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il Procuratore nazionale Federico Cafiero De Raho:«A Roma la mafia è capillare. E i clan usano la città come lavatrice di denaro sporco»

L’Espresso, 08 novembre 2019

«A Roma la mafia è capillare. E i clan usano la città come lavatrice di denaro sporco»

Le sentenze sulla Capitale e Bologna eliminano il reato di associazione mafiosa. Eppure il metodo è sempre lo stesso: intimidazione e assoggettamento. Parla il Procuratore nazionale Federico Cafiero De Raho

DI GIOVANNI TIZIAN

È mafia. Anzi no. Prima la sentenza della Cassazione sul “Mondo di mezzo “ di Massimo Carminati, la fu mafia Capitale, per intenderci. Poi la corte d’Appello di Bologna che cancella il reato di associazione mafiosa, riconosciuto in primo grado, per il re del gioco d’azzardo legale legato alla ’ndrangheta e riconduce il tutto a una semplice banda di delinquenti lasciando tuttavia l’aggravante del metodo mafioso per alcuni reati. Giudici che smentiscono altri giudici. E il cittadino che fatica a orientarsi in questo continuo altalenarsi di giudizi. Ne abbiamo parlato con il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, che ha vissuto in prima linea l’evoluzione delle mafie. Prima a Napoli sul fronte di Gomorra e dei clan diventati miliardari con l’affare “monnezza”, poi a Reggio Calabria dove ha toccato con mano la masso-’ndrangheta messa sul banco degli imputati dall’aggiunto Giuseppe Lombardo. Gli scenari vissuti da protagonista da De Raho sono contraddistinti da organizzazioni che fanno parte di sistemi criminali più complessi, nei quali il capitale relazionale conta più del kalashnikov.

Procuratore, proviamo a partire dalle basi per nulla scontate oggi. Ci può spiegare cos’è la mafia, cosa sono le mafie?
«Da un punto di vista tecnico-giuridico, il reato previsto dal 416 bis delinea un’organizzazione che si distingue per l’utilizzo del metodo mafioso, mentre l’associazione semplice, punita dal 416, non usa tale metodo»

Davamo per scontato cosa si intendesse per metodo mafioso, ci sbagliavamo.
«Il metodo mafioso porta con sé la forza intimidatoria e di assoggettamento, da questi elementi deriva l’omertà, la paura e la soggezione di chi subisce le attività del gruppo criminale. Ma è proprio su questa linea interpretativa che si gioca la partita. In passato si riteneva che l’esistenza della cosca mafiosa fosse determinata soprattutto dalla territorialità: è mafia se ha un territorio di dominio definito e circoscritto sul quale esprime la propria forza intimidatrice. Da qui le conferme in Cassazione dell’esistenza della camorra, della ’ndrangheta e di Cosa nostra. Forza-territorio, il binomio che ha prevalso per molti anni. Ma nel tempo i giudici si sono resi conto che esistono organizzazioni la cui forza si può manifestare non per forza su un territorio o area geografica. Sono arrivate così le condanne per 416 bis di gruppi criminali albanesi, nigeriani e cinesi, che agivano con metodo mafioso sulle loro comunità e non tanto sul territorio circostante. Si è fatto perciò un salto di qualità interpretativo laddove si è ritenuto che possono esistere “piccole mafie” diverse da quelle tradizionali. E questo ha permesso di riconoscere come associazioni mafiose le cellule autonome delle mafie tradizionali fuori delle regioni meridionali. Oppure pensiamo alle “piccole mafie” di Ostia, il percorso di riconoscimento del clan Fasciani ha seguito giudizi altalenanti: primo grado mafia, secondo grado non lo era più, per la Cassazione ritorna a essere mafia e rinvia in Appello. Questi esempi dimostrano come ormai la giurisprudenza dia più valore al metodo del gruppo criminale che al territorio».

Eppure le ultime sentenze, la Cassazione su Carminati e la Corte d’Appello a Bologna…
«Ovviamente non mi esprimo sul giudizio dato dai giudici. Aspetteremo le motivazioni e capiremo solo allora se la Corte ha intrapreso un diverso orientamento. Tuttavia dobbiamo tenere in considerazione un altro elemento. Ci troviamo sempre più spesso a investigare sulle mafie silenti, organizzazioni storiche che però si impongono nel mercato senza alcuna minaccia. Pensiamo alle mafie tradizionali radicate nel Nord Italia, che operano senza atti di violenza esplicita e si impongono nel tessuto economico con la corruzione, con la forza dell’appartenenza a un gruppo. Non, dunque, l’intimidazione classica».

Un modello che in realtà ricorda la mafia raccontata da Leonardo Sciascia nel “Il giorno della civetta”. Il potere legale a braccetto con quello mafioso. Un sistema unico, una mafia trasparente, che si vede e non si vede. Per colpirlo servono nuove leggi?
«Fermo restando il 416 bis, che dal 1982 ci permette di contrastare con efficacia i clan nelle loro diverse declinazioni, dovremmo cercare di guardare anche come queste ulteriori evoluzioni criminali possono essere affrontare nel migliore modo possibile».

