Il testimone Angelo Niceta: ”Ecco chi comanda veramente a Palermo e in Italia”
Giovedì 04 Maggio 2017
di Giorgio Bongiovanni – Intervista
“Cosa nostra siamo noi, ma la mafia, quella, è un’altra cosa”. Così in un’intervista che gli feci ormai 15 anni fa Salvatore Cancemi, ex boss della cupola e collaboratore di giustizia, cercava di farmi capire che esisteva una differenza sostanziale tra la mafia militare, con le sue regole ferree e i suoi crimini efferati, e la mafia cosiddetta “invisibile”, la “zona grigia” composta da professionisti, banchieri e bancari, funzionari infedeli e persino magistrati, con le sue regole di collusione e compiacenza e i suoi crimini in denaro. In una parola: gli “intoccabili”. Almeno fino ad ora.
Per quanto a bocca amara, nessuno ormai può negare il contributo fondamentale che i collaboratori di giustizia hanno dato alla lotta alla mafia. Da Buscetta in poi, se non fosse stato per loro, brancoleremmo ancora nel buio. Gli inquirenti da sempre auspicano, o forse meglio dire, sognano, che un “pentito di Stato” possa finalmente fare la propria parte, basti pensare quali scenari si sono potuti aprire già con le timide ammissioni dei vari Martelli, Ferraro ecc… costretti dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino.
Ma cosa accadrebbe se oggi potessimo avere un collaboratore o un testimone di giustizia disposto a raccontare i retroscena della “borghesia mafiosa”? Che ci svelasse i nomi e i volti dei “facinorosi della classe media” che vincolati da un patto secolare hanno reso la mafia un elemento imprescindibile del tessuto economico e sociale siciliano innanzitutto e italiano poi?
Forse è arrivato il tempo di scoprirlo. Angelo Niceta, 46 anni, fa parte di una famiglia storica di imprenditori palermitani. Dal padre Onofrio e dallo zio Mario, lui e i cugini hanno ereditato un notevole impero economico nel quale però non sono confluiti solo i capitali della famiglia di sangue. Secondo quanto ha raccontato ai magistrati che lo hanno ascoltato per primi, Nino Di Matteo e Pierangelo Padova, già nel 1987, il padre Onofrio decide di separare la propria carriera professionale da quella del fratello Mario perché questi si sarebbe reso disponibile a lavorare con e per conto di potentissime famiglie mafiose. Avrebbe infatti acquistato la società “CARTERBOND” riconducibile a Giuseppe Guttadauro e ai fratelli Graviano, capi indiscussi del mandamento di Brancaccio.
Angelo Niceta si è praticamente ritrovato sul lastrico a suo dire in seguito a manovre spregiudicate dei suoi parenti. Ed è proprio in questo frangente che ha ritenuto giunto il tempo di fare ciò che avrebbe voluto fare già da molti anni: parlare con la magistratura e raccontare i retroscena di quel mondo di intrecci tra mafia e borghesia nel quale è di fatto cresciuto.
D’accordo con i familiari più stretti, la moglie e i quattro figli, due dei quali minorenni, ha accettato, su consiglio dei pubblici ministeri, di fare richiesta per il programma di protezione quale testimone di giustizia poiché ha finora reso dichiarazioni in qualità “di persona informata sui fatti”.
Niceta ha accettato richiedendo però di potere restare a Palermo.
In un primo momento i magistrati gli comunicano che la Commissione testimoni ha accolto la sua richiesta e qualche tempo dopo, siamo tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del 2015, lo trasferisce in una località protetta in Sicilia, in attesa di un’altra destinazione.
Dopo qualche giorno gli incaricati del Servizio di Protezione gli sottopongono una sorta di questionario da compilare; tra le domande vi erano anche quelle relative all’appartenenza e al ruolo interno alla famiglia mafiosa. Niceta scopre infatti che il suo status era stato modificato da testimone di giustizia a collaboratore di giustizia. Cerca di contattare i magistrati per avere spiegazioni ma non riesce.
Mai affiliato, mai processato e tanto meno indagato per mafia, Niceta si infuria e, indignato, rifiuta di firmare le carte.
“Potrai fare e vincere una guerra contro la mafia, ma non contro lo Stato” gli dice a mo’ di battuta un po’ infelice uno dei funzionari che lo accompagna.
E’ un colonnello della guardia di finanza che lo tranquillizza, gli dice di aspettare che si sarebbe informato circa la sua situazione e gli avrebbe fatto sapere.
