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Il terremoto e la ‘ndrangheta dieci anni dopo in Emilia: viaggio nel cratere e nel feudo dei clan

Il terremoto e la ‘ndrangheta dieci anni dopo in Emilia: viaggio nel cratere e nel feudo dei clan

GIOVANNI TIZIAN

12 maggio 2022 • 20:43

  • Il sisma del maggio 2012 ha portato distruzione, morte. Ma ha fornito anche le prove definitive della profondità raggiunta dalle radici della ‘ndrangheta, la mafia originaria della Calabria considerata oggi la più ramificata nel mondo.
  • Le scosse sismiche del 20 e 29 maggio 2012 e lo stato di emergenza successivo hanno fatto emergere le prove definitive dell’intraprendenza delle imprese delle cosche sul territorio e l’estensione delle loro relazioni con il potere locale.
  • Il 29 maggio 2012, alle ore 13.29, una telefonata rivela i piani della ‘ndrangheta emiliana: sfruttare la devastazione del terremoto per arricchirsi. Il dialogo è stato intercettato dai carabinieri di Modena.

Il centro storico di Concordia è ancora sfigurato dalle potenti scosse del terremoto di dieci anni fa. I lavori sono in corso per rimettere in sicurezza i palazzi storici, il municipio di questa cittadina bagnata dal fiume Secchia in provincia di Modena è tuttora in un modulo provvisorio fuori dal centro. é un edificio basso, bianco e verde. Di fronte ci sono le scuole nuove realizzate dopo il sisma. è qui che ci accoglie il sindaco, che spiega come in realtà Concordia sia il comune più avanti nella ricostruzione.

Il nostro viaggio inizia da questo luogo della bassa padana, per capire dieci anni dopo il terremoto in Emilia cosa è cambiato e non solo in termini di edifici e capannoni rimessi in sesto. Il sisma del maggio 2012 ha portato distruzione, morte. Ma ha fornito anche le prove definitive della profondità raggiunta dalle radici della ‘ndrangheta, la mafia originaria della Calabria considerata oggi la più ramificata nel mondo.

Le scosse sismiche del 20 e 29 maggio 2012 e lo stato di emergenza successivo hanno fatto emergere le prove definitive dell’intraprendenza delle imprese delle cosche sul territorio e l’estensione delle loro relazioni con il potere locale. Con la ricostruzione post terremoto è stato chiaro fin da subito, dai giorni immediatamente successivi alle scosse.

Per esempio gli investigatori hanno segnalato la presenza massiccia di aziende collegate alla ‘ndrangheta attive nella rimozione delle macerie dalla strade dei paesi del cratere sismico, all’interno del quale ricadevano 60 comuni distribuiti tra le province di Modena, Reggio Emilia, Ferrara. Dopo dieci anni nel cratere sono rimasti 15 comuni. Qui le opere di ricostruzione proseguono in alcuni casi ancora a rilento. L’epicentro del terremoto di magnitudo compresa tra 5.8 e 5.9 è stata la bassa modenese, l’area compresa tra Mirandola, San Felice sul Panaro, Medolla, Concordia, ultime frontiere della provincia di Modena prima di sconfinare in Lombardia. Le scosse sismiche hanno prodotto crolli e morti, 27 le vittime, 300 i feriti. Migliaia gli sfollati: 45mila.

RINASCERE

Luca Prandini è il sindaco di Concordia sul Secchia, cittadina tra le più colpite dal terremoto. Rieletto nel 2019 è stato il politico che ha gestito la parte più complessa della ricostruzione.

Rispetto ai vicini di Finale Emilia e San Felice i lavori procedono più spediti che altrove nonostante il centro storico appare ancora come un cantiere a cielo aperto. «Solo ora sta partendo la ristrutturazione del palazzo comunale», dice Prandini. Un edificio antico e grande nel cuore della cittadina. In effetti è così: le impalcature avvolgono ancora la facciata della struttura. «L’iter è stato difficile per via delle autorizzazioni della sovraintendenza», aggiunge il sindaco, che spiega come la pandemia iniziata nel 2020 ha contribuito a rallentare ulteriormente i cantieri. «Terminata l’emergenza Covid adesso è subentrata la questione delicata del caro prezzo dei contratti in essere», precisa Prandini. Non c’è tregua, insomma, per chi amministra i comuni del cratere sismico.