Carminati e il suo “mondo di mezzo” rientrano in questo processo evolutivo?
«Da quel che abbiamo visto a Roma colpisce l’altalena di giudizi. Si tratterà di capire che interpretazione hanno dato i giudici di Cassazione agli elementi raccolti. Anche perché è utile sottolineare come sia stata proprio la Cassazione in questi ultimi anni a spostare l’attenzione dal concetto di territorio occupato al metodo usato, dando più valore a quest’ultimo nel riconoscimento del 416 bis. Le mafie del nostro tempo aggregano pezzi di economia sana, alla quale offrono servizi illegali. Così entrano e conquistano settori produttivi. Una volta infiltravano con le estorsioni, l’imposizione per entrare negli appalti. Oggi accedono con il metodo dell’accordo, facendo risultare quest’ultimo vantaggioso. Seppure possa sembrare meno invasiva, condiziona pesantemente la vita delle persone. Pensiamo per esempio agli imprenditori perbene che non scendono a patti e restano esclusi dal giro di appalti e commesse. Che cos’è questa se non mafia?».

Neppure la Banda della Magliana lo era secondo la Cassazione. Eppure c’erano omicidi, sequestri, droga, rapporti con apparati deviati dello Stato, con le mafie tradizionali.
«In quegli anni però i giudici utilizzavano l’interpretazione più restrittiva del 416 bis. Fondata soprattutto sulla territorialità».

Ma quindi a Roma la mafia non c’è?
«Nella Capitale c’è una capillare presenza mafiosa, con decine di clan che usano la città come lavatrice di denaro sporco. Quindi c’è ed è forte».

Risaliamo la penisola. Nel processo d’Appello di Bologna contro il re del gioco d’azzardo legale (ex narcotrafficante legato alla ’ndrangheta) i giudici hanno stabilito che si trattava di associazione semplice, lasciando però l’aggravante del metodo mafioso per alcuni reati. In primo grado, invece, il tribunale aveva riconosciuto il 416 bis. In secondo grado, in pratica, si riconosce il metodo per qualche singolo fatto ma non per l’intera organizzazione.
«Anche per la sentenza di Bologna dovremo attendere le motivazioni. Possiamo intanto dire che il metodo è ciò che contraddistingue l’associazione. Non è facile scindere il metodo dall’organizzazione».

Certo è difficile farlo comprendere ai cittadini non addetti ai lavori.
«Giovanni Falcone diceva: “Cosa nostra è forte perché ha rapporti con la politica e con i poteri economici”. Per smascherare la parte “invisibile” delle mafie è necessario mettere insieme elementi che vengono da anni di indagini, valorizzare quei dettagli che in prima battuta sembravano marginali».

Invisibili. Un altro concetto complesso da spiegare al mio vicino di casa.
«Esistono livelli occulti, riservati, all’interno di un’organizzazione, sconosciuti agli stessi affiliati, ai manovali dei clan».

Riciclaggio, corruzione, evasione. Reati spia della presenza mafiosa ma che la maggioranza delle persone non percepisce come allarmanti.
«Non è semplice far comprendere la complessità di clan che non sparano. Però le ricadute delle mafie d’affari sono sotto i nostri occhi, così come i loro investimenti. Pensiamo ai miliardi di euro riversati nelle nostre città che provengono dai traffici di cocaina. Questo è inquinamenti dell’economia. C’è un fiume di denaro che non riusciamo sempre a intercettare».

Dopo la sentenza di Cassazione su Carminati, alcuni hanno esultato: è “solo corruzione”, in fondo siamo a Roma, “da sempre è così”. La mazzetta non fa paura?
«Dovrebbe farne molta invece. Distrugge l’economia, riduce la libertà degli imprenditori, dei cittadini. Trasforma i diritti in favori concessi al miglior offerente. Chi non paga resta fuori, fallisce, muore. E non è un caso che nelle indagini sulla corruzione si stiano usando strumenti antimafia. Anche perché sempre più di frequente scopriamo che sono le cosche a usare la corruzione per oliare meccanismi della pubblica amministrazione».

Le indagini sulla massoneria e le mafie, pensiamo a Reggio Calabria, le inchieste sul sistema messo in piedi da Antonello Montante dietro il paravento della legalità, mafia Capitale e le indagini sul gioco d’azzardo legale, come quella di Bologna. C’è un filo interpretativo unico?
«Il tratto comune è la complessità. Sono fenomeni che sfuggono allo stereotipo del padrino. Si inseriscono in contesti più ampi, di sistemi criminali che interagiscono e si rafforzano. Un tempo era sufficiente guardare alla struttura della cosca, oggi andrebbero osservati i settori economici di alto livello, ma qui riconoscere la mafia diventa ancora più difficile. La confisca delle attività, piccole e medie, di proprietà delle cosche non è del tutto indicativa della vera pervasività delle organizzazioni».

Cioè?
«Bisogna investire di più sulle indagini che puntano ai grandi meccanismi economici e finanziari. Andrebbe a vantaggio di chi in quel settore rispetta le regole ed è tagliato fuori da chi invece costruisce imperi con altri metodi».

Non le sembra che l’attenzione di tutti sia notevolmente calata sulla questione mafiosa?
«Che si parli poco di mafia mi sembra evidente. Quando Mario Draghi era a capo di Bankitalia, nella sua relazione finale denunciava l’asfissiante pressione delle mafie sull’economia italiana. Draghi ci stava dicendo: il Paese ha una grande zavorra, le mafie. Da allora, tuttavia, i fatti indicano che nulla è cambiato. Le mafie si sono raffinate ulteriormente e continuano a infettare il mercato e i gangli vitali delle istituzioni».