusa che sotto la casa dei vicini mafiosi, dall’ angolo a vista della traversa si erano raccolte un gruppo di persone vestite anche loro “stile Chicago”. C’era un lampione che illuminava sufficientemente la scena e quelli attraverso la nostra feritoia apparivano dei bersagli perfetti. Gianni disse:

“Sono tra quelli di prima, spariamoli e lo vendichiamo!”

Sarebbe stato facile abbatterli con una scarica di mitra e di fucile ma io notai, perché alto e biondo, il nostro vicino malandrino con ancora alle spalle il fascio netto di luce della sua porta aperta (perché appena uscito di casa)che stava proprio al centro del gruppetto. Almeno lui non c’era nello scontro. Frenai ancora e per l’ennesima volta: “Non possiamo, c’è pure chi non centra …”

Scese allora da sopra mia madre e si gettò su Turi iniziando a piangerlo con alte grida e ad abbracciarlo e toccandolo sul viso e dappertutto sul corpo. Costatando che aveva addosso il portafoglio glie lo tolse porgendolo a noi e dicendoci:

“Poi datelo a Maria! Qualunque cosa gli trovano addosso la sequestreranno…”

Gli pose la mano sul viso e la calò delicata chiudendogli gli occhi, quindi si rivolse ancora a noi per domandarci se aveva addosso delle armi. Rispondemmo  che non ne aveva più, ma lei frugò lo stesso trovando in una delle tasche del giaccone alcuni proiettili di pistola. Si girò per porgerceli e con un occhiataccia come per fulminarci tutti.

Ormai padroneggiava la situazione (aveva solo 48 anni e non era né vecchia e né pazza, come dirà poi – toppando – Stajano nel suo libro “Africo”) e quasi ci ordinò: “Chiamate Maria, è giusto che pianga suo marito!” Aggiunse:  “E quando, se no, lo vedrà più?!”

 

Mio padre salì di sopra dove c’era il telefono e chiamò i carabinieri, mentre noi nel frattempo licenziammo tutti gli amici, facendoli uscire dalla porta del forno, per non coinvolgerli con la legge. Temendo la perquisizione affidai a un mio cugino tutte le armi per portarle al sicuro. Restammo disarmati delegando così la nostra sicurezza ai carabinieri pensando che sarebbero arrivati a momenti.

Passarono i 10 minuti calcolati, poi altri 10 senza che si vedesse nessuno, eppure la loro caserma distava non più di 300 metri!

Non avendo più con che difenderci la situazione si faceva preoccupante. Allora mio padre richiamò la caserma protestando per il ritardo senza che si facesse vivo uno straccio di carabiniere.

Intanto la notizia si stava propagando per il paese: informato da qualcuno, si affacciò uno zio di Turi per costatare il fatto e subito se ne andò; appresso si affacciarono due amici del vecchio “circolo rivoluzionario” che dopo un po’ se ne andarono anche loro. Infine arrivarono da Pardesca del Bianco, accompagnati da altri parenti, il padre e un fratello di Turi che alla vista del loro congiunto a terra e col volto orrendamente insanguinato reagirono con urla disperate, e subito dopo vennero portati via senza neanche averlo toccato.

Erano arrivati i parenti dall’altro paese e i carabinieri lì vicino ancora no! Rimanemmo ancora soli.

Da fuori intanto – come sapemmo il giorno dopo – i malandrini ci tenevano sotto controllo da ogni parte.  Con tutta calma, come se sicuri che nessun poliziotto o carabiniere li avrebbe disturbati, stavano appostati nello scuro della spianata delle vecchie baracche, a suo tempo incendiate, da dove – mitra alle mani – controllavano a distanza la mia casa e da vicino chiunque saliva da quella parte.