«In città abbiamo avuto 430 cantieri, 354 sono finiti, perciò i contribuiti regionali liquidati ammontano solo per Concordia a 126 milioni di euro a fronte di 145 concessi, dunque ci sono ancora cantieri per 20 milioni», dice il primo cittadino, che si commuove ricordando l’impegno dei volontari che nei giorni drammatici del terremoto ha aiutato Concordia a rialzarsi: «Faremo un libro e una sorta di documentario sulle loro storie». Lo stato di emergenza finirà a dicembre 2022, «sono rimasti 30 persone fuori dalle loro abitazioni, a fronte di 400 subito dopo il sisma», precisa il sindaco.

Con Prandini, tuttavia, riflettiamo anche su un altro aspetto che ha sconvolto il territorio. E lui non si nasconde a differenza di altri suoi colleghi che preferiscono fare finta che non sia accaduto nulla: il ruolo della ‘ndrangheta prima, durante e dopo il sisma. «Come comune ci siamo costituti parte civile al processo Aemilia, per danno di immagina procurato da un’azienda del Modenese che ha lavorato nella realizzazione delle scuole e sono stati trovati frammenti di amianto».

Un gesto simbolico forte, messaggio chiaro ai mafiosi: non siete portatori di ricchezza, ma deturpatori del territorio che producono danni nel sistema economico e anche di immagine. Non sono molti ad averlo seguito su questa strada. «Credo che le white list, l’elenco di aziende pulite certificate dalle prefetture, abbia funzionato come controllo preventivo», è l’opinione di Prandini.

A Finale Emilia, non distante da Concordia, le cose sono andate diversamente. Il municipio nel pieno della ricostruzione è stato travolto dall’inchiesta sulla ‘ndrangheta emiliana: è stato arrestato il capo del settore lavori pubblici, poi condannato in via definitiva. Giulio Gerrini, questo il suo nome, aveva favorito una società storica del territorio impegnata anche nella ricostruzione ma infiltrata dalla cosca. Il comune di Finale ha rischiato di essere sciolto, sarebbe stato il secondo in regione dopo Brescello. Alla fine il ministero dell’Interno non a ritenuto di farlo nonostante la durissima relazione dei commissari con cui chiedevano lo scioglimento. Vicende che hanno certamente rallentato la ricostruzione. Finale, infatti, è tra i paesi del cratere più indietro.

RIDERE DELLA TRAGEDIA

Il 29 maggio 2012, alle ore 13.29, una telefonata rivela i piani della ‘ndrangheta emiliana: sfruttare la devastazione del terremoto per arricchirsi. Il dialogo è stato intercettato dai carabinieri di Modena e fa parte della montagna di intercettazioni che hanno portato alle condanne, in alcuni casi ormai definitive, dei boss della ‘ndrangheta emiliana, imputati nel celebre maxi processo Aemilia, figlio di un’indagine iniziata nel 2010 ma che nel 2012 subisce un’accelerazione per l’affiorare dei progetti imprenditoriali dei clan nell’ambito dei lavori di ricostruzione. Cambia lo scenario investigativo, perché la fame di profitto degli ‘ndranghetisti porta a svelare la rete di complicità nelle istituzioni e nell’imprenditoria locale. Dunque la telefonata che un po’ segna questa accelerazione è una chiacchierata tra due impresari affiliati alla cosca. Uno dice all’altro: «È caduto un capannone a Mirandola». La risposta inizia con una grassa risata, di gioia per il futuro ricco di opportunità:«(Ride)…eh, allora lavoriamo là…». Il socio dà la  carica e spinge all’azione immediata: «Ah sì, cominciamo facciamo il giro…andiamo a vedere perché il lavoro a tutto andare là». Il piano si delinea nella testa dei due imprenditori della cosca:«Comunque ce ne sono disastri là… Gaetà… dei capannoni… scassati in terra… (impreca)… che ora… dice che ora… stanno facendo una proposta… di fare tutto di legno Gaetà… dobbiamo preparare tutte le società… dobbiamo preparare… tutta la documentazione delle società». è tutto pronto, ribadisce l’altro: «Magari… magari… e si eh… te l’ho detto che a me… domani mattina viene uno… che vuole farsi fare dieci case di legno».