Niceta e la famiglia restano in attesa per dieci giorni, senza un soldo, sopravvivono grazie alla posta pay del figlio fatto tornare in fretta e furia da Londra, dove lavorava, per entrare a far parte del programma e la gentilezza della padrona dell’albergo in cui sono alloggiati.
Finalmente torna il colonnello e gli spiega che la Commissione aveva deliberato il cambio di status da testimone a collaboratore nonostante il parere dei magistrati. Alla fine si accordano perché Niceta firmi per entrare nel programma comunque, per ragioni di incolumità sua e della famiglia, ma ottiene che venga mandata per raccomandata alla Commissione, copia alla Procura di Palermo, una sua lettera nella quale rappresenta tutto il suo dissenso.
Inutile dire che nulla da allora è cambiato. Dopo la solita esperienza da incubo che accomuna i testimoni di giustizia, tra burocrazie infinite, documenti che non arrivano mai e disagi infiniti per i congiunti, soprattutto per i minori, Niceta è tornato a Palermo. Senza protezione, senza denaro. Chiamato a rendere dichiarazioni al “processo trattativa”, ci va da solo, “con le sue gambe”.
ANTIMAFIADuemila ha incontrato personalmente Angelo Niceta, un uomo determinato ad andare fino in fondo. Allo Stato chiede giustizia e rispetto delle regole, ma soprattutto che vengano protetti i suoi figli e sua moglie.
Perché ha deciso di parlare con la magistratura?
Per una serie di soprusi che ho subito da parte della mia famiglia, o meglio quella dei fratelli di mio padre: i Niceta e dei personaggi ad essa collegati, e dopo un susseguirsi di varie vicende che mi hanno devastato. Nonostante mio padre abbia sempre voluto separare la nostra famiglia stretta da quella del fratello abbiamo sempre dovuto subire la pressione dei soci occulti della famiglia di mio zio Mario Niceta.
Di chi stiamo parlando?
Mi riferisco ai rapporti finanziari che mio zio ha avuto con importanti famiglie mafiose palermitane. Già alla fine degli anni ’80 e inizio ’90 Mario Niceta era il dominus della società “Parabancaria” che funzionava come vera e propria “lavanderia” dei proventi illeciti.
Sono legami poi ereditati dai suoi figli, i miei cugini, a causa di una grave malattia al midollo che lo ha colpito.
Lei ha mai subito minacce da questi soggetti?
Sì, a volte dirette, a volte, sottili, come dire “consigli”. Poco prima delle vicende a dir poco oscure che mi hanno portato a dichiarare il fallimento delle mie attività, siamo stati vittime di rapine violentissime. Successivamente quando ho cominciato a prendere decisioni societarie contrarie ai miei cugini, mettendomi di traverso, soprattutto nella gestione della società immobiliare Olimpia, che possiede gli immobili in via Roma, l’unica proprietà rimasta in comune con tutti gli altri parenti, i “consigli” sono stati più espliciti. “O me la dai, o me la prendo”. Mio padre è stato minacciato fisicamente per strada da sconosciuti con frasi chiare del tipo: “Ti facciamo saltare con tutto il palazzo”.
A quali famiglie mafiose in particolare si riferisce?
Famiglie con le quali ci sono stati rapporti fin dagli anni Ottanta. Legami che tutti conoscevano perché sono stati ostentati, soprattutto dai miei cugini Massimo e Piero Niceta. Negli uffici di via Roma avvenivano riunioni con i Guttadauro: Giuseppe, Carlo e Filippo, marito di Rosalia Messina Denaro, che erano praticamente di casa. Fra loro e mio zio Mario c’era un rapporto amichevole, fraterno. Spesso c’erano anche gli Scaduto, Pietro Lo Iacono di Bagheria…
I legami più stretti però erano con i Guttadauro, a mio avviso, quelli che hanno un’influenza maggiore in Cosa Nostra oggi vista la parentela con Matteo Messina Denaro. Anche se la loro attività al momento è limitata a causa degli arresti, il loro potere si estende nei territori più importanti: Bagheria, Casteldaccia, Brancaccio, fino a Villabate.
Matteo Messina Denaro aveva come braccio destro il socio dei miei cugini Massimo e Piero, Francesco Guttadauro, il suo pupillo. E quanto dico è stato stabilito anche dal tribunale di Trapani, dal giudice Grillo, che ha confiscato la società Nica s.r.l. teoricamente di Massimo Niceta ma come soci occulti Maria e Francesco Guttadauro.
Quindi come definirebbe il rapporto tra i suoi familiari e i Guttadauro? Non mi sembra di tipo estorsivo da quello che lei racconta.