 

Dopo un’ora e mezza, o forse più, i carabinieri si fecero vivi. Si erano fatti attendere ma appena arrivati si precipitarono dentro d’impeto come se fossero reduci da chissà quale corsa. Si comportarono da cani (con rispetto per le bestie), come se la mia casa fosse una osteria e noi famigliari degli importuni avventori, con urla e spinte ci intimarono di allontanarci dal “cadavere”. Ci respingevano con le mani provocando una nostra reazione a stento repressa. E si rischiò la rissa tra noi e gli sbirri intorno al corpo di Turi. Mia madre protestò con quello che sembrava il comandante e sbraitava di più:  “Ci hanno ucciso un famigliare in casa nostra, non è giusto che ci trattate così!”

Ci respinsero comunque (erano numerosi) verso il locale del forno e là, tra i cassoni vuoti del pane, improvvisammo la sede del lutto.

Lutto

In quel grande locale arrivarono man mano tutti i parenti, anche quelli più lontani o che non frequentavamo da anni. Rimanemmo così tutti e solamente tra di noi a piangerci il morto per l’intera notte. Dei compagni solamente uno, Nino Marte,  amico d’infanzia di mio fratello Bruno, rifiutò di lasciarci e rimase con noi fino all’ultimo. In quelle condizioni ci giunse l’anno nuovo.  A mezzanotte solo in lontananza si sentirono degli spari, forse da parte di soggetti isolati e ignari dell’accaduto.

I carabinieri intanto dall’altro lato della casa facevano i rilievi e le fotografie  finché, verso le tre, arrivò una macchina mortuaria con la bara per portarsi via il corpo di Turi. Fu quello il momento più straziante perché uscimmo tutti nella notte e nel freddo per dargli un ultimo saluto. Mi guardai attorno e in su e in giù fino agli estremi della strada e della piazza: non c’era anima viva, tranne noi ed i carabinieri. Quanta differenza da quella volta in cui, pochi anni prima, era stato ucciso uno ‘ndranghetista nostro vicino di casa! Col corpo del morto all’obitorio, decine e decine di persone stazionarono allora di fronte casa sua, per rispetto, silenziosi e contriti per due giorni e due notti intere. Ecco un legante antico che univa fortemente la gente e rendeva la ‘ndrangheta più forte! In quella nostra solitudine nuova invece vidi il fallimento di un sogno, la sconfitta e ormai l’insensatezza di quella nostra “lotta di liberazione” per Africo.

Con la macchina mortuaria sparirono anche i carabinieri che ci lasciarono soli e indifesi nel resto della notte; e senza più ritornare neanche nei giorni successivi salvo ricomparire quasi furtivamente nella piazza appena fatto giorno nelle smilze figure di due agenti giovanissimi che scesero da una piccola macchina per poi guardarsi intorno e perlustrare un poco fino a ridosso della casa di Marioleo.   Vidi l’intera scena attraverso la finestra del forno e non mi parse che raccogliessero qualcosa da terra. Rapidamente se ne andarono senza segnare appunti né fare fotografie.

Per il fatto stesso di essere venuti sapevano già qualcosa e comunque videro sul posto almeno quanto avevo visto io per averli preceduti solo da pochi minuti, quando ero andato preoccupandomi per i genitori di Marioleo: trovando davanti casa loro un tappeto di bossoli e di cartucce, sbrecciature sulle mura e fori grossi come un pugno sulla porta e la finestra con altri squarci e interi pezzi di fasciame volati via dai colpi di fucile. Scrutando attraverso non vidi all’interno traccia di persone ne segno di ferimenti, per fortuna.

Già durante la notte, come se li avessero pronti da chissà quanto, apparsero i vestiti neri indosso alle donne: camicie, gonne, magliette, calze, scialli e – per le adulte – anche i più tristi fazzoletti in testa, massimo simbolo del lutto. Quello indosso a mia sorella, di lucida stoffa nuova, lo pose mia zia, con lento rituale, in una sorte “vestizione della vedova”.

Col giorno arrivarono, perché finalmente avvertite, anche le mie anzianissime nonne, Maria Antonia e Carmela. Tornarono man mano anche gli amici e i compagni con gli altri comuni paesani per darci le condoglianze. Tanti neanche li conoscevo.  Coralmente, nell’anonimato della massa, il paese rispondeva, la gente  esprimeva il suo cordoglio e una solidarietà che era anche velato dissenso alla ‘ndrangheta riconfermato poi con la partecipazione al funerale, che fu imponente.

Ad esprimerci vicinanza vennero dei compagni e amici della Piana e del basso Vibonese, ma la visita che più ci fece piacere fu quella di un ragazzo tra quelli offesi (più che noi) dai picciotti nella piazza. Aveva un messaggio che volle comunicarmi personalmente facendomi chiamare da un’altra stanza. Parlò con concitazione come nel suo stile per dirmi a nome suo e di altri, nominandoli, che erano a nostra completa disposizione per sparare tutti quelli che avrei detto.  Sapendo che nella lista c’erano nel caso anche alcuni suoi cugini gli volli fare la domanda: “ Tutti?” e lui mi rispose deciso: “Tutti, tutti!! Era più di quello che mi sarei aspettato ormai dai ragazzi. Ringraziai riservandomi la risposta, ma solo per non deluderli, avendo già deciso di declinare l’offerta. Non potevo tradire le loro famiglie, che quasi me li avevano affidati come a un fratello maggiore, né i ragazzi stessi approfittandomi di loro per scatenare ad Africo una guerra sanguinosa, che per altri versi non escludevo affatto.

Nel tumulto di sentimenti e pensieri sorgeva nelle nostre riflessioni l’inaudita sicurezza con cui quelli si erano potuti permettere il lusso di girare armati in quel modo; di tenerci sotto assedio dopo; del fatto che i carabinieri sebbene chiamati erano venuti con i comodi loro e poi anche si erano comportati in quel modo infame ed inoltre dell’inusitata assenza dei baschi neri nel bivio proprio quella notte, e ancora nei giorni che seguivano.  A quel punto ci fu fin troppo chiaro quanto il paventato rastrellamento del paese era stata una notizia trabocchetto per disarmarci e agevolare la ronda dei picciotti.

Ragioni di questa certezza le avemmo il giorno prima del funerale dalle parole di una comare nostra, moglie di un indranghetista successivamente ucciso in una sanguinosa faida tra parenti, che ebbe a dire a mia madre:

“Vostro figlio voleva stringere il paese nel suo pugno!”a motivo e fors’anche a giustificazione di quello che ci era accaduto; ma lasciando trapelare soprattutto come la ronda stessa dei picciotti era stata concepita allo scopo e nella “necessità” di indebolirci.

Singolare la visita di quella donna che era arrivata apparentemente come le altre per l’usuale visita del lutto, ma che poi volle appartarsi con mia madre per esprimere in via riservata i suoi nient’affatto buoni proponimenti; o piuttosto riportare avvertenze e velate minacce della mafia. Tra la sua famiglia e la nostra c’era un importante sangianni in ragione del quale  venne a parlare con mia mamma per indurla a tenerci buoni…. con ancora il corpo del povero Turi all’obitorio! Nella sua mancanza di tatto e sensibilità, indegne della sacralità del comparaggio, ebbe a suggerire della “necessità” di soprassedere su tutto e metterci l’anima in pace, concludendo con queste precise parole:

“Comare, per il morto il più è metterlo sottoterra che poi con tempo il dolore passerà!” Mia madre gli rispose: “Io non lo so se passa il dolore ma vi auguro, comare, che anche voi abbiate la sorte di avere un morto ancora sopraterra e altri che vi dicono le stesse parole che state dicendo a me!”

Quando finalmente quella  se ne andò, mia madre era più infuriata che addolorata e quasi gridò: “Anche loro un giorno dovranno piangere!!!”

E qui mi fermo, il seguito fu la facile conquista della Calabria da parte dei mafiosi per grave colpa di altri e l’avverarsi della “profezia” di mia madre ben oltre (purtroppo) il suo nefasto auspicio.

 

Rocco Palamara