Ridevano in Emilia gli uomini del malaffare così come hanno riso tre anni prima i due affaristi della cricca della ricostruzione de L’Aquila, passati alla storia per le risate sui morti e sui possibili affari da concludere con i cadaveri ancora sotto le macerie. Sintomi di un paese che non impara dal passato. Memori di quanto accaduto a L’Aquila in Emilia avrebbero dovuto porre più attenzione. Così non è stato. Perché sotto il cappello dell’emergenza le regole diventano un fardello di cui liberarsi. Il metodo classico italiano ha garantito alle ditte della ‘ndrangheta emiliana di giocare un ruolo cruciale fin dall’inizio. I primi report degli investigatori sulla presenza dei camion delle cosche impegnati a raccogliere i detriti nei paesi della bassa modenese risalgono a pochi mesi dopo le scosse. Uno dei documenti più significativi riportava il dato della massa spostata dai mezzi della ‘ndrangheta: più della metà dei calcinacci è stata trasportata da aziende della cosca più potente in regione, quella che fa capo alla famiglia Grande Aracri, espressione massima della ‘ndrangheta emiliana, originaria di Cutro, provincia di Crotone ma stabilmente operativa tra Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza.

Il 7 novembre dello stesso anno accadono molte cose degne di nota. La prima è lo smantellamento dell’ultima tendopoli presente, segnale positivo per il territorio che ambiva alla ripartenza immediata. Il secondo fatto, tuttavia, andava in senso contrario: la notte precedente, a Reggiolo, una decina di camion per il movimento terra sono stati bruciati nel parcheggio della ditta. Nello stesso periodo, poi, nel silenzio più totale decine di società erano state colpite da interdittive del prefetto di Reggio Emilia, alcune lavoravano già nella ricostruzione altre ambivano a farlo.

SISTEMA

In tutta la regione nel 2020 sono state emesse 235 provvedimenti interdittivi dalle prefetture di ogni capoluogo. Il dato ha catapultato l’Emilia Romagna ai primi posti di questa classifica, che è indicatore di un radicamento profondo delle mafie imprenditoriali. Tra il 2009 e il 2014, gli anni del terremoto, della ricostruzione e dell’inizio dell’inchiesta Aemilia sulla ‘ndrangheta emiliana solo la prefettura di Reggio Emilia aveva emanato 61 interdittive per aziende che lavoravano nel territorio reggiano. Il 90 per cento erano ditte del network ‘ndrangheta. Oggi, come rivelato da Domani nella prima puntata, i numeri sono maggiori. Tuttavia quei provvedimenti erano stati una rivoluzione per il territorio. E avevano corroborato il materiale già in mano alla procura antimafia di Bologna che indagava sul clan Grande Aracri.

Per frenare l’attività della prefettura guidata all’epoca da Antonella De Miro la ‘ndrangheta aveva creato una struttura dedicata a occuparsi di rispondere mediaticamente a quello che loro consideravano un attacco frontale dello stato. I capi mafia, seguiti da professionisti dell’informazione, hanno fatto interviste e uscite pubbliche per ribadire un concetto: le ditte colpite erano discriminate solo perché i titolari erano originari della Calabria. In questo sistema di difesa la ‘ndrangheta aveva coinvolto anche politici di centro destra e centro sinistra.

La ‘ndrangheta, dunque, non aveva intenzione di rinunciare al business del momento: la ricostruzione post terremoto. E spesso ha trovato le porte dei cantieri spalancate.

Fonte:https://www.editorialedomani.it/fatti/terremoto-ndrangheta-emilia-romagna-vusroq4r