No, infatti. Erano soci a tutti gli effetti ed erano anche amici. Quando Giuseppe Guttadauro fu scarcerato nel 2005, la prima cosa che fece fu andare a trovare mio cugino Massimo, non le dico i festeggiamenti lì in via Roma…
E’ un rapporto storico quello di mio zio Mario con i Guttadauro, un do ut des di convenienza, conoscenze, collegamenti, amicizie… tutto finalizzato ad un vantaggio reciproco che rendeva tutti più forti. L’imprenditoria di un certo livello era introdotta in ambienti molto alti, dove tutti sono amici di tutti: il politico parla con Mario che a sua volta riferisce… senza che ci sia mai un contatto diretto.
Sta parlando di contatti politici recenti?
Io posso riferire fino al 2012, ne parlerò poi dopo che avrò riferito ai magistrati. Ma posso confermare ciò che è risaputo su Lima, D’Acquisto e la corrente DC. Già all’inizio degli anni ’80 i cugini Salvo e i loro figli erano di casa. Con loro ed i miei cugini eravamo amici, andavamo alle feste o in barca.
Suo zio era una sorta di ambasciatore?
Non solo. Era il trait d’union. Come Totò Cuffaro. Questi una volta fece una battuta a mio figlio, che correva in macchina. Mi fecero sapere che avrebbero potuto fargli fare carriera se io fossi stato disposto a “diventare il loro scendiletto”. Cuffaro fece la battuta: “Che problema c’è, per ora u’ picciotto fallo andare da solo, sennò un domani ti scrivono il titolo sul giornale ‘il pilota della mafia’”.
Tutta quella corrente che parte dalla DC e poi si sviluppa in Forza Italia.
Che rapporti ci sono, se ci sono tra Niceta e Micciché?
In questa fase non ne posso parlare.
Lei ha dichiarato che suo zio conosceva personalmente Bernardo Provenzano.
Così mi hanno raccontato i miei cugini che ne andavano particolarmente fieri. Io personalmente non l’ho mai visto, ma questa cosa non solo era a conoscenza dei miei cugini ma anche di alcuni dipendenti delle nostre attività commerciali. Nel 2003, Nicola Patti all’epoca impiegato in un negozio Benetton di cui ero socio mi disse che mio zio alla fine degli anni 80 aveva imposto l’assunzione di una commessa perché consigliata personalmente da Provenzano e tutti lo sapevano. Era una cosa normale. Che i Niceta si incontrassero con Provenzano era cosa risaputa, che si raccontava. Ad un’assemblea dei soci dell’Olimpia, nel 2011-2012, Massimo e Piero Niceta mi raccontarono che avevano incontrato in quel periodo anche Matteo Messina Denaro. Anche di questo i miei cugini si vantavano, mio zio, invece, era più riservato.
Lei ha reso testimonianza al processo trattativa Stato-mafia. Le sue dichiarazioni sembrano avallare quelle di Massimo Ciancimino…
Ci sono state delle conferme.
Ad esempio?
L’esistenza di rapporti tra suo padre e mio zio Mario. Conosco tutta la famiglia Ciancimino, le frequentazioni con i miei parenti, gli amici comuni degli stessi salotti, anche politicamente parlando.
Secondo quanto sta emergendo al processo trattativa, prima Riina e poi Provenzano furono i terminali di Cosa nostra a trattare con esponenti delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Cosa ne pensa?
Nella prima fase venne utilizzato Riina, poiché serviva una testa calda. Successivamente fu usato Provenzano il moderato, con lui ci si poteva parlare. Ma già allora dietro l’operazione c’erano Messina Denaro con i Graviano, e oggi i Guttadauro. E, ovviamente, tanti esponenti di Stato che hanno collaborato.
E il ruolo di Forza Italia?
A mio avviso Dell’Utri era la mente, fu tra gli organizzatori della trattativa: nasce come trait d’union in una fase successiva. Berlusconi è stato usato solo come testa di legno. La trattativa è diventata un patto, non importa se c’era Berlusconi o un altro: è l’ingranaggio che funziona e certe volte alcuni pezzi devono essere riciclati perché altrimenti “fanno puzza”.
Ha mai sentito qualcuno della sua famiglia parlare delle stragi del ’92?
Non cose particolari e dirette nel merito. C’erano conoscenze.
Che correlazione vede tra le stragi e la trattativa?
Le stragi sono state il motivo scatenante, ciò che ha portato alla trattativa, a cominciare dall’omicidio Lima. I soggetti che materialmente le organizzarono non potevano essere autonomi e allo stesso tempo disporre di quella forza di fuoco. Nel ’93 c’è stato il colpo di Stato, poi “l’ingranaggio” è andato avanti ed oggi ha raggiunto la perfezione.
Secondo il pentito Vito Galatolo, Messina Denaro ha chiesto alle famiglie palermitane di assassinare Di Matteo. E Riina, la testa calda…
Rimane il capo, Cosa nostra ha delle regole. Riina ha dato l’ordine e l’ordine va eseguito. Messina Denaro è solo il facente funzioni, anche se con potere assoluto.
Da un lato Riina rimprovera Messina Denaro, perché “fa pali per prendere soldi ma non si interessa”, nemmeno di un nuovo progetto stragista. E la mafia, secondo lei, dal periodo delle grandi stragi a oggi è tornata ad essere forte?
Fortissima. Sono ben organizzati ed economicamente potenti. Perciò non interessa fare un colpo di Stato. Tutto per ora funziona bene, allora per quale motivo “fare bordello”? Sono messaggi nel caso in cui gli ingranaggi si rompano. Materialmente Messina Denaro temporeggia per fare in modo che tutto resti tranquillo, dato che la situazione è a loro favorevole.
Alcuni addetti ai lavori sostengono che la mafia, con altri soggetti esterni, potrebbe compiere un’eventuale strage o un colpo di Stato per evitare la discesa o la conquista del potere di nuove forze politiche oneste. Cosa ne pensa?
Potrebbe essere, se dovessero vincere, stanno guadagnando tempo.
Quindi se dovesse vincere un movimento nuovo, con soggetti nuovi…
Sarebbe complicato ricreare quell’atmosfera conviviale, e potrebbero esserci dei presupposti per tornare a quel progetto. In questa fase ci sono dei timori anche politici dati dal non sapere gli esiti delle prossime elezioni. Del 41 bis che non gliene frega più niente a nessuno, a Messina Denaro sta anche bene che Riina e le teste calde restino al 41 bis. Le teste calde restano in carcere e chi è saggio e si sa organizzare è fuori. La cosa che preme invece è la legge Rognoni-La Torre, Falcone lo sapeva e l’ha chiesta. Ciò che dà più fastidio sono le confische e i sequestri.
Se dovesse dare un giudizio sulla Palermo bene ed i suoi rapporti?
Altamente mafiosa. Tutti frequentano gli stessi circoli e ambienti, le medesime feste, a volte c’erano magistrati insieme ad imprenditori collusi. Prima il bianco e il nero trattavano, oggi la situazione è più grave: una vasta zona grigia che ha raggiunto l’apoteosi e collega tutti gli ingranaggi. E la mafia, tramite l’imprenditoria, la politica e i rispettivi collegamenti, premia chi fa parte dell’“ingranaggio grigio” o distrugge chi vuole romperlo.
Quindi la pistola si usa solo in extremis.
Non ce n’è bisogno, vengono convinti. O è così o sei morto economicamente e socialmente, come me.
Di che cifre dispone Cosa nostra?
Si parla di centinaia di miliardi di euro, per non parlare dei soldi neri del traffico di stupefacenti: il consumo è altissimo e passa tutto da Sicilia e Calabria. Consideriamo che solo la parte confiscata a Matteo Messina Denaro vale 5 miliardi di euro e li avrà rifatti l’indomani.
E la massoneria?
È il collante. Il filtro che nella Palermo imprenditoriale collega mafia, imprenditoria e istituzioni. Anche mio zio era massone, così come quasi tutti i professionisti legati alla sua famiglia. Si raccontava che lo fosse anche Matteo Messina Denaro, e collegamenti politici di cui ora non posso parlare. Senatori della Repubblica, legati a Messina Denaro e con dei processi in corso. Di questo ho già iniziato a parlare.
Questo è Angelo Niceta, un uomo per bene che ha deciso di raccontare ciò che sa. Solo da questi accenni si può capire che avrebbe molto da riferire e spiegare. Per ora lo hanno sentito solo Padova e Di Matteo, quest’ultimo però, dopo poco tempo non ha più potuto interrogarlo… il perché è la solita storia. Di Matteo può occuparsi solo del processo “trattativa” e delle indagini ad esso collegate e di inchieste non collegate a questioni mafiose tipo patenti contraffatte e similari…
Speriamo che presto la procura di Palermo si decida a chiamare Angelo Niceta per approfondire il marcio che si annida nella borghesia mafiosa, per raccogliere più informazioni possibili sul volto della vera mafia, quella per dirla con Scarpinato e Lodato, del “principe” e della sua corte di vassalli, valvassori e valvassini.
fonte:http://www.antimafiaduemila